Il tesoro della Montagna Azzurra/IX - L'assalto dei pesci-martello

IX — L'assalto dei pesci-martello

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IX — L'assalto dei pesci-martello


Quel pasto deliziosissimo dopo tanti giorni di digiuno, fatto all'aria libera, in piena sicurezza, fra il profumo degli alberi in fiore, fu forse il migliore che i naufraghi avessero fatto dopo la loro partenza dai porti del Cile. Malgrado le raccomandazioni del capitano, che temeva qualche grave indigestione dopo un così lungo digiuno, tutti ci tornarono più di una volta, vantando la delicatezza di quella tenera carne che il mozzo aveva cucinata a perfezione. Il bosmano ne aveva fatta una scorpacciata colossale. Terminata la colazione, il capitano, vedendo che tutti avevano acquistato un po' di vigore, scese verso la zattera per vedere se fosse possibile radunare gli avanzi e costruire un secondo galleggiante; ma verificò che erano rimaste soltanto poche tavole attorno alla punta rocciosa. Durante la notte, le onde avevano portato via le travi principali e avevano sfondato quei pochi barili che erano sfuggiti al formidabile urto.

— Ne avremo abbastanza per reggere vostra sorella, — disse don Josè a don Pedro. — A noi basterà avere un punto di appoggio. D'altronde una traversata di appena cento metri non ci spaventa.

— Ne attraverserei anche cinquemila senza preoccuparmi, — rispose il giovane.

Aiutati dal bosmano e da Emanuel, fecero scivolare le tavole fino sul greto e servendosi delle funi che ancora possedevano, costruirono un piccolo galleggiante, sufficiente a reggere Mina e la cassa contenente le armi e le munizioni. Prima di lanciarlo, il capitano fece un giro per l'isolotto in compagnia del bosmano, temendo che si trovassero nei dintorni qualcuna di quelle temute caverne sottomarine che servono da rifugio a intere famiglie di squali. Non avendo scorto nulla di sospetto, fece gettare in acqua il galleggiante e aiutò Mina a salire.

— Rimorchiamolo alla costa, — disse. — Tenete pronte le navaje.

— Sono sull'orlo della zattera, — rispose il bosmano.

— E poi ci sono io, don Josè, — disse la giovane. — Maneggio la carabina meglio di quanto credete e se apparirà la testa di qualche squalo non esiterò a far fuoco.

— Adoperate la mia, señorita, — aggiunse Reton. — Ha due palle incatenate che apriranno un bello squarcio nella pelle di quei mostri.

I quattro uomini entrarono nell'acqua, si afferrarono ai bordi del galleggiante per avere un punto di appoggio e si misero a nuotare vigorosamente, a colpi di tallone. Mina, seduta sulla cassa delle armi, con la carabina del bosmano fra le mani, sorvegliava attentamente le acque. La zattera, rimorchiata a gran fatica da quegli uomini, ai quali un solo pasto non era bastato a rinforzarsi dai lunghi digiuni, si era allontanata dalla scogliera circa duecento metri, quando il bosmano fece un salto, allungando una mano verso le navaje che aveva infisse sulle tavole.

— Che cosa c'è, Reton? — chiese il capitano.

— Qualcuno mi ha urtato, — rispose il lupo di mare, che non sembrava più tranquillo.

— Uno squalo?

— No, deve essere qualche altro pesce, poiché mi ha stracciato la casacca e mi ha punto il fianco destro.

— Una razza forse? Ce ne sono di pericolosissime in queste acque.

— Che ne so io? Non ho potuto vederla, comandante.

— Bada che le punte di quei pesci sono velenose.

— Che debba fare anch'io la fine di quegli imbecilli che si sono rimpinzati di sardine velenose?

— Tuffati, Reton, e guarda se puoi scoprire quel pesce misterioso. Siamo pronti a prestarti aiuto.

