Giovanni Prati

Olindo Malagodi 1878 Indice:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. II, 1916 – BEIC 1901920.djvu sonetti Inide e il satiro Intestazione 23 luglio 2020 25% Da definire

Incantesimo Sei tu?
Questo testo fa parte della raccolta XIV. Da 'Iside'
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XXIV

INIDE E IL SATIRO

E fuor balzò dal rugiadoso arbusto
sui margini, l’obliqua aura d’un nume
con sé recando, in nuditá di fiera,
il caprigena insigne.
Ei quel viluppo
5reggea di strane inopinate forme
su due tibie di bécco; irta dal mento,
quasi fastel d’acuminati spini,
gli uscia la barba; gli lustravan gli occhi,
com’usa agli ebri; e mal dissimulate
10fiorian le corna dalla scabra chioma.
Pria, cupido, cercò negli odorosi
ginepri e fra le dense alghe del rivo
qualche driade o napea, forse in quel punto
dalle labbra villose e dai lacerti
15ita in fuga del nume. E, dopo indarno
ritentata la frasca e corsi in giro
i verdi calli, a’ piè d’un giovinetto

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salcio ei corcossi e in un profondo sonno
giacque sommerso.
Allor due belle e bianche
20ninfe da una vicina elee a quel loco
venner danzando: ed una esser l’ancella
parea deH’altra, che sospese a tergo
le frecce d’oro, il portamento e il viso
palesavan reina.
— Ecco il soave.
25Diana madre, rapitor futuro
del mio cintiglio! E sará ver ch’io deggia
mescolarmi a costui?
— Giove lo ha detto,
e né il ciel né l’averno, Ini de cara,
espugnò mai la volontá di Giove.
30Quando in candido cigno a te converso
fu il re de’ numi, e ti velò coll’ali,
perché indignarlo? e ai talami divini
esser ribelle? Da quel giorno al fiero
satiro il padre dell’Olimpo in donna
35t’ha destinata: e da costui tu fuggi
vanamente, o fanciulla. Io, che conobbi
le tue caste vigilie e la tua fede
all’arcano mio rito, io però farti
posso un incanto e la tua forte pena
40disacerbar.
— Non indugiarmi, prego,
madre, l’aita.
— È in questo bosco un’erba,
che qual la chiude in bocca e va sognando
nòve parvenze, in veritá le mira
come le sogna. E tu non il deforme
45satiro, ma il desio della tua mente
abbraccerai.
— Dov’è quell’erba, o madre?
dov’è quell’erba?

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— In questa siepe. Allunga
la nivea mano a quei due muschi: or vedi
il fil vermiglio che su lor si piega?
50Tu l’hai giá còlto. Addio. —
Cosí disparve
Diana madre, e il satiro le ciglia
slegò dal sonno.
Il glorioso intanto
Apolline di Frigia era nel vivo
pensier della fanciulla affigurato;
55della fanciulla, che tenea giá chiuso
il filo d’erba nella rosea bocca
E, veduto il caprigena levarsi
colle forme di Febo ed assalirla,
sparso d’un lume che parea celeste,
60gli cascò nelle braccia.
Ahi, breve inganno!
ma breve, ahi quanto e lacrimabil sempre!
ché, mentr’ella sentia nel grande amplesso
perir di sua virginitá la rosa,
ed insana l’obblio dell’universo
65in un bacio d’amore iva suggendo,
le fuggi dalle labbra, incustodita,
la magica erba. Un gemito ella mise,
gemito orrendo, a contemplarsi avvinta
col mostruoso iddio. Nelle pupille
70senti nuotar la moribonda luce.
e piú non vide né il lascivo amante,
né il bel riso de’ cieli.
Ivi, sui muschi,
dormi la dolce estinta insin che il raggio
di Febo, il raggio che si mal le piacque,
75vesti, morendo, di purpureo lume
la nivea spoglia; e, quando umide a valle
calaron l’ombre e la falcata luna
posò sui monti, alla funerea gleba

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venne Diana colle ninfe, e al clivo
80portár la giovinetta e di giunchiglie
le formaron la fossa.
Il detestato
satiro, intanto, s’ascondea nel cavo
sen d’una quercia, a contemplar le bianche
sacerdotesse in quell’amabil rito.
85Quanto al saturnio Giove, ei nel sereno
regno d’Olimpo si facea la tazza
colmar d’ambrosia; e al bevitor celeste
nome ignoto sonò d’Inide il nome.