Il tesoro della Montagna Azzurra/XI - Sotto le «rhizophore»

XI — Sotto le «rhizophore»

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X — Il passaggio dei «notù» XII — Il Re Bianco

XI — Sotto le «rhizophore»


Attraverso un piccolo squarcio del fogliame, il kanako che aveva la vista acutissima abituata a vedere anche di notte, aveva visto uscire da una macchia di baniani cinque ombre: quattro erano nere, la quinta invece bianca, come se fosse vestito di tela. Don José che aveva la vista buona e aveva seguita la direzione indicatagli dal selvaggio, non aveva tardato a scoprirle anche lui.

— Quattro kanaki e un uomo bianco che li guida, — mormorò. — Vengono certamente in cerca di noi. Che i nostri marinai, credendo di salvarci, ci abbiano traditi?

I cinque uomini che erano tutti armati di scuri di pietra e l'uomo bianco che portava il fucile si erano fermati a una certa distanza dal fico baniano, come per ascoltare. Matemate era scivolato silenziosamente presso il capitano, che stava a cavalcioni di un grosso ramo, sepolto sotto un vero ammasso di foglie che lo nascondevano quasi interamente.

— Un uomo bianco: l'hai visto?

— Sì, — rispose don José.

— Deve essere uno di quelli arrivati con il grande canotto. Erano tutti vestiti così, mi hanno detto.

— Credi che cerchino i notù?

— Per cacciarli occorre imboscarsi e non farsi vedere, — rispose il kanako. — E poi il Kutio-Kueta per questa notte è finito. Essi cercano te, ne sono certissimo.

— Ci scopriranno?

— Tu non muoverti: vedremo.

L'uomo bianco e i quattro selvaggi, dopo essere rimasti per qualche tempo in ascolto, si erano diretti verso le rhizophore, rasentando il margine esterno del baniano, senza sospettare di trovarsi così vicini a quelli che cercavano.

— Dove vanno? — mormorò il capitano.

— Lo sapremo subito, — rispose Matemate. — Penso però che qualcuno deve averti tradito.

— Chi?

— Forse uno dei tuoi uomini che sono stati fatti prigionieri da quei cannibali.

— È impossibile! I miei uomini sono fedelissimi.

Il kanako scosse il capo e seguì attentamente con lo sguardo il piccolo drappello, che continuava ad avanzare verso le rhizophore. Eseguiva però una manovra misteriosa, che né i kanaki né gli americani riuscivano a indovinare. Ogni volta che incontravano un albero, e ce ne erano parecchi lungo il margine di quella specie di laguna, l'uomo bianco e i selvaggi che lo scortavano giravano intorno, guardando attentamente la corteccia. Cosa cercavano? Era quello che si chiedevano insistentemente i naufraghi. A un tratto il drappello fece una sosta davanti ad uno di quegli splendidi pini colonnari chiamati kaoris. Qualche cosa di straordinario doveva averli colpiti, poiché fecero tre o quattro volte il giro della pianta, fermandosi sempre davanti allo stesso punto, poi si lanciarono di corsa attraverso le rhizophore, scomparendo ben presto in mezzo ai fusti.

— Che cosa ne dici, Matemate? — chiese il capitano a cui nulla era sfuggito.

— Io vorrei vedere quella pianta, — rispose il kanako.

— Che cosa può avere di straordinario quell'albero? Se andassimo a vedere? Quegli uomini sono ormai lontani.

— Io devo vegliare sui figli dei grande capo bianco e perciò non commetterò mai una simile imprudenza, — dichiarò Matemate, con voce grave. — Quel kaoris non scapperà e potremo osservarlo quando ogni pericolo sarà scomparso.

Poi vedendo che Mina e don Pedro, vinti dalla fatica e dalla fame, stavano per abbandonarsi, disse a Koturé:

— Approfitta per portare su la cena. Io intanto preparerò il letto.

Mentre suo fratello si lasciava scivolare lungo le liane che si avviticchiavano all'albero, Matemate salì su un grosso e robusto ramo che si stendeva al disopra delle loro teste e, dopo aver strappato un certo numero di radici aeree, si mise a intrecciare, con rapidità straordinaria, una specie di rete che sospese ad altri rami minori, assicurandola saldamente. Aveva appena finito, quando Koturé riapparve portando, avvolti in una foglia di banano, i notù che nel frattempo si erano cotti a puntino. La cena fu frettolosa ma anche molto apprezzata, poiché quei piccioni, specialmente se cotti nei primitivi forni kanaki sono squisitissimi; poi Matemate aiutò Mina a salire fino al traliccio, mentre Koturé faceva altrettanto con don Pedro. I due poveri giovani, stanchi per le molte emozioni e per le notti insonni, si erano appena coricati che già dormivano. I due kanaki e il capitano, che era abituato alle lunghissime veglie come tutti gli uomini di mare, si erano rimessi in osservazione. Tutti erano certi di rivedere passare presto o tardi il misterioso drappello. E infatti qualche ora prima dell'alba lo videro uscire dalle rhizophore. L'uomo bianco lo capitanava sempre. Sembrava di pessimo umore, poiché passando vicino al baniano don Josè lo udì bestemmiare in buon spagnolo, e lo vide continuare la sua strada verso ponente rientrando nella foresta.

— Puoi riposarti anche tu, capo bianco, — disse Matemate al capitano, vedendolo sbadigliare. — Per ora non abbiamo più nulla da temere. C'è posto anche per te lassù. Lascia a noi l'incarico di vegliare.

— Non ritorneranno? — chiese don José.

— Può darsi, ma non certo questa notte. Domani ti condurremo in un posto ben più sicuro di questo.

Il capitano accettò il consiglio e raggiunse quella specie di nido aereo, sdraiandosi accanto a don Pedro, con la certezza di passare la notte tranquilla sotto la vigilanza dei due selvaggi, dei quali ormai aveva piena e completa fiducia. Infatti nulla accadde durante il sonno dei naufraghi. Un po' prima che il sole apparisse, Matemate li svegliò, e offrì loro del latte, che aveva estratto da alcune noci di cocco raccolte durante la notte, mentre faceva una rapida perlustrazione nei dintorni del fico baniano.

— Non fermiamoci troppo qui, — disse il kanako al capitano. — Questo rifugio può essere sicuro di notte ma non di giorno. Preferisco quello che ci siamo costruito noi per sfuggire alle ricerche dei mangiatori d'uomini.

— Non dimentichiamo di visitare quell'albero, — rispose il capitano.

— Preme anche a noi vederlo.

Koturé salì sui più alti rami, per accertarsi che non ci fosse alcuno nei dintorni, poi uno a uno si calarono lungo il colossale tronco, arrivando felicemente a terra. Il kaoris notato dai due kanaki, davanti a cui si era soffermato il misterioso drappello, non era lontano che mezzo tiro di fucile. I naufraghi e i kanaki l'avevano girato due volte, quando Matemate esclamò:

— Il tabù!

All'altezza di un metro e mezzo dal suolo il selvaggio aveva visto il simbolo misterioso dei Krahoa, inciso rozzamente sulla corteccia con la punta di un coltello o con qualche selce tagliente. Tutti si erano fermati, guardando il simbolo con profondo stupore.

— Come mai questo emblema del gran capo bianco si trova inciso qui? — esclamò il capitano. — È eguale al vostro, è vero, don Pedro?

— Preciso: soltanto ha due croci che nel mio non sono mai esistite.

— Anche su quel sughero raccolto da Reton sull'oceano c'erano delle croci, ve ne ricordate?

— Sì, don Josè.

Il capitano si era voltato verso i due kanaki che sembravano colpiti dalla più alta meraviglia.

— Voi non lo avete fatto? — chiese loro.

— Nessuno di noi oserebbe tracciare una cosa tabuata da un gran capo, — rispose Matemate. — Tiki ci farebbe morire.

— Chi dunque può averlo inciso? — chiese il capitano, guardando don Pedro con sgomento. — Il segreto era noto a noi e a quella canaglia di Ramirez.

— Che sia stato lui? Abbiamo ormai la certezza che egli è già sbarcato.

— E a quale scopo avrebbe segnato qui il simbolo dei Krahoa? Non ci troverei alcuna spiegazione.

— E perché, — aggiunse Mina — quegli uomini sono venuti qui a vederlo?

— Sarei ben lieto anch'io di poterlo sapere, — rispose don Josè. — Qualche motivo l'avranno pur avuto.

Fra Mina e i suoi amici regnò un lungo silenzio. Tutti cercavano di spiegare quel mistero che li preoccupava. Matemate, che da vero selvaggio non amava affatto rompersi la testa e che pensava invece al pericolo che minacciava i figli del grande capo bianco, fu il primo a decidersi, aggiungendo anche un moto di viva impazienza.

— Hai parlato abbastanza, uomo bianco, — disse al capitano. — Vuoi fermarti qui fino al ritorno degli esploratori notturni?

— Credi che ritorneranno? — chiese don Josè.

— Ne sono quasi certo. La notte non è fatta per le ricerche e qualche imperioso motivo deve averli spinti qui.

— E quale, a tuo giudizio?

— Quello di catturare anche te e i figli del grande capo per mangiarvi tutti alla prossima festa del pilù-pilù,

— Che siano venuti per questo?

— Lo sospetto e perciò è meglio che ci affrettiamo a raggiungere il rifugio che io e mio fratello ci siamo preparati.

In quel momento Koturé fece un debole fischio. Matemate si era voltato, facendo un salto.

— Vengono? — chiese.

— Portali al sicuro, — rispose il fratello. — Se sentirai il grido del kagù vuol dire che non mi sono ingannato. Non occuparti di me per il momento.

Si aggrappò alle piante parassite che si allungavano, intorno al kaoris e scomparve in mezzo al folto fogliame della pianta.

— Venite tutti. — disse Matemate imperiosamente.

Ciò detto si slanciò fra le rhizophore correndo. I tre naufraghi, comprendendo che un pericolo li minacciava, lo avevano seguito. Matemate, che sembrava molto inquieto, poiché si guardava spesso alle spalle come se temesse di vedersi piombare addosso, da un momento all'altro, i fanatici mangiatori di carne umana, continuò la sua corsa per una diecina di minuti, poi si fermò davanti a un piccolo canale aperto fra l'enorme massa delle rhizophore, profondo una decina di piedi, ma già invaso dall'acqua marina che saliva con la marea.

— È qui il nostro rifugio, — disse al capitano. — È più sicuro di quello che hai trovato tu, e io e Koturé in questo posto, siamo sfuggiti a tutte le ricerche dei mangiatori di uomini.

— C'è però dell'acqua lì dentro che aumenterà di ora in ora! — osservò don Josè.

— L'asilo non sarà asciutto, — rispose il kanako. — Dovremo rimanere immersi fino ai fianchi parecchie ore del giorno. È meglio però prendere un bagno, che lasciare la pelle nelle mani dei Nuku. Non correremo alcun pericolo di annegare.

Senza aggiungere parola prese per le braccia don Pedro e lo calò nella fenditura. Il giovane, che già aveva compreso che lo si voleva salvare, non protestò. L'acqua era ancora bassa poiché non l'immerse che fino alle ginocchia. Matemate, che agiva rapidamente, calò anche Mina, quindi saltò giù a sua volta, subito imitato dal capitano. A una estremità della fenditura si apriva una cavità oscura che sembrava si prolungasse sotto la massa delle rhizophore, massa che doveva avere parecchi metri di altezza.

— È là, — disse il kanako, con un gesto energico. — Venite subito.

Guazzando nell'acqua melmosa e corrotta dal putridume delle piante, giunsero in breve davanti all'apertura. Matemate vi si introdusse senza esitare e i naufraghi che lo avevano seguito si trovarono, con loro grande stupore, dentro una specie di nicchia, abbastanza ampia per ricoverare una mezza dozzina di persone, scavata nel fitto strato delle rhizophore. Le radici che formavano la volta, le pareti e il pavimento, trasudavano acqua da tutte le parti, però quel bagno continuo, con il caldo intenso che regnava al di fuori era, se non salubre, almeno non spiacevole. Infatti ci si godeva una frescura deliziosa.

— L'hai scavato tu questo rifugio? — chiese il capitano a Matemate.

— Sì, a colpi di scure, — rispose il kanako. — Il lavoro è stato duro, ma qui possiamo sfidare ogni ricerca.

— Sale molto l'acqua qui dentro?

— Ne avremo fino alle anche, due volte al giorno.

— E tuo fratello?

— Verrà presto... Ah, eccolo!

A breve distanza si era sentito ripetersi un grido strano, prolungato, che suonava: ka-hu! ka-hu!

— Koturé! — esclamò Matemate. — Brutto segno!

— Perché? — chiese don Josè.

— Segnala l'avvicinarsi dei mangiatori di carne umana.

Si avvicinò all'apertura del rifugio e ascoltò attentamente. Un momento dopo un tuffo lo avvertì che suo fratello era saltato nel canale. Infatti pochi istanti dopo Koturé arrivava, carico di una mezza dozzina di noci di cocco e di certe frutta grosse quanto la testa di un bambino, con la scorza molto rugosa e irta di protuberanze.

— Sono qui, — disse, entrando nel rifugio e sbarazzandosi del suo carico.

— Ti hanno visto? — chiese Matemate con una certa inquietudine.

— No: ero su un mei a far raccolta di frutta, per avere almeno una piccola scorta di viveri, quando li ho visti arrivare.

— Molti? — chiese il capitano.

— Sì, molti.

— Guidati ancora da un uomo bianco?

— Dallo stesso che ha guidato ieri sera il drappello, se non mi sono ingannato, — rispose Koturé.

— Non c'è più alcun dubbio, — disse il capitano a don Pedro e a Mina. — Qualcuno ha indicato a quei miserabili dove siamo sbarcati e dove ci siamo rifugiati.

— Ciò che dite, capitano, è grave, — rispose il giovane Belgrano. — Voi accusate o Reton o Emanuel. Possibile che il bosmano, che ci ha dato tante prove di fiducia, abbia compiuto un tale tradimento?

— E se l'uomo bianco che guida i selvaggi e che forse è qualche anima dannata di Ramirez l'avesse sottoposto a qualche spaventosa tortura? Che cosa ne sappiamo noi?

— Che abbiano osato tanto?

— Qui, su quest'isola d'antropofaghi, così lontana dal mondo civile! Oh, io non mi stupirei affatto!

— E che riescano a scoprirci? — chiese Mina, che appariva spaventata.

— Matemate è sicuro e non... — il capitano si era bruscamente interrotto, poi era balzato in piedi, pallido come un panno lavato. In lontananza si erano sentiti i latrati di un cane.

— Sogno! — esclamò il capitano. — È impossibile! È impossibile!

Era in preda a una tale agitazione che i due giovani lo guardavano con spavento.

— Che cosa avete? — chiese don Pedro, mentre il capitano con la testa fuori dell'apertura ascoltava attentamente. Un altro latrato, più prolungato del primo, si era fatto sentire e questa volta molto più vicino.

— Hermosa! — esclamò il capitano, che sembrava fosse improvvisamente impazzito.

— Hermosa! — ripeterono a una voce Mina e don Pedro.

— La mia Terranova, che mi è stata misteriosamente rubata due giorni prima che la mia nave lasciasse le coste del Cile, — rispose il capitano con esaltazione.

Se la situazione non fosse stata tanto grave, don Pedro e sua sorella sarebbero scoppiati in una clamorosa risata, tanto pareva loro assurda la supposizione del capitano di ritrovare fra i kanaki un animale abbandonato o perduto nel Cile.

— Don Josè, — disse don Pedro — v'ingannate di certo.

— Vi ripeto che questo è il latrato della mia Hermosa, — rispose il capitano, con profonda convinzione. — Lo distinguerei fra i latrati di mille cani.

— E come spieghereste la sua presenza su quest'isola? — chiese Mina. — Non vi avrà seguito a nuoto attraverso il Pacifico!

— E se fosse stato Ramirez a farmela rubare?

— A quale scopo? — chiese don Pedro.

— Che ne so io? Noi non conosciamo tutti i progetti di quel miserabile.

Un terzo latrato, ancora più vicino, risuonò al di fuori. I due kanaki, che da qualche istante davano segni d'irrequietezza, si erano alzati, l'uno brandendo la sua scure di pietra e l'altro il rompiteste.

— Ci hanno scoperti, — disse Matemate al capitano.

— Il mio cane ci ha traditi, — rispose don Josè, smarrito.

— Ah, tu avevi un cane!

— Che da lungo tempo non rivedevo.

— Bestia pericolosa, — disse il kanako.

Scambiò con Koturé alcune rapide parole, poi si avviarono entrambi verso l'apertura, stringendo le armi. Il capitano li aveva seguiti, mentre don Pedro e Mina, ben decisi a vendere cara la vita, preparavano le carabine.

Che i mangiatori d'uomini, guidati da un cane che aveva probabilmente perso il padrone, ammesso che si trattasse veramente di Hermosa, il cane del capitano, si avvicinassero, non c'era più da dubitare. Doveva essere stato quell'uomo bianco a preparare quel colpo maestro. Era vero che Coock, il grande navigatore, e altri sbarcati più tardi su quelle spiagge, avevano affidato agli indigeni dei porci e anche dei cani, affinché si riproducessero; non dovevano però certo aver affidato a quei bruti dei cani di Terranova, razza troppo pregiata anche un secolo prima, per sacrificarla forse alla ghiottoneria di quei selvaggi. Matemate e Koturé, dopo aver ascoltato a lungo, si erano rivolti al capitano.

— Tu dunque conosci quel cane? — chiese il primo.

— Sì, — rispose don Josè.

— Allora fra poco saremo scoperti.

— Il mio cane ci raggiungerà di certo.

— Anche uccidendolo non impediremmo di venire assaliti.

— Te lo proibirei, tanto più che quel cane più grosso di uno dei vostri porci, è capace di difenderci a lungo.

— Un alleato di più non guasterà, — disse Matemate. — Noi lo risparmieremo.

Un altro latrato sonoro echeggiò e questa volta proprio sull'orlo della fenditura.

— È Hermosa! — esclamò il capitano, volgendosi a don Pedro e a Mina, che si erano accostati a lui.

— Ne siete sicuro, ora? — chiese il giovane.

— Volete una prova? Ormai siamo stati scoperti.

— Datemela, don Josè.

Il capitano accostò due dita alle labbra, e mandò un leggero fischio. Subito si udì un tonfo e uno sprazzo di spuma si alzò. Un corpo era caduto nell'acqua che la marea spingeva attraverso le radici. Matemate e Koturé avevano alzato le carabine, credendo che qualche nemico fosse disceso nell'apertura. Il capitano fu pronto a fermarli e spingerli indietro.

— Hermosa, — sussurrò.

Un enorme cane, dal pelo folto, bianco e nero, emerse e si slanciò verso il rifugio urtando il capitano così impetuosamente che per poco non lo atterrò.

— Taci Hermosa! — sussurrò don José.

Il magnifico cane, un vero Terranova, si rizzò sulle zampe posteriori, posando le anteriori sulle spalle del padrone e tentando di leccarlo in viso.

— Taci... giù, — comandò don Josè.

Il cane malgrado il suo intenso desiderio di esprimere la sua gioia con una serie di strepitosi abbaiamenti, si accovacciò, guardando il capitano con i suoi grandi occhi intelligenti.

— È proprio il vostro cane dunque? — chiesero Mina e don Pedro, mentre i due kanaki, per nulla rassicurati dalla presenza di quel bestione, si tenevano sempre in guardia.

— Non lo vedete? — rispose don Josè. — Un cane sconosciuto non mi obbedirebbe così. Sono quaranta giorni soltanto che ci siamo lasciati. Poteva scordarsi di me dopo tre anni che lo possedevo? Ah! ora, con questo fedele amico che ha delle mascelle di ferro, mi sento più sicuro.

Poi, vedendo che Matemate e Koturé sembravano spaventati per la presenza della bestia, disse loro:

— Non abbiate paura, amici. Questo è un amico fedele che ci difenderà contro i mangiatori di uomini. Non vi farà alcun male; ne rispondo io. Fra poco avrete una prova della sua bravura.

Hermosa, a un cenno del padrone, si era accovacciato presso l'uscita del rifugio, aguzzando le larghe orecchie e ringhiando sordamente. Matemate e Koturé, rassicurati dalle parole del capitano, si erano a poco a poco accostati alla cagna e anch'essi ascoltavano. Cosa strana però, i nemici, che ormai dovevano aver scoperto il rifugio, non davano segno di volersi mostrare.

— Che cosa attendono dunque? — chiese don Pedro al capitano.

— La notte, — rispose don Josè. — Sanno che abbiamo delle armi da fuoco e non vorranno esporsi. Non dimenticate che la guida era uomo della nostra razza, e che ha dato prove irrefutabili di essere molto astuto.

— E ci lasceremo assediare?

— Che cosa volete tentare? Una uscita? Se non ci fosse vostra sorella ve la proporrei.

— Mina è più coraggiosa di quello che credete, don Josè.

— Zitto.

Il capitano aveva alzato il capo. Alcuni colpi sordi erano risuonati sopra la volta di radici. Anche Matemate e Koturé avevano guardato in aria, dopo essersi interrogati con lo sguardo.

— Che cosa fanno i nostri nemici, Matemate? — chiese il capitano.

Il kanako non rispose. Osservava sempre attentamente la volta tendendo gli orecchi. Hermosa aveva mandato un sordo mugolio e aveva fatto atto di slanciarsi di nuovo nella fenditura che a poco a poco si era coperta di un buon metro di acqua.

— Non senti, Matemate? — chiese il capitano.

— Sì, — rispose il selvaggio.

— Da che cosa provengono questi colpi?

— Credo di comprendere. Percuotono lo strato di radici con i loro rompiteste.

— A quale scopo? Per aprirsi un passaggio?

Il selvaggio scosse il capo.

— Batterebbero in un solo punto, mentre invece i colpi si sentono su una certa estensione. E poi verso la superficie le radici di queste piante sono così strettamente intrecciate da sfidare le nostre scuri di pietra. Mirano a ben altro quei mangiatori di carne umana!

— A comprimerci fino a schiacciarci? — chiese il capitano atterrito.

— O costringerci a lasciare il nostro rifugio.

— E noi aspetteremo che l'aria divenga irrespirabile o che la marea ci affoghi?

— Non ci rimane che una cosa da fare, — disse Matemate, dopo una breve riflessione.

— Dimmela subito. I momenti sono preziosi.

— Aprirci un altro passaggio attraverso la massa delle radici, — rispose il kanako. — Ci sarà però necessario molto tempo.

— Noi siamo pronti ad aiutarti; possediamo dei solidi coltelli che non varranno meno della tua ascia. Vediamo prima di tutto se lo strato che serve di volta è molto denso.

Levò la bacchetta di ferro della sua carabina e con uno sforzo supremo la cacciò nella massa della rhizophore, poi tese gli orecchi.

— Ci devono essere parecchi metri di radici sopra di noi, — mormorò. — Se la punta della bacchetta avesse attraversato tutto lo strato, i mangiatori di carne umana l'avrebbero scorta e avrebbero tentato di impadronirsene. Ah, se ci fosse qui anche Reton ad aiutarci! Che cosa sarà avvenuto di quel disgraziato? Riusciremo un giorno a liberarlo o quando potremo tentarlo sarà già stato divorato? Guai a te, Ramirez, se oserai tanto!

Scosse tristemente il capo, poi comunicò a Mina e a don Pedro quanto stava per succedere e quello che si preparavano a fare.

— Una sola cosa mi preoccupa assai per il momento, — aggiunse il capitano. — Che la marea ci affoghi qui dentro come topi in una fogna. Se la volta si abbasserà, non so se potremo sfuggire alla morte.

— Meglio morire affogati che arrostiti vivi su una graticola, — disse Mina. — Sono pronta anch'io ad aiutarvi.

I quattro uomini, comprendendo che ogni minuto che passava aumentava il pericolo, si erano messi alacremente al lavoro per sfuggire alla terribile compressione che li minacciava. La volta non aveva ancora ceduto, o meglio non aveva ancora cominciato ad abbassarsi, però se opponeva una tenace resistenza, non poteva durare indefinitamente sotto i colpi furiosi dei selvaggi. Lo strato a poco a poco, sotto gli incessanti urti delle pesanti mazze di legno, doveva comprimersi sempre più e restringersi verso l'acqua. Matemate, che sembrava possedesse un forte senso di orientamento, aveva assunto la direzione dell'aspro lavoro. Non era verso il mare che dovevano scavare la galleria, continuando a salire l'acqua da quella parte, ma verso la costa per raggiungere la fitta foresta, la sola che potesse offrire, una volta usciti, un asilo quasi sicuro. La nicchia era troppo ristretta per potere lavorare tutti, perciò si erano incaricati Koturé e il capitano di dare il primo attacco a quell'enorme massa fibrosa, l'uno con la scure di pietra e l'altro con la navaja. Il primo sfondava a gran colpi, il secondo tagliava. Matemate e don Pedro ritiravano i vegetali, gettandoli nella fenditura che era già quasi piena d'acqua. Mina, armata di carabina, e la cagna di Terranova vigilavano vicino all'apertura, temendo che i selvaggi tentassero un attacco da quella parte. Il lavoro procedeva febbrile, quantunque con scarso successo. Quelle miriadi di radici erano così strettamente amalgamate e intrecciate, da mettere a dura prova i possenti muscoli di don Josè, e quelli non meno solidi del kanako. Intanto, al di sopra, i mangiatori di carne umana non cessavano di picchiare con un crescendo spaventoso. Lo strato aveva già cominciato ad abbassarsi, mentre l'acqua s'infiltrava attraverso il sottosuolo. I disgraziati erano presi tra due fuochi, uno non meno pericoloso dell'altro. L'affogamento li minacciava da una parte; gli antropofaghi dall'altra. Mezz'ora era trascorsa, ma mezz'ora di ansie indicibili per tutti, quando una violenta detonazione, seguita da un tonfo e dai furiosi latrati di Hermosa, interruppe i lavoratori. Mina, ritta sull'entrata del rifugio, teneva in mano la carabina ancora fumante.

— Sorella, contro chi hai fatto fuoco? — gridò don Pedro, lanciandosi verso di lei, mentre attraverso lo strato giungevano urla spaventose.

— Contro un selvaggio che cercava di calarsi inosservato nella spaccatura, — rispose la fanciulla, con una calma meravigliosa.

— L'hai ucciso?

— È scomparso sott'acqua senza mandare un grido. Lo spiavo da qualche minuto e ho avuto tutto il tempo di prenderlo bene di mira.

— Un colpo magnifico! — esclamò il capitano.

Una voce rauca scese in quel momento fino a loro:

— Olà, massacratori di uomini! — aveva gridato. — Me la pagherete presto, caramba! Vi decidete ad arrendervi, sì o no?

— Chi siete — gridò don Josè alzando la carabina che don Pedro gli aveva portata.

— Un uomo, per mille balene!

— Non basta, bandito!

— A me, bandito! — urlò lo sconosciuto, accompagnando l'esclamazione con una bestemmia.

— Un uomo che perseguita i suoi compatrioti e che non rispetta una señorita, in un paese straniero e che si mette a capo di una banda di antropofaghi non può essere che un miserabile.

— Hai la lingua troppo lunga, mio caro!

— Chiamami capitano, prima di tutto! — gridò don Josè.

Uno scoppio di risa fu la risposta.

— Che cosa dice dunque il signor capitano? — riprese la vociaccia rauca di prima con tono ironico.

— Che tu mi dica chi sei e per quale motivo perseguiti degli uomini bianchi come te.

— Andate a chiederlo, signor capitano, al mio comandante.

— Il suo nome?

— Don Ramirez.

— Il capitano dell'Esmeralda?

Lo sconosciuto non rispose subito. Lo si udiva brontolare e bestemmiare, come se si fosse pentito di essersi lasciato sfuggire quelle imprudenti parole.

— Maledetta acquavite! — borbottò. — Mi giuoca sempre dei brutti tiri. In verità sono un vero imbecille. Bisogna rimediare al male fatto. Non mi mozzerò per questo la lingua. Taglierò piuttosto la loro.

Mina e don Pedro si guardavano esterrefatti. Quel manigoldo aveva tradita involontariamente la presenza, su quell'isola, di Ramirez. Era il tesoro dei Krahoa, quel tesoro che il loro padre aveva accumulato chissà a prezzo di quali sacrifici, che era in pericolo. I loro sospetti si erano dunque avverati.

— Bisogna che io uccida quel miserabile pirata, — mormorò don Pedro, pallido d'ira. — Un tale ladro che viene a disputare la mia roba, non lo devo risparmiare.

Per la terza volta la voce dello sconosciuto scese nella spaccatura delle rhizophore.

— Mondo ladro! Vi arrendete, sì o no? Mi avete fatto perdere abbastanza tempo e non ho portato con me la colazione.

— Vieni a prenderci, — rispose don Josè, che si sporgeva in avanti con la speranza di scoprirlo e di fargli scoppiare il cranio con una buona palla.

— No! Fra poco vi schiaccerò fra le rhizophore e vi lascerò ai granchi di mare.

— Come vuoi.

Il capitano attese un poco, ma la voce non si fece più udire. I colpi di rompiteste, che per un istante erano cessati, ricominciarono a risuonare più forti che mai. Lo sconosciuto si preparava, a quanto sembrava, ad effettuare la terribile minaccia ossia a seppellirli vivi fra gli strati delle rhizophore. Mentre Koturé e Matemate riprendevano il lavoro con feroce accanimento, il capitano si era accostato a don Pedro e a Mina, i quali apparivano entrambi molto scossi.

— Avete sentito che egli è qui? — chiese loro con voce alterata. — Me l'aspettavo. Il miserabile ha avuto più fortuna di noi.

— Io mi domando, con angoscia, che cosa potremo fare noi ridotti a tre soli fucili? — disse don Pedro con voce triste. — Finiremo per perdere tutto e forse anche la vita, don Josè. Vorrei fare a quel miserabile una proposta.

— Quale? — chiesero a una voce Mina e il capitano.

— Chiedere all'uomo bianco che comanda questi selvaggi di condurmi da Ramirez.

— Per fare che cosa? — domandò il capitano.

— Per offrirgli metà del tesoro.

— A quel bandito senza scrupoli? Non siamo in America qui, don Pedro, e un delitto rimarrebbe non solo impunito, ma anche ignorato.

— Che cosa volete dire?

— Che Ramirez accetterebbe senza dubbio, per assassinarci poi più tardi e godersi da solo quelle ricchezze. Chi andrebbe a raccontare alle autorità cilene che nella Nuova Caledonia sono stati uccisi degli uomini bianchi? I kanaki forse? Oh, non vi permetterò mai di mettervi nelle mani di quel briccone!

— Che cosa vorreste tentare allora?

— Confidiamo in Dio, don Pedro, e nella saldezza dei nostri cuori. D'altronde anche noi possediamo il simbolo dei Krahoa e Matemate e Koturé sono pronti ad aiutarci con tutte le loro forze... Al lavoro amico e voi, señorita, riprendete il vostro posto.

Avevano perso anche troppo tempo e urgeva sgombrare il rifugio dalle radici che lo ingombravano. Koturé e Matemate, da uomini abituati ai duri lavori, non smettevano di strappare la massa delle radici. Il nuovo passaggio si apriva lentamente ma, incessantemente salendo con una leggera pendenza verso la superficie del suolo. Il pericolo incalzava, poiché quei demoni di selvaggi non smettevano un solo istante di martellare poderosamente gli strati di radici, abbassando sempre più la volta. Ancora poche ore, e certo non sarebbe rimasto più spazio per i naufraghi e per i loro compagni. A mezzogiorno, non sentendo più battere sopra di loro, gli assediati presero un po' di riposo e ne approfittarono per vuotare alcune noci di cocco e per mangiare un po' di polpa cruda delle frutta dell'albero del pane. Certo che ben arrostita sarebbe stata migliore. Non potendo procurarsi del fuoco, si contentarono egualmente di quel cibo crudo poco gradevole, ma molto nutriente. Stavano per rimettersi al lavoro, quando la voce dell'uomo bianco li fece accorrere tutti verso l'apertura del rifugio. La volta si era ormai tanto abbassata sotto la compressione di tutte quelle mazze, che gli assediati non potevano ormai più tenersi in piedi. Anche questa volta fu don Josè che rispose al furfante.

— Che cosa vuoi ancora, bandito? — chiese.

— Io dico, per tutti i demoni dell'inferno, che è ora di finirla! — urlò il marinaio di Ramirez.

— Se hai fretta vieni a prenderci.

— La burla dura troppo!

— Ah, la chiami una burla! — rispose il capitano. — Domanda un po' a quel disgraziato selvaggio che abbiamo ucciso stamane, se abbiamo scherzato... Sei buffo, marinaio.

— Vedrete fra poco, capitano, come sarò buffo io! — urlò il bandito. — I miei uomini continuano a pestare e vi schiacceranno tutti. Mi rincresce per la ragazza, un bel boccone che andrebbe bene al mio comandante... Tuoni di Araucania! Volete finirla?

— Non ancora.

— Ah, demoni dannati! Crepate tutti dunque!

— Invece di urlare tanto mostra un po' la tua faccia, mascalzone! — gridò, don Pedro, esasperato. — Se ne incaricherà il bocconcino che servirebbe a quel brigante di Ramirez di darti il fatto tuo, capisci, miserabile?

— Oh! Oh! — fece il marinaio. — Anche il piccolo pollo canta! Forza, battete sodo, voialtri, e questa sera avrete tutti doppia razione di acquavite!... Su, indolenti!

Don Pedro e il capitano attesero inutilmente che il briccone si mostrasse. Troppo spaventato per la morte fulminea del selvaggio non osava sfidare il fuoco di quegli abilissimi tiratori.

— Al lavoro, — disse finalmente don Josè.

A un tratto si fermò; l'acqua che aumentava sempre in fondo alla spaccatura, cominciava a riversarsi nel rifugio, rumoreggiando cupamente.

— Matemate, — soggiunse. — Tu mi hai detto che la marea non giungeva fin qui.

— Infatti, in sette giorni che noi abbiamo abitato questo luogo, mai abbiamo visto l'acqua entrare.

— Come è che ora invade anche questa galleria?

Matemate scosse la testa senza rispondere. Non riusciva a trovare alcuna spiegazione. Anche don Pedro era molto preoccupato dell'avanzata nell'acqua.

— Resteremo affogati qui dentro, — chiese a don Josè, che stava osservando ora la volta, ora lo strato inferiore, che serviva in certo qual modo da pavimento.

— Di solito le maree del Pacifico sono deboli, — rispose il capitano — e le alte maree sono rarissime. Io credo che dipenda dall'abbassamento dei suolo, dovuto alla compressione che subiscono le pareti, a causa dell'incessante martellamento dei selvaggi. Non saprei trovare altra spiegazione... Bah! Speriamo che l'acqua non arrivi tanto in alto da affogarci.

— Ma la volta continua ad abbassarsi. È già scesa di almeno mezzo metro.

— Me ne accorgo io che sono costretto a lavorare curvo. Su, don Pedro, aiutiamo questi due bravi selvaggi, e voi, señorita, sempre al vostro posto. Non vi spaventate se l'acqua seguita a salire.

— Non lascerò la guardia finché non mi sarà arrivata alla gola, — rispose l'intrepida fanciulla.

La galleria era stretta, non avendo tempo i due kanaki di allargarla. Bastava loro di aprire un passaggio sufficiente per inoltrarvisi strisciando. Lavoravano però con rabbia estrema, inquieti anch'essi per l'avanzare della marea. Sopra, i selvaggi raddoppiavano non meno rabbiosamente, i colpi. Un'altra mezz'ora trascorse, durante la quale l'acqua non smise di invadere il rifugio. Mina, che vigilava sempre all'entrata, ne aveva fino alle ginocchia, e intanto la volta si abbassava sempre più. Il terribile momento in cui non sarebbe rimasto più posto ai disgraziati assediati non doveva essere molto lontano.

— O affogati o soffocati, — mormorò il capitano, pur non smettendo di aiutare validamente i kanaki. A un tratto Mina mandò un grido.

— Che cosa c'è? — chiese don Pedro, che ritirava le radici tagliate e strappate.

— La volta tocca la mia testa e l'acqua sale rapidamente, — rispose la fanciulla. — Noi sprofondiamo dentro le rhizophore del fondo.

Tutti avevano interrotto il lavoro. Quel grido che annunciava una catastrofe imminente si era ripercosso in tutti i cuori. Mina era sempre presso l'uscita del rifugio, immersa nell'acqua fino alle anche, mentre la volta l'aveva già raggiunta, obbligandola a curvarsi.

— Stiamo per essere sepolti vivi fra questi ammassi di radici... — disse don Pedro, con angoscia. — Capitano, salvate almeno mia sorella, prima che l'apertura si chiuda del tutto.

— Ah, mio Dio! — esclamò il capitano, strappandosi i capelli. — Quell'infame non poteva condannarci a un supplizio più spaventoso!

— Arrendiamoci, don Josè.

— E dopo? Se si trattasse di morire combattendo mi rassegnerei, ma avere per tomba lo stomaco di quei selvaggi mi fa paura.

Si volse verso Matemate, il quale guardava, atterrito, l'acqua che si alzava.

— Potremo raggiungere la superficie prima che l'aria venga a mancare? — chiese. — Fra un'ora e forse meno il nostro rifugio si troverà tutto sott'acqua.

— Non dobbiamo essere lontani dallo strato superiore, — rispose il kanako. — Basterebbe tagliare le radici verticalmente per arrivarci presto.

— Cambiamo allora direzione al nostro lavoro.

— Incontreremo i nemici, uomo bianco. Essi lavorano a breve distanza da noi.

— Preferisco dare loro battaglia, piuttosto che morire qui soffocato.

Il kanako lo guardò per qualche istante senza rispondere, come se qualche pensiero lo tormentasse.

— Se si potesse attendere la notte per uscire, — disse poi, come parlando fra sé.

— È impossibile, — rispose il capitano. — Mancano ancora parecchie ore alla scomparsa del sole.

— Si potrebbe aspettare quel momento.

— L'aria fra poco mancherà, l'acqua sale e la volta discende.

— Potremo respirare egualmente, — disse Matemate, dopo un altro breve silenzio. — Lascia fare a me, uomo bianco.

— Rispondi della nostra salvezza?

— Completamente, — rispose il kanako con voce ferma. — Attacchiamo lo strato verticalmente, più presto che sia possibile, per raggiungere la superficie, prima che l'acqua ci affoghi.

Il selvaggio aveva parlato con tanta convinzione, che il capitano credette inutile insistere per avere maggiori spiegazioni. Il tempo stringeva e non era quello il momento per discutere. Matemate s'introdusse nel passaggio dove già suo fratello lavorava e attaccò risolutamente lo strato superiore. Mina aveva cominciato a ritirarsi, poiché l'acqua aumentava sempre e l'apertura minacciava di chiudersi. Don Pedro e il capitano aiutavano i lavoranti, ritirando le radici e gettandole fuori dalla nicchia. Sopra le loro teste i colpi non finivano. I mangiatori di carne umana possedevano certo dei muscoli d'acciaio. Un'ora dopo, il rifugio scompariva completamente sott'acqua e l'apertura che fino allora aveva dato aria ai lavoratori, scomparve. Una profonda oscurità aveva avvolto gli assediati.

— È la fine! — esclamò Pedro, spingendo la sorella verso la galleria.

Come per smentirlo, si era subito sentito un hu!... hu!... che pareva uscito dalle labbra di Koturè, che si trovava più avanti di tutti. Quella esclamazione di gioia, particolare ai kanaki, i quali non si esprimono diversamente quando sono soddisfatti, aveva colpito il capitano.

— Matemate! — chiamò.

— Che cosa vuoi? — chiese il kanako, che lavorava più in alto, tentando di allargare il passaggio.

— Tuo fratello mi sembra allegro.

— E ne ha ragione.

— Perché?

— Siamo vicini alla superficie.

— Ma mi sembra che l'aria non arrivi.

— Passami il tuo coltello, uomo bianco. Basterà fare un piccolo squarcio.

— Non se ne accorgeranno i mangiatori di carne umana?.

— Koturé agirà con precauzione.

La navaja del capitano, passò nelle mani del kanako. Tutti ascoltavano ansiosamente respirando a stento, poiché l'aria diventava di minuto in minuto irrespirabile. A un tratto si udì Koturé mormorare:

— Ecco: lo strato è tagliato.

Il selvaggio aveva tagliato le radici in più punti, allargandole poi con il braccio in modo da formare parecchi piccoli condotti sboccanti appena a fior di terra.

— Finalmente! — esclamò il capitano. — Credevo...

Si era subito interrotto, sentendo delle voci scendere attraverso quella specie di tubi che Koturé manteneva aperti, tendendo spesso le radici a restringersi. I selvaggi non battevano più gli strati erbosi. Sembrava che si consigliassero sul da farsi. Certo dovevano ormai essersi accorti della scomparsa del rifugio. Matemate che ascoltava attentamente, a un certo momento urtò il capitano che stava sotto di lui.

— Non ci siamo ingannati, — disse.

— Che cosa vuoi dire, amico?

— Che non sono i Nuku quelli che ci assediano.

— Sono selvaggi appartenenti a un'altra tribù?

— Sì: questi sono i Kahoa.

— Come va questa faccenda? Sei sicuro di non ingannarti? — chiese il capitano.

— No, uomo bianco: conosco la loro lingua che rassomiglia molto a quella che parla la mia tribù.

— Eppure ieri quell'uomo guidava dei Nuku; così tu mi hai detto.

— È verissimo.

— Sono migliori o peggiori degli altri questi Kahoa?

— Sono anch'essi mangiatori di carne umana, ma non così feroci come i Nuku.

— Che le due tribù si siano alleate?

— Può darsi che l'uomo bianco che è arrivato con il gran canotto, abbia assoldato anche questi guerrieri, quantunque valgano ben poco.

— Sicché tu credi che se noi balzassimo improvvisamente fuori facendo fuoco...

— Non so se resisterebbero a lungo, — rispose Matemate. — Temono soprattutto le armi che tuonano. Ah, se non avessero con loro quell'uomo bianco che li guida!

— Non prenderti pensiero per quello, perché la mia palla sarà per lui.

— Aspettiamo la notte. Hu! Hu! Hu!

— Che cos'hai ancora?

— Il piccolo fratello bianco ha sempre il tabù con sé?

— Sempre.

— I Kahoa adorano il misterioso simbolo dei notù. Vedremo, a me basta che l'uomo bianco non ci sia più.

— Spiegati meglio.

Matemate non rispose e il capitano non insistette. Conosceva ormai la cocciutaggine del kanako. Quantunque fossero stretti quasi l'uno sopra l'altro e serrati fra le radici, gli assediati diedero fondo alle loro ultime noci di cocco. Tutti sopportavano con stoicismo quel supplizio, e nessuno, nemmeno Mina, si lagnava, quantunque si sentissero come sepolti vivi e condannati a una immobilità quasi assoluta. Don Pedro e Mina occupavano la galleria obliqua insieme a Hermosa, non avendo potuto passare avanti, sicché l'aria giungeva piuttosto scarsa fino a loro: il capitano e i due kanaki, si trovavano, lungo il tubo verticale, l'uno sull'altro, dimodochè il primo era obbligato a sopportare il peso degli altri due. Nessuno parlava per paura che il suono delle loro voci arrivasse agli orecchi acutissimi dei selvaggi. Quei bricconi, quantunque dovessero essere ormai convinti che gli assediati si trovavano rinchiusi vivi o moribondi fra gli strati delle rhizophore, non si erano ancora decisi ad andarsene. Che cosa aspettavano? Era quello che si chiedevano angosciosamente il capitano e don Pedro. La loro attesa non fu lunga, poiché dopo un paio d'ore udirono la voce dell'uomo bianco, che diceva:

— È ora di andare a vedere se sono crepati. La marea si è ritirata e potremo aprire facilmente un passaggio fino al loro rifugio. Già a quest'ora l'acqua li avrà affogati.

— Miserabile! — mormorò don Josè. — Vedrai fra poco che cosa sapranno fare questi morti!

Attesero alcuni minuti, poi non sentendo più nulla, Koturé allargò uno di quei tubi che avevano loro fornita l'aria, sollevando e tagliando con infinite precauzioni le radici. Con un'ultima e poderosa spinta sollevò un bel tratto di terriccio misto a foglie e, allargatolo, sporse il capo. La notte stava per calare e presso al foro non si scorgeva nessuno. Dalla parte della fenditura, si udiva invece parlare e si alzavano sprazzi di luce rossastra proiettati senza dubbio da rotoli di corteccia di niaulis la torcia dei neocaledoni.

— Possiamo uscire? — chiese Matemate.

— Non vedo alcuna sentinella e questo mi preoccupa, — rispose Koturé.

— Nessuno può aspettarsi la nostra comparsa, — disse il capitano. — Su Koturé impugna la scure e balza fuori. Noi siamo pronti ad appoggiarti con le armi che tuonano.

Il kanako, con uno sforzo supremo, allargò maggiormente il foro e con un balzo sì trovò all'aperto, gettandosi prontamente a terra per non farsi scorgere. Per sua fortuna in quel luogo si alzavano parecchi fusti di rhizophore, quindi non era facile scoprirlo subito. Matemate lo aveva prontamente seguito, imitando quella prudente manovra, poi toccò al capitano il quale aiutò a uscire Mina. Pedro fu l'ultimo.

— Capitano, — chiese il giovane — la polvere dei nostri fucili avrà sofferto?

— Non credo, — rispose don Josè.

— Possiamo dunque essere sicuri dei nostri colpi?

— Perfettamente: conosco le mie carabine.

— Allora ho la pelle di quel cane di uomo bianco.

— Lasciate a me, don Pedro, — disse il capitano. — Il conto devo saldarlo io. L'ho giurato.

I due kanaki, dopo aver scambiato alcune parole, si erano messi a strisciare fra i fusti delle rhizophore, tentando di guadagnare la boscaglia che si ergeva a un centinaio di metri. Disgraziatamente per loro, venti passi più in là non c'erano più tronchi. Il terreno appariva cosparso di ammassi di radici e di foglie, però senza cespugli, senza macchie e senza fusti. Matemate, che si era messo alla testa del drappello, stava per dare qualche consiglio ai suoi amici dalla pelle bianca, quando un grido gutturale echeggiò a breve distanza.

— All'armi!

I due kanaki avevano fatto un salto indietro, brandendo le loro armi. Al grido lanciato certamente da qualche sentinella nascosta in mezzo ai fusti delle rhizophore, aveva risposto subito un clamore spaventoso, che proveniva dalla parte della fenditura. Il capitano, con uno sforzo supremo sgusciò da quella specie di tubo che lo imprigionava e puntò la carabina, mentre Pedro, spingeva la sorella. Una turba di selvaggi accorreva, ululando e agitando rompiteste, e asce di pietra e di ferro. Erano tutti guerrieri di alta statura, con la pelle molto scura, quasi nudi, ma con i corpi abbelliti più o meno da tatuaggi che formavano delle curve intrecciate, delle linee e degli zigzag a varie tinte. Erano preceduti dall'uomo bianco, un brutto tipo di pirata, tozzo e muscoloso, più largo che alto, con una selva di capelli rossastri e una lunga barba incolta che nascondeva malamente una orribile cicatrice che gli deturpava il viso da un orecchio all'altro.

— Ah! furfanti! — aveva urlato il bandito con la sua vociaccia rauca da ubriacone. — Non siete ancora crepati! Tanto meglio! Mi pagherete la morte di quel disgraziato kanako.

Il capitano ebbe uno spaventoso scoppio d'ira.

— Ignobile pirata, a me dai del furfante! — tuonò, andando verso il miserabile, con la carabina puntata.

— Alto là signor mio, — rispose il bruto. — Ho anch'io un fucile fra le mani e dietro di me quaranta guerrieri pronti a farvi a pezzi e anche a mangiarvi, se io lo voglio. Giù le armi!

— Eccole!

Il capitano aveva fatto fuoco mentre don Pedro e Mina dirigevano le loro carabine verso i selvaggi, i quali, conoscendo la potenza di quelle armi, avevano arrestato di colpo il loro slancio. Il bandito, colpito in mezzo alla fronte, cadde sulle ginocchia allargando le braccia, poi stramazzò in avanti, con il viso contro terra. Sentendo lo sparo e vedendo cadere il loro capo, i selvaggi, che stavano per circondare completamente i naufraghi e i due loro alleati, avevano allargate le loro file, guardando con un misto di spavento e d'ammirazione il comandante dell'Andalusia ancora avvolto in una nuvola di fumo. Non avevano però abbandonate le loro armi, né sembravano disposti a scappare. Matemate, che impugnava fieramente la scure di pietra, si era accostato al capitano.

— Dite al figlio del grande capo dei Krahoa di darmi subito il simbolo, — gli disse rapidamente. — Forse quello ci salverà.

Don Josè tradusse la frase, mentre ricaricava precipitosamente la carabina. Don Pedro che aveva compreso ciò che voleva tentare il kanako, fu pronto a togliersi, di sotto la camicia, il pezzo di corteccia che portava quei segni misteriosi. Matemate lo prese e, mostrandolo ai selvaggi, gridò per tre volte, con voce tuonante:

Tabù! Tabù! Tabù!

E stese un braccio verso i naufraghi, come per prenderli sotto la sua protezione. I Kahoa, udendo quel grido, avevano allargato maggiormente il cerchio, poi un vecchio guerriero che doveva essere un capo, avendo infisse nei capelli crespi due penne di notù, avanzò titubante verso Matemate, che teneva sempre alto il simbolo misterioso dei Krahoa.

— Che cosa mostri tu? — chiese, quando gli fu vicino.

— Guarda bene, vecchio, — rispose Matemate — se i tuoi occhi ti servono ancora.

Il capo guardò sospettosamente i due uomini bianchi e la fanciulla, che tenevano sempre puntate le carabine, temendo senza dubbio qualche tradimento, poi fattosi animo si avvicinò ancor più al kanako, gettando sul simbolo un rapido sguardo. Un grande stupore apparve sul viso del capo.

— Il duk-duk! — esclamò con profondo terrore.

Poi si gettò a terra, percuotendosi il capo con le mani a più riprese, in segno di profondo rispetto. Tutti i suoi guerrieri lo imitarono, lasciando cadere le armi. Il prezioso talismano ancora una volta aveva salvati i naufraghi.