Il bosmano strinse fra i denti una navaja, lunga quanto una spada, e si lasciò colare a picco. Un momento dopo la sua testa emergeva.

— Ah, che brutta bestia ci gira intorno! — esclamò. — La si direbbe una scatola coperta di spine.

— Non è un pescecane però? — chiese il capitano, respirando liberamente.

— Oh, no! Almeno per ora.

— Che cosa vuoi dire, Reton?

— Che ho visto un'ombra gigante scivolare a pochi passi da me e che rassomigliava a un pesce martello.

— E l'altro? Quello che ti ha squarciato la casacca?

— Vi ho detto che sembrava una scatola.

— Che sia un cofano triangolare?

— Non conosco quei pesci, capitano. Eppure navigo da quarant'anni.

— Non tutti i mari sono eguali. Rimorchiamo?

— Avanti, — dissero Emanuel e don Pedro, che erano impazienti di raggiungere le rive verdeggianti della terra dei Kanaki.

Stavano per muoversi, quando una bestemmia sfuggì dalle labbra di Reton.

— Ce l'ha con la mia casacca dunque, quella bestia del malanno! — esclamò.

— Ancora, Reton? — chiese il capitano.

— Deve essere qualche cenciaiuolo, comandante.

— Guarda dunque cos'è.

— Sì, bisogna che la finisca con quel noioso, — disse il bosmano irritato.

Impugnò la navaja e per la seconda volta si immerse. Poco dopo una specie di cassa ossea salì alla superficie, lasciandosi dondolare dalla risacca, e il bosmano pure compariva, stringendo nella destra la navaja.

— Che cos'è dunque quella bestia? — chiese. — Ce l'aveva proprio con me, capitano.

— Non l'ho vista.

— Eppure le ho dato un colpo di navaja da squarciare il petto ad un toro. Voi sapete che ho il polso fermo.

— È quella cassa che dondola? — chiese don Pedro.

Mil diables! — esclamò il bosmano. — È quella bestia che ho sbudellata.

— Lo avevo detto io, — disse il capitano. — È un cofano triangolare.

— Spiegatevi, comandante.

— Un pesce che abita i mari e che non rifugge dalle acque dolci. Ecco un buon segno.

— Perché? — chiese don Pedro.

— La presenza di questo strano pesce mi fa sospettare la vicinanza di qualche importante corso d'acqua. Che il destino, i venti e le onde ci abbiano spinti verso la baia di Bualabea? I fiumi sono piuttosto rari nella terra dei Kanaki e non c'è che il Diao che sia di qualche importanza. Sarebbe una vera, incredibile fortuna.

— La cattura di quella bestia? — domandò il bosmano.

— Lasciala andare, Reton; non servirebbe a nulla. Quei pesci non hanno dentro la scatola ossea che un po' di carne filamentosa e un fegato enorme, oleoso, che nemmeno il più affamato antropofago oserebbe mangiare. Prendimi, invece, un dugongo e ti farò assaggiare un piatto squisito.

Demonios!

— Che cosa c'è ancora?

— Ce l'hanno con me.

— Chi? — chiesero ad una voce don Pedro ed Emanuel.

Un grido del capitano fu la risposta:

— In guardia! Gli squali!

Si erano tutti fermati, impugnando le navaje, mentre Mina si era alzata, tenendo in mano la carabina.

I quattro uomini erano in preda a una grande preoccupazione.

— Reton, — disse il capitano — hai proprio visto un'ombra?

— È quella di un pesce martello, — rispose il bosmano. — Si è riflessa distintamente sulla sabbia del fondo.

— Aspettami.

Afferrò con mano ferma la navaja e si lasciò andare a picco. La sua perlustrazione sottomarina non durò che mezzo minuto. Quando però ricomparve a galla aveva l'aspetto di un uomo in preda al terrore.

Señorita, — chiese — siete ben sicura dei vostri colpi?

— Sì, capitano.

— Voi avete nelle vostre mani la salvezza di tutti... Tenete pronte le carabine.

— Perché, capitano?

— Abbiamo intorno a noi una banda di pesci martello.

Un brivido di spavento corse tra i naufraghi.

— Li avete proprio visti, don Josè? — domandò Pedro.

— Nuotavano pochi metri sotto di me, — rispose il capitano.

— Molti?

— Erano sette o otto, ma se ne possono trovare altri nei dintorni... Don Pedro, salite sulla zattera.

— Perché io invece di voi, o di altri?

— Noi siamo gente di mare. Presto, non discutete. I mostri possono piombarci addosso.

— Mi sosterrà la zattera?

— Lo spero: su e armatevi di una carabina. I mostri salgono a galla per assalire.

Il giovane, invitato anche dalla sorella, salì sulla zattera con precauzione, per non rovesciarla e si sdraiò vicino alla cassa. Il galleggiante affondò un poco, sbandando verso prora, però resse al nuovo peso.

— Rimorchiate voi altri, — disse allora il capitano a Emanuel e al bosmano. — M'incarico io di quelle brutte bestiacce e saprò trattarle come si meritano.

Tornò a tuffarsi, mentre i due marinai si rimettevano a nuotare, girando intorno lo sguardo smarrito. Una profonda ansietà si era impadronita di tutti. Perfino il bosmano appariva atterrito e non a torto.

Per la seconda volta la testa del capitano apparve.

— Dunque? — chiesero tutti con ansia.

— Nuotano sempre sotto di noi, — rispose don Josè. — Sono occupati a far strage di una banda di serpenti di mare. Temo però che qualcuno si sia accorto della nostra presenza e che abbia già osservato la mia ombra proiettata sul fondo... Tenetevi pronti a far fuoco, don Pedro: è probabile che qualcuno si mostri.

Aveva appena pronunciate quelle parole, quando un leggero tremolio si avvertì a pochi passi dalla prora della zattera, poi una testa a forma di martello, che aveva alle due estremità dei bruttissimi occhi azzurro-cupi con riflessi giallastri intorno all'iride, comparve aspirando fragorosamente l'aria.

I tre uomini di mare si erano fermati stringendo i coltelli.

— Don Pedro! — esclamò il capitano.

Due colpi di fucile gli risposero: Mina e suo fratello avevano fatto fuoco quasi contemporaneamente, mirando quella brutta e strana testa. Lo squalo uscì quasi tutto fuori dall'acqua, mandando una specie di fischio acuto, poi s'immerse, lasciando a galla una larga macchia di sangue.

— Ecco l'effetto delle mie palle incatenate! — esclamò il bosmano.

— Quel furfante non divorerà più né serpenti di mare, né uomini.

— Attenti agli altri, — disse il capitano. — Questa non è che una scaramuccia. Prendete le altre carabine, don Pedro. Non perdete tempo a ricaricare, per ora... Brava, señorita! Farete delle meraviglie sulla terra dei kanaki.

Quantunque dimostrassero una certa calma, nessun naufrago aveva osato però spingere avanti il galleggiante, per timore che gli squali udissero i colpi di tallone. Anzi avevano ritirate le gambe, temendo di sentirsele tagliare da un momento all'altro.

— Perdinci! — esclamò il bosmano. — Fa un caldo infernale, eppure sento un freddo cane.

— Mentre il vostro mozo cocido si trova benissimo anche fra i pesci-martello, — disse Emanuel ironicamente.

— Aspetta che ti circondino e che provino sulla tua carnaccia i loro denti e mi saprai dire qualcosa, — rispose il bosmano. — Sei pallido come una medusa.

— Silenzio, — comandò don Josè. — Non è questo il momento di bisticciare... Vedete nulla, don Pedro?

— Mi sembra che l'acqua si gonfi sul nostro tribordo.

Un urlo di Emanuel fece impallidire tutti.

Carrai! — aveva esclamato il giovane, tentando di arrampicarsi sulla zattera. — Mi hanno urtato! Ci circondano.

Cinque teste, nello stesso istante, comparvero davanti al galleggiante, fissando i loro brutti occhi sui naufraghi. Don Josè con un poderoso colpo di tallone si era gettato davanti al giovane marinaio, gridandogli:

— Non salire! Affonderai tutti!... A voi don Pedro!

Due lampi balenarono, seguiti da due fragorose detonazioni. Le carabine per la seconda volta avevano sparato. Due squali si rivoltarono sul dorso, dibattendosi ferocemente, spalancando e richiudendo con rumore le loro enormi mascelle irte di denti triangolari, mentre gli altri, spaventati dalle detonazioni, si rituffavano precipitosamente.

— Fate attenzione che non ci assalgano da sotto! — gridò il capitano.

Il bosmano ed Emanuel cacciarono la testa sott'acqua, tenendosi con una mano fermi all'orlo della zattera, non osando lasciarsi calare a picco.

— Si vedono? — chiese don Josè, quando si risollevarono.

— No, capitano, — rispose Reton. — Credo che ne abbiano avuto abbastanza della nostra accoglienza. Sono meno coraggiosi dei veri pescicani, quei mostri. Se fossero stati dei carcharodon a quest'ora nessun di noi avrebbe le sue gambe. Dobbiamo muoverci?

— Aspettiamo un po', amici. Possono rinnovare l'assalto.

— Che siamo pronti a respingere, vero, Mina? — disse don Pedro.

— Sì, fratello, — rispose la giovane che conservava un meraviglioso sangue freddo. — Comincio a trovare piacere a colpire quelle grosse bestie.

Attesero alcuni minuti, facendo di frequente dei tuffi, poi non vedendo riapparire nessuno squalo, si rimisero a rimorchiare la zattera spingendola in direzione di una fitta linea di rhizophore, che s'intrecciavano a quattrocento metri di distanza. Pedro, per non rendere troppo faticoso il rimorchio, era ridisceso, mettendosi a spingere vigorosamente il galleggiante. A un tratto il bosmano mandò un grido.

— Ci danno la caccia! In guardia!

Cinque o sei teste di pesci-martello erano improvvisamente comparse a quindici o venti passi dalla poppa della zattera, respirando fragorosamente l'aria. I mostri, tornavano alla carica per impadronirsi dei disgraziati.

— Spingete! Spingete — gridò don José. — Fuoco, señorita! Non risparmiate la polvere!

La giovane, che aveva già ricaricate le carabine, mettendosele tutte intorno, s'inginocchiò sulla cassa e aprì un magnifico fuoco di fila che arrestò di colpo lo slancio degli assalitori. Uno solo, forse reso furioso per qualche ferita, si precipitò all'assalto, investendo il capitano che si appoggiava contro la poppa del galleggiante. Aveva però trovato un avversario degno di lui. Il cileno che possedeva un coraggio eccezionale e che era per di più un nuotatore abilissimo, vedendosi precipitare addosso quella massa, fu pronto a tuffarsi. Il mostro reso ancor più rabbioso per non aver trovato la preda, addentò l'orlo della zattera strappando una tavola intera, ma quasi nello stesso momento si ripiegava su sé stesso, mostrando sotto il ventre un orribile squarcio da cui uscivano fiotti di sangue nerastro. Mina si impadronì di un'altra carabina e gli sparò un colpo in piena bocca, facendogli inghiottire a un tempo, piombo, fuoco e fumo. L'enorme squalo, che misurava almeno quattro metri, si lasciò andare a picco, mentre dietro di lui emergeva il capitano, impugnando la navaja.

— Ah, che bel colpo, comandante! — gridò il bosmano, spingendo la zattera verso le prime rhizophore.

— L'ho aperto dalla gola alla coda... — rispose don José, afferrandosi ai rami delle piante acquatiche. — Svelti sbarcate prima che quelle dