Il tesoro della Montagna Azzurra/X - Il passaggio dei «notù»

X — Il passaggio dei «notù»

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IX — L'assalto dei pesci-martello XI — Sotto le «rhizophore»

X — Il passaggio dei «notù»


Al tempo in cui si svolge questo veridico racconto, la Nuova Caledonia non era ancora colonia francese, né serviva di asilo ai forzati, specialmente politici. Era una terra abbandonata al primo occupante, popolata esclusivamente da antropofaghi, sempre in guerra fra loro per procurarsi arrosti di carne umana e che avevano solo di quando in quando qualche rapporto con i naviganti europei, americani e cinesi i quali frequentavano quelle coste per pescarvi per lo più il trepang, un mollusco cilindrico che ha un po' di sapore del gambero, pur essendo coriaceo e che è tanto ricercato dai buongustai del Celeste Impero. Scoperta da Coock, il grande navigatore inglese, nel 1774; visitata più tardi da Entrecasteaux nel 1792, era poi rimasta una terra quasi ignorata ai naviganti del Pacifico. Vuotate le noci di cocco, i cinque naufraghi si erano sdraiati sull'erba per prendere un po' di riposo. Quantunque non ignorassero quanto quella terra fosse pericolosa, rassicurati dal profondo silenzio che regnava nella vicina foresta e dall'assoluta assenza degli antropofaghi, avevano deciso di fare un sonnellino prima di sorprendere i due cacciatori di notù. Non erano trascorsi cinque minuti che già sonnecchiavano, con una mano posata sulle carabine per essere pronti a servirsene in caso di pericolo. Non dormivano però tutti: Emanuel non aveva chiuso occhio, e spiava attentamente i compagni con uno sguardo maligno, che avrebbe preoccupato profondamente il capitano se avesse potuto sorprenderlo. Il giovane attese parecchi minuti, poi quando udì che tutti russavano, prese il suo fucile, si alzò senza far rumore e si diresse verso le rhizophore. Pareva che cercasse qualcosa.

— Sarà qui o molto lontano che saranno sbarcati o che sbarcheranno?— si chiese, dopo aver riflettuto a lungo. — Avranno raccolto qualcuno dei miei segnali che da quindici giorni affido alle onde? Ho gettato non meno di cinquecento sugheri con quel misterioso emblema. Che nessuno sia stato raccolto? Oh! Spero di non perdere la mia parte del tesoro. Vorrei però avere qualche loro notizia o trovare anch'io uno dei loro segnali... Bah! Eseguiamo l'ordine.

A breve distanza dalle rhizophore cresceva un altro grande albero a lui perfettamente sconosciuto. Estrasse la navaja e incise profondamente la scorza in diversi luoghi, disegnando tre croci e tre uccelli che bene o male potevano rassomigliare a dei colombi.

— Lo troveranno? — si domandò, quand'ebbe finito. — Così mi ha detto di fare ed io obbedisco. Le tracce le lascerò dappertutto ogni giorno.

Dopo essersi ben assicurato che nei dintorni non c'era nessuno, tornò tranquillamente verso il fico baniano, sdraiandosi a breve distanza dal bosmano e chiudendo a sua volta gli occhi. Fu soltanto dopo il tramonto del sole che il capitano per primo fu svegliato da una serie di sordi muggiti, che sembravano emessi da una mandria di bufali pascolanti nel bosco vicino.

— I notù! — esclamò balzando in piedi. — Comincia il Kutio-Kueta... Su amici! I Kanaki sono già in caccia.

Il bosmano, poi gli altri si erano alzati a loro volta, ascoltando con un certo stupore, quegli strani muggiti che aumentavano d'intensità.

— Che cosa accade, don José? — chiese don Pedro. — Da dove proviene questo baccano? Ci sono dei tori qui?

— Sta per cominciare il passaggio dei colombi, — rispose il capitano. — Ecco i primi stormi che escono dal bosco e che si dirigono verso le rhizophore per rimpinzarsi di semi.

Infatti grosse bande di uccelli che si tenevano a poca altezza dal suolo, sbucavano fra i cocchi, i banani, i fichi e gli aranci della boscaglia, dirigendosi tutti verso il mare. Erano piccioni grossi quanto galline, con le penne colar bronzo, che avanzavano mandando dei sordi muggiti, piuttosto impressionanti. Giungevano a centinaia, a migliaia, senza curarsi della presenza dei naufraghi.

— Che festa per i Kanaki! — esclamò il bosmano. — Per qualche mese non mangeranno carne umana.

— Sono buoni? — chiese Pedro.

— Migliori dei nostri polli, — disse il capitano.

— Peccato non poterli colpire!

— Guardatevi dal far fuoco se vogliamo sorprendere i due cacciatori.

— Che siano già in mezzo alle rhizophore?

— Certo, don Pedro. Siete pronti?

— Sì, — risposero tutti.

— Tu allora, Reton, girerai a destra con Emanuel, mentre noi piegheremo a sinistra per poter prendere in mezzo i cacciatori. Se cercano di fuggire verso il bosco, vi autorizzo a far fuoco... Silenzio e avanti!

Il drappello si divise; il capitano, con don Pedro e Mina, si inoltrò cautamente fra le rhizophore, dirigendosi verso il luogo dove avevano visto tendere i lacci. La notte era chiarissima, quantunque non splendesse la luna. I due uomini e la fanciulla procedevano curvi, muovendo con infinite precauzioni i fusti affinché i due kanaki non avvertissero la loro presenza.

— Alt! — disse a un tratto il capitano, che procedeva carponi.

— Siamo vicini? — chiese don Pedro, sottovoce.

— I kanaki stanno già cacciando.

— Riusciremo a sorprenderli? — chiese Mina.

— Lo spero, se Reton ed Emanuel giungeranno in tempo. Guardatevi dai rompiteste. Sono armi pericolose che questi selvaggi maneggiano con una straordinaria destrezza... Voi, señorita qualunque cosa accada, rimanete sempre indietro.

Stava per riprendere il cammino, quando due spari rimbombarono alla distanza di tre o quattrocento passi, seguiti subito da urla spaventose che sembrava non avessero nulla di umano. Il capitano mandò un grido:

— Reton!

La sua voce si confuse con quelle urla che risuonavano altissime nella notte.

— Disgraziati! — esclamò poco dopo il capitano. — Sono stati presi.

Alcune linee di fuoco, che scomparivano verso la foresta, si scorgevano al disopra delle rhizophore. Sembrava che un grosso numero di selvaggi, muniti di tizzoni infiammati, fuggissero.

— Amici, avanti! — gridò don José.

Tutti si erano messi a correre, e anche Mina non restava indietro. Le urla continuavano, perdendosi in lontananza. Finalmente cessarono. Soltanto l'oceano muggiva al largo, avventando le sue ondate verso le piante acquatiche. Il capitano si era fermato presso il luogo dove aveva visto i due cacciatori tendere i lacci. Un singhiozzo che non era riuscito a frenare, gli era sfuggito.

— Perduti! Perduti! — esclamò.

— Calmatevi, capitano, — disse don Pedro, che era però in preda a una forte commozione. — Noi non sappiamo ancora che cosa sia successo.

— Quei colpi di fuoco sono stati sparati dai miei marinai. Io conosco la detonazione della carabina di Reton, che porta palle incatenate. I cannibali li hanno sorpresi. Gran Dio! Che cosa succederà di quei disgraziati!

— Il bosmano non è uomo da lasciarsi sopraffare, — osservò Mina.

— Hai ragione, sorella, — rispose don Pedro. — E poi i selvaggi hanno sempre avuto paura delle armi da fuoco.

— È vero, — disse il capitano che si era calmato. — Quei due colpi di fuoco devono aver fatto delle vittime... Venite, amici. Se gli antropofaghi tornano, faremo pagare loro ben caro questo attacco.

Ascoltarono prima attentamente, poi non udendo alcun rumore avanzarono, tenendo le dita sul grilletto delle carabine. Percorsero così altri centocinquanta metri, poi il capitano si fermò bruscamente, aggrappandosi a un fusto.

— Che cosa c'è qui? — chiese.

Si curvò e mise le mani su un corpo umano a metà affondato fra le radici.

— Un morto! — esclamò.

Lo sollevò fra le braccia traendolo da una spaccatura piena d'acqua. Era il corpo di un kanako che aveva la testa fracassata da una palla di fucile.

— Quest'uomo è stato colpito dalle palle incatenate di Reton, — disse. — Questo orribile squarcio, che ha portato via metà della calotta cranica, non può essere stato prodotto che dalla catena.

— Non ne vedete nessun altro presso di voi?

— No.

— Allora Emanuel ha mancato il suo colpo.

— Certo don Pedro, — rispose il capitano. — Non l'ho mai visto sparare.

— Che cosa faremo ora, don José? — chiese Mina. — Lasceremo quei disgraziati nelle mani di quei cannibali?

— No, — rispose il capitano risolutamente. — Dovessi sfidare mille volte la morte, cercherò di strapparli a quei miserabili. Io non abbandonerò i miei uomini.

— Che ci sia qualche villaggio nei dintorni? — chiese don Pedro.

— Lo suppongo.

— Sarà molto popolato?

— Ordinariamente i neo-caledoni non si raggruppano in grande numero. Le loro tribù sono quasi sempre minuscole anche a causa dei continui massacri.

— Che cosa ci consigliate di fare?

— Di tornare al nostro rifugio, per ora. I kanaki non divorano subito i loro prigionieri, specialmente se sono vivi e aspetteranno qualche grande occasione: forse la festa del pilù-pilù... Sgombriamo. Noi non sappiamo ancora se tutti quei selvaggi si sono allontanati.

— Triste serata, — disse Mina, con un sospiro. — Disgrazie sul mare, disgrazie sulla terra, deve esser vero che i tesori portano sventura.

Il capitano che appariva molto abbattuto, si era rimesso in marcia per far ritorno al gigantesco fico baniano, sui cui rami avrebbero potuto trovare un asilo quasi sicuro. I tre naufraghi stavano per raggiungere i fusti fra i quali i due cacciatori avevano tesi i lacci, quando il capitano credette di scorgere due ombre umane nascondersi fra le radici.

— Preparate le armi, — disse precipitosamente.

Armò la carabina e avanzò, dicendo con voce forte:

— Amici!

Fra le radici si udì un lieve fruscio, poi un uomo che impugnava una di quelle mazze chiamate rompiteste, emerse da uno strappo delle rhizophore, rispondendo pure:

— Amici!

Il capitano e il kanako si guardarono per parecchi istanti senza parlare, come se si studiassero a vicenda, poi il primo riprese:

— Noi non ti vogliamo fare alcun male.

Il selvaggio approvò con un cenno del capo, senza però deporre la sua mazza. Dietro di lui intanto era sorto il compagno, armato di una scure di pietra. La notte era molto chiara e quelle cinque persone si poterono osservare reciprocamente benissimo, anche perché i fusti delle rhizophore non proiettavano nessuna ombra. A un tratto un doppio grido che parve di sorpresa sfuggì ai due kanaki. Lasciarono cadere le armi e si accostarono in preda a una visibile commozione al capitano e ai suoi compagni toccandoli sulla fronte e poi grattando loro le gote.

— Uomini bianchi! — esclamò finalmente quello che era armato del rompiteste, facendo due o tre salti e agitando pazzamente le mani. — Uomini bianchi!

— Ti stupisci? — chiese il capitano. — Certo non devi averne visti mai.

— Sì, anche il gran capo era bianco.

— Quale gran capo?

— Quello dei Krahoa, la nostra tribù.

Furono i naufraghi che questa volta si lasciarono sfuggire un grido di sorpresa. Era possibile che avessero avuto, appena sbarcati su quell'isola, una così prodigiosa fortuna dopo tanta sventura?

— I Krahoa, hai detto! — esclamarono il capitano e don Pedro.

— Sì, Krahoa! Krahoa! — ripeté l'indigeno.

— Non appartieni tu alla tribù che poco fa ha scorazzato attraverso queste piante?

Il selvaggio fece un energico gesto di diniego.

— Quelli sono mangiatori di uomini, — disse poi. — Il gran capo bianco ha tolto a noi quell'abominevole uso e i Krahoa non mangiano più i loro simili.

— Che quel capo fosse nostro padre? — chiese don Pedro, a cui il capitano traduceva le risposte dei selvaggi.

— Abbiate pazienza, — disse don José. — Anch'io ne ho il sospetto, ma non soffermiamoci troppo in questo luogo scoperto. Gli antropofaghi potrebbero ritornare e allora, addio per sempre a tutte le nostre speranze. Sarà meglio che ritorniamo al nostro rifugio.

— Ci seguiranno questi due indigeni?

— Datemi il simbolo dei Krahoa.

Don Pedro si sbottonò la casacca e il panciotto, aprì la camicia e trasse la preziosa corteccia di niaulis, che teneva avvolta in un pezzo di tela incatramata per proteggerla dall'acqua. Il capitano prese l'involto e mostrò ai due kanaki il misterioso simbolo. Nel vederlo, entrambi avevano indietreggiato, esclamando:

Tabù! Tabù!

— Che cosa dicono? — chiesero Mina e don Pedro.

— Pare che su questa corteccia sia stato lanciato qualche possente maleficio o benedizione. Il fatto sta che non osano toccarla. Io credo che, padroni di questo talismano, potremo ottenere da questi uomini tutto quello che vorremo.

Poi, volgendosi verso i due selvaggi che non staccavano lo sguardo da quel pezzo di corteccia, su cui erano disegnati tre notù, disse loro con voce imperiosa:

— Seguiteci!

I cacciatori ripresero le loro armi, raccolsero una mezza dozzina di colombi che erano riusciti a strangolare e si misero dietro ai naufraghi senza proferire parola. Quantunque il capitano avesse ormai piena fiducia in quei selvaggi, poiché non avrebbero osato alzare le mani su persone tabuate, ossia sacre, non li perdeva però di vista e non aveva disarmata la carabina. Anche Mina e don Pedro si tenevano in guardia, sorvegliandone ogni mossa. Arrivati sotto il baniano e accertatisi che non c'era nessuno, i naufraghi si sedettero contro il tronco della pianta, invitando i due kanaki a fare altrettanto.

— Vediamo se possiamo prima di tutto cenare, — disse il capitano. — Se non ci rimettiamo in forze non potremo intraprendere nulla.

Si rivolse al selvaggio che aveva il rompiteste e che sembrava il più anziano e anche il più intelligente, una specie di colosso, che per sviluppo di muscolatura poteva gareggiare con don José, chiedendogli:

— Qui possiamo correre qualche pericolo da parte dei mangiatori di uomini?

— L'ombra è folta e il villaggio di quegli uomini è lontano.

— Sarebbe una imprudenza accendere il fuoco? Noi abbiamo fame.

— Il mio compagno preparerà la cena; anche noi non abbiamo mangiato nulla da stamane perché abbiamo sempre dovuto fuggire.

— Perché? Chi vi minacciava?

— Noi eravamo prigionieri della tribù che ha rapito due dei tuoi compagni.

— Come lo sai? — chiese il capitano stupito.

— Abbiamo assistito, nascosti in mezzo alle radici, alla loro cattura. I mangiatori di uomini cercavano però noi e non i due uomini bianchi.

— E verranno subito mangiati?

— Non prima della festa del pilù-pilù, e poi chissà se l'altro uomo bianco che è venuto dal mare lo permetterà.

Il capitano aveva fatto un balzo.

— Un uomo bianco, hai detto!

— Sì.

— Giunto dal mare?

— Con una di quelle grandi barche che hanno le ali.

— Quando?

Il kanako si guardò le dita, poi raccolse un ramo secco spezzandolo in più parti, quindi scosse il capo dicendo:

— Non so. Quella sera non era ancora cominciato il Kutio-Kuela.

Il capitano, in preda a una viva inquietudine, si era voltato verso don Pedro e verso Mina, che non conoscevano una sola parola della lingua kanaka, traducendo loro quanto aveva udito.

— Che sia quel pirata di Ramirez? — esclamò il giovane; impallidendo. — Che quel miserabile ci abbia preceduti?

— Voi lo conoscete benissimo.

— Quasi quanto voi.

— Vediamo di scavare qualche cosa di meglio dalla testa di questo selvaggio.

L'interrogatorio fu ripreso. Il kanako d'altronde si prestava volentieri, mentre il suo compagno spennacchiava. con una rapidità prodigiosa, alcuni grossi e deliziosi piccioni.

— L'hai veduto, quell'uomo bianco? — chiese il capitano.

— Sì, due volte.

— Come era?

— Alto come te, ma con la pelle più scura e la barba rossa invece che nera e bianca come la tua.

— Hai notato alcun segno sulla sua faccia?

— Una cicatrice profonda su una guancia.

— È arrivato solo?

— Aveva altri sei marinai bianchi.

— Hai veduto il suo grande canotto con le ali?

— Io no, — rispose il kanako — poiché ero rinchiuso con mio fratello Koturé in una capanna e guardato da molti guerrieri. Però me lo hanno detto.

Il capitano tradusse le risposte a don Pedro e a Mina.

— È lui! Non può essere che lui! — esclamarono i due giovani.

— Aveva una cicatrice?

— Sì, sulla guancia destra. Sembra prodotta da un colpo di scure, poiché è molto larga e molto profonda, — disse don Pedro. — Io l'ho notata.

— E anch'io, — confermò Mina.

— Ecco una notizia terribile, — disse il capitano, facendo un gesto di scoraggiamento. — I nostri disgraziati compagni nelle sue mani, noi privi di forze, lui potente con una nave e probabilmente con un equipaggio numeroso e bene armato, che cosa potremo fare noi, miei disgraziati amici? Come potremo intraprendere una lotta contro di lui?

— Non siamo noi i figli del gran capo dei Krahoa? — soggiunse don Pedro. — E questi indigeni non furono un giorno sudditi di mio padre? E non abbiamo anche noi il misterioso simbolo?

Il capitano si batté la fronte colpito da quelle giuste riflessioni.

— Come ti chiami? — chiese, rivolgendosi al kanako.

— Matemate.

— Tu hai conosciuto il gran capo bianco?

— Io ero uno dei suoi amici.

— Ebbene, Matemate, guarda quest'uomo e questa fanciulla: sono i figli del grande capo bianco.

I due kanaki si erano alzati in preda a una forte commozione, poi si erano gettati a terra, l'uno dinanzi a Pedro e l'altro dinanzi a Mina, percuotendosi la testa con i pugni poderosi.

— Che cosa fate? — chiese il capitano.

— Prestiamo giuramento di fedeltà ai figli del gran capo dei Krahoa, — risposero i due kanaki, continuando a percuotersi.

Don Pedro e Mina dovettero intervenire a rialzarli, perché non si rompessero davvero la testa.

— Noi siamo gli uomini più felici dell'isola, — disse Matemate — perché a noi soli spetta l'onore di avere trovato i figli del grande Tahahaka. Egli, prima di morire, ci aveva detto che un giorno sarebbero giunti, e da molto tempo i guerrieri percorrono le coste in attesa del grande canotto con le ali che avrebbe dovuto condurli.

— Voi dunque li guiderete nel paese dei Krahoa? — chiese il capitano.

— Anche subito, se lo vorranno.

— Non subito, abbiamo altro da fare per il momento. Noi non lasceremo questi luoghi senza avere prima liberato i nostri compagni che sono anche loro parenti del gran capo bianco. Ceniamo, ora, poi riprenderemo il discorso.

I due kanaki si scambiarono alcune parole, fecero correndo il giro dell'albero, prima dentro i rami che s'incurvavano verso terra fino a toccarla, poi esternamente, per assicurarsi che nessuno li spiava. Ciò fatto, Koturè, che era il più giovane dei due fratelli, estrasse da una specie di sacchetto di foglie intrecciate un pezzo di bambù, non più lungo di due palmi, che aveva alcuni buchi. Introdusse in uno di quelli una specie di caviglia di legno e si mise a farla girare rapidamente al di sopra di un mucchio di rami secchi, che Matemate aveva raccolti insieme a delle foglie. Dopo qualche minuto delle piccolissime scintille cominciarono a cadere da un altro foro aperto sotto quello dove la caviglia girava. Era la polvere ben secca del bambù che a causa di quel rapido sfregamento si era incendiata. Quel metodo ingegnoso e semplice, poiché non richiede né molta fatica né molta abilità, è il solo usato dagli isolani dell'Oceano Pacifico. Ben presto una bella fiamma brillò, avendo avuto cura Matemate di unire ai rami del baniano alcuni pezzi di corteccia di niaulis le quali bruciano così bene, che i kanaki le adoperano per fare delle torce. Koturé ripose nel sacco il suo prezioso utensile, poi scavò una buca, servendosi della scure di pietra, mentre Matemate gettava sul fuoco un buon numero di ciottoli e avvolgeva i piccioni dentro delle foglie di banano.

— Ecco il forno dei kanaki, — disse il capitano.

Koturé riempì la buca di pietre infuocate, poi gettò sopra della terra perché il calore non si espandesse troppo rapidamente. Aveva appena terminata quell'operazione, quando Matemate, che si era un po' allontanato per cercare qualche noce di cocco o qualche tubero che potesse servire da pane, fu veduto ritornare precipitosamente dicendo:

— Attenti al fuoco!

— Cosa c'è? — chiese il capitano, alzandosi con la carabina in mano.

— Spegnetelo subito, presto.

Koturé rovesciò sui tizzoni la terra scavata per fare la buca, poi, con un ramo, si mise a battere sulle poche fiamme che ancora ardevano, gettandovi sopra dell'altra terra.

— Spiegati: perché lo fai spegnere? — chiese il capitano a Matemate, che stava curvo verso il suolo, ascoltando attentamente.

— Qualcuno si avvicina, — rispose il kanako.

— Chi?

— Non lo so: uomini di certo.

— Che abbiano scorto il nostro fuoco?

Invece di rispondere Matemate lanciò verso l'albero un rapido sguardo e fece un gesto di soddisfazione; poi disse:

— Su, in alto... Non perdete tempo, uomini bianchi.

Intorno all'enorme tronco salivano delle piante parassite, simili a delle liane, che dovevano offrire una grandissima resistenza. Il capitano prese Mina e l'alzò fino quasi alla biforcazione dei rami, essendo i tronchi dei fichi baniani della Polinesia di dimensioni enormi e di poca altezza.

— Aggrappatevi alle piante, señorita, — le disse. — E salite. Non avrete da percorrere che qualche metro... A voi, don Pedro.

In meno di mezzo minuto si trovarono tutti in salvo in mezzo alle più alte e frondose cime dell'albero. Lì la massa del fogliame era tale da nasconderli perfettamente a qualsiasi sguardo.

— Ora mi dirai che cosa hai visto e sentito, — disse il capitano sottovoce al kanako.

— Degli uomini hanno cercato dì imitare le grida dei notù — rispose Matemate. — Io e mio fratello Koturé siamo troppo abili cacciatori per lasciarci ingannare. Ascolta!

A non molta distanza, si udirono dei muggiti sordi che rassomigliavano al grido dei notù e, quantunque al capitano non fossero molto familiari quei volatili, sembrò anche a lui di percepire un non so che di falso.

— Che tu abbia ragione? — chiese a Matemate.

— Io non m'inganno, — rispose il kanako. — Il grido del notù è difficile a imitarsi. Solo io e mio fratello possiamo attirare i piccioni delle foreste.

— Se tu rispondessi?

— Era ciò che volevo proporti.

— Così noi ci accerteremo se abbiamo a che fare con dei cacciatori o con delle persone che cercano noi.

Il kanako staccò una foglia, la ruppe in due e se la mise in bocca facendo poi vibrare le labbra. Un muggito rauco, identico a quello che mandano i notù, uscì dalla bocca dell'abile cacciatore. Lo ripeté tre o quattro volte, poi attese. Qualche momento dopo, altri muggiti rispondevano, ma non così perfetti. Erano più sordi e non avevano la giusta misura.

— Ora vediamo se vengono da questa parte, — disse Matemate. — Non fate rumore e non scambiate una parola finché non ve lo dirò io.

— Armate le carabine, — ordinò il capitano a don Pedro e a Mina.

In quel momento si ripeterono i muggiti.

— Eccoli, — mormorò Koturé al fratello. — Vengono.