Il tulipano nero/Parte seconda/XII
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XII
La canzone del fiori.
Intanto che compievansi gli avvenimenti da noi or ora raccontati, lo sfortunato Van Baerle, obliato nella stanza della fortezza di Loevestein, soffriva per parte di Grifo tutto ciò, che un prigioniero può soffrire, quando il suo carceriere si sia prefisso di trasformarsi in carnefice.
Grifo non avendo nuova nessuna di Rosa, nuova nessuna di Giacobbe, si persuase che tutto ciò che eragli accaduto, fosse opera del demonio, e che il dottore Van Baerle fosse un di lui inviato sulla Terra.
Ne resultò che una bella mattina, era il terzo giorno della sparizione di Rosa e di Giacobbe, — ne resultò che una bella mattina che salì nella stanza di Cornelio era anche più furioso del solito.
Costui con i gomiti appoggiati alla finestra e la testa dentro alle mani, gli sguardi perduti nell’orizzonte nebbioso, che i molini di Dordrecht rompevano con le loro ali, spirava l’aria per respingere le sue lacrime e per impedire alla sua filosofia che si evaporasse.
Eranvi sempre i piccioni ma non v’era più la speranza, ma l’avvenire mancava.
Ahimè! Rosa sorvegliata non più sarebbe potuta venire; potrebbe scrivere forse? ma scrivendo potrebbe fargli pervenire le sue lettere?
No! Aveva scorto la sera, e la sera innanzi troppo furore e malignità negli occhi del vecchio Grifo, perchè la di lui vigilanza si rallentasse un istante; e poi oltre la reclusione, oltre l’allontanamento, chi sa che non soffrisse tormenti ancora peggiori. Quel bestiale, quel sacripante, quell’ubriacone non vendicherebbesi alla maniera dei padri del teatro greco? Quando il ginepro montavagli al cervello non dava al suo braccio troppo bene rimesso da Cornelio, la vigoria di due braccia e di un bastone?
L’idea che Rosa forse fosse maltrattata, esasperava Cornelio. Sentiva allora la sua inutilità, la sua impotenza, il suo niente. Dimandava a sè stesso se fosse giusto che due creature innocenti soffrissero tanto; e certamente in quel momento la sua fede vacillava. La disgrazia non rende credenti.
Van Baerle aveva bene formato il progetto di scrivere a Rosa; ma Rosa dov’era?
Aveva bene avuto l’idea di scrivere all’Aya per allontanare dalla sua testa il nuovo oragano, che Grifo senza dubbio stava suscitandogli contro per una denunzia.
Ma con che scrivere? Grifo aveagli tolto apis e carta. D’altronde avesse avuto pure l’uno e l’altra, dicerto non sarebbe stato Grifo che sarebbesi incaricato della sua lettera.
Allora Cornelio andava e riandava nella sua testa tutte quelle povere furberie solite impiegarsi dai prigionieri.
Aveva ancora pensato a una evasione, cosa a cui non aveva pensato, quando vedeva Rosa tutti i giorni. Ma più vi pensava, più una evasione parevagli impossibile. Egli era di quelle nature perfette, che hanno orrore anco dell’apparenza del disonesto; e perciò ogni buona occasione della vita loro manca, sbaglio imperdonabile di non aver preso la via dei volgari, battuta dalla gente di mezza tacca, la quale menali a tutto.
— Come sarebbe possibile, dicevasi Cornelio, che io me ne possa fuggire di Loevestein, donde già se ne fuggì Grozio? dopo questa evasione, non è stato a tutto previsto? Le finestre non sono assicurate? le porte non sono doppie e anco triplicate? I guardioli non sono dieci volte più vigilanti?
«E poi oltre le finestre assicurate, le porte doppie, i guardioli più vigilanti di prima, non ho io un Argo infallibile, un Argo tanto più maligno, che ha gli occhi dell’ira, non ho io Grifo?
«Infine non evvi una circostanza che mi paralizza? L’assenza di Rosa. Quand’anco impiegassi dieci anni della mia vita a fabbricarmi una lima per segare le mie sbarre, a intrecciare le mie corde per discendere dalla finestra, o ad attaccarmi delle ali alle spalle per involarmi come Dedalo... Ma sono in un pessimo bivio! La lima potrebbesi consumare, le corde rompere, le mie ali struggersi al sole: mi ammazzerei malamente. E al più mi rialzerei zoppo, monco, sfilato; e sarei classato nel museo dell’Aya tra la porpora tinta di sangue di Guglielmo il Taciturno e la femmina marina raccolta a Stavoren, non avendo la mia intrapresa avuto per resultato che di procurarmi l’onore di far parte delle curiosità dell’Olanda.
«Ma no; un bel giorno, ed è assai meglio, Grifo farammi qualche angheria. Perdo la pazienza dopo aver perduto la gioia e la società di Rosa, e soprattutto dopo aver perduto il mio tulipano. Non cade dubbio che un giorno o l’altro Grifo non mi attacchi d’una maniera sensibile al mio amor proprio, al mio amore o alla mia sicurezza personale. Dalla mia reclusione in poi mi sento una forza strana, stizzosa, insopportabile; ho un pizzicore d’accapigliarmi, un appetito di adoprare le mani, una sete di pugni; salterei insomma con tutta la buona volontà del mondo alla gola del mio vecchio aguzzino, e lo strangolerei!»
Cornelio a quest’ultimo proponimento arrestossi un istante con la bocca contratta e l’occhio fisso. Un idea, che sorridevagli, affacciavasi alla sua mente.
— E già! continuò Cornelio, una volta Grifo strangolato, perchè non prendergli le chiavi? Perchè non prendere la scala, come se io avessi commesso l’azione la più virtuosa? Perchè non andare a trovar Rosa nella sua camera? Perchè non ispiegarle il fatto e saltar seco lei della finestra nel Wahal? Io so certo nuotare per due. Con Rosa? ma Grifo, mio Dio, è suo padre; ella per quanto mi ami, non potrebbe perdonarmi giammai d’averle strangolato il padre benchè bestiale, benchè più che severo cattivo. Bisognerà allora entrare in discussione, in ragionamento, durante il quale sopraggiungerà qualche aiuto, qualche soprastante, che avendo trovato Grifo ancora scalciante o strozzato affatto, mi rimetterà le mani a dosso; e rivedrò allora il Buitenhof e il lampeggiare di quella maledetta spada, che questa volta non si arresterebbe a mezzo, e farebbe conoscenza con la mia nuca. Niente di tutto questo, Cornelio, amico mio, niente; gli è un cattivo mezzo! Ma allora cosa almanaccare? come ritrovar Rosa?»
Tali erano le riflessioni di Cornelio, tre giorni dopo la scena funesta della separazione tra Rosa e suo padre giusto nel momento, in cui noi abbiamo mostrato Cornelio appoggiato sulla sua finestra. E in questo stesso momento entrò Grifo.
Ei teneva in mano un enorme bastone; gli occhi suoi balenavano un pensiero sinistro; un sinistro sorriso increspava le sue labbra; un sinistro ondeggiamento agitava la sua persona, e il suo contegno silenzioso spirava disposizioni sinistre.
Cornelio affranto, come lo abbiamo visto, dalla necessità, che il raziocinio avea condotto fino alla convinzione, Cornelio lo intese entrare, indovinò che fosse lui, ma non si volse nemmeno un tantino.
Ei sapeva che questa volta Rosa non verrebegli dietro.
Non avvi cosa più spiacevole a chi sia in vena di stizza, della indifferenza di coloro, cui deve essa dirigersi.
Fatta la spesa, si vuol godere. Uno che siasi montato la testa, uno che abbiasi messo il sangue a bollore, vuole almeno la soddisfazione di una piccola scarica.
Ogni onesto briccone, che abbia aguzzato il suo cattivo genio, desidera di fare almeno una buona ferita a qualcuno.
Così Grifo, vedendo che Cornelio non fiatava, si mise a interpellarlo con un vigoroso:
— Ohè! ohè!
Cornelio canticchiò tra’ denti la canzone dei fiori, triste ma graziosa canzone.
Del fuoco segreto |
Questa canzone di un’aria calma e soave accresceva la placida melanconia, esasperava Grifo.
Percosse l’impiantito col suo bastone, gridando:
— Eh! signor cantante, non mi date retta?
Cornelio si volse:
— Buon giorno, disse.
E riprese la sua canzone.
Amando, ci uccide |
— Ah! stregone maledetto, tu mi prendi a gabbo! gridò Grifo.
Cornelio continuò:
Al ciel, nostra patria |
Grifo accostossi al prigioniero:
— Tu non vedi dunque che ho preso la buona via per metterti giudizio, e per farti confessare le tue scelleratezze?
— E io ci scommetto che siete impazzato, signor Grifo mio caro? disse Cornelio volgendosi a lui.
E siccome, nel proferire tai detti, vide la faccia alterata, gli occhi scintillanti, la bocca schiumante del vecchio carceriere:
— Diavolo! continuò, siam più che pazzi a quel che pare; siamo furiosi!
Grifo fece il molinello col suo bastone; ma senza scrollarsi, seguitò Van Baerle incrociando le braccia.
— Via messer Grifo, che vi salterebbe il ticchio di minacciarmi?
— Oh! sì, ti minaccio! urlò il carceriere.
— Con che?
— Primieramente guarda cosa tengo in mano.
— Un bastone, disse Cornelio con calma, e grosso bene; ma non posso supporre che mi vogliate minacciare con codesto.
— Ah! non lo puoi supporre! E perchè?
— Perchè ogni carceriere, che percuota un prigioniero, si espone a due punizioni; la prima art. 19 del regolamento di Loevestein:
«Sarà espluso ogni carceriere, ispettore e soprastante che metta le mani addossò ad un prigioniero di Stato».
— La mano, disse Grifo fuor di sè per la collera, non il bastone. Il regolamento non parla punto di bastone.
— La seconda, continuò Cornelio, la seconda, che non istà registrata nel regolamento, ma che si trova nel Vangelo, la seconda eccola:
«Chi di coltello ammazza convien che muoia.
Chiunque percuota col bastone, sarà rosolato col bastone.»
Grifo sempre più inasprito dal tuono calmo e sentenzioso di Cornelio, brandì il suo randello; ma al momento che alzavalo, Cornelio slanciossi su lui, e glielo strappò di mano, e se lo mise sotto al braccio!
Grifo urlava di rabbia.
— Via, via, buonomo, disse Cornelio, non vi esponete a perdere l’impiego.
— Ah! stregone maledetto! ti arriverò altrimenti, va là! mugghiò Grifo.
— Alla buon’ora.
— Tu vedi che la mia mano è vuota, eh?
— Già, lo vedo e ne godo.
— Tu sai che non l’è egualmente quando la mattina salgo la scala?
— Ah! l’è vero; mi portate secondo il solito la più trista minestra del mondo, o la più misera petanza che possa mai immaginarsi. Ma ciò non è mica per me una privazione; mangio pane, e il pane quanto più cattivo è pel tuo gusto, o Grifo, tanto è migliore pel mio.
— È migliore pel tuo?
— Sì.
— La ragione?
— È semplicissima.
— Sentiamola dunque.
— Volentieri; so che col darmi cattivo pane, tu credi farmi soffrire.
— Il fatto però sta, che io non te lo do per farti piacere, o brigante.
— Benissimo! Io che sono stregone, come sai, cangio il tuo pane cattivo in buono, che mi appetisce più dei biscottini; ed allora ho un doppio piacere, prima di tutto di mangiare secondo il mio gusto, e poi di farti orribilmente arrabbiare.
Grifo urlò di collera, dicendo:
— Ah! tu confessi dunque che sei stregone!
— Perbacco! e di che tinta. Non lo dico davanti a persone, perchè ciò mi farebbe correre in mano del beccaio come Goffredo o Urbano Grandier, ma siccome siamo a quattr’occhi, io non ci vedo nessuno inconveniente.
— Bene, benone, rispose Grifo, ma se lo stregone può fare il pane di nero, bianco; se egli non ne abbia neppure un pochino, può egli morire di fame?
— Psih! fece Cornelio.
— Dunque non ti porterò più punto pane, e allora ci rivedremo tra otto giorni.
Cornelio impallidì.
— E comincieremo da oggi, continuò Grifo. Giacchè tu sei così bravo stregone, vediamo un po’, se cangi in pane i mobili della stanza; che quanto a me guadagnerò ogni giorno i diciotto soldi, che mi si danno pel tuo mantenimento.
— Sarebbe un assassinio! esclamò Cornelio, trasportato da un primo movimento di terrore ben concepibile, che venivagli ispirato da tal genere orribile di morte.
— Bene, continuò Grifo rampognandolo, bene, dappoichè sei tu stregone, vivrai a tuo marcio dispetto.
Cornelio riprese la sua aria disinvolta, e scuotendo la testa:
— Non hai visto che ho fatto venire i piccioni di Dordrecht?
— Ebbene?... disse Grifo.
— Ebbene! i piccioni sono un buon’arrosto; e un uomo che mangi ogni giorno un piccione arrosto, non può, mi pare, morire di fame.
— E il fuoco? disse Grifo.
— Il fuoco! ma tu sai bene che ho fatto un patto col diavolo. E pensi tu, che il diavolo mi lasci mancare il fuoco, quando il fuoco è il suo elemento?
— Un uomo per robusto che sia, non saprà mangiare un piccione tutti i giorni. Senosi fatte per questo delle scommesse, e sonosi dati per vinti.
— Benissimo! Quando sarò nauseato dei piccioni, farò montar quassù i pesci del Wahal e della Mosa.
Grifo fece tanti d’occhi.
— Amo molto i pesci, continuò Cornelio; tu non me ne porti mai. Ebbene! giacchè vorresti farmi morire di fame, m’imbandirò allora del pesce.
Grifo fu lì lì per sfinire di collera e di spavento. Ma riavendosi:
— Ebbene, disse mettendo la mano in tasca, giacchè mi vi forzi...
E ne cavò un coltello aperto.
— Ah! un coltello! esclamò mettendosi sulle difese col suo bastone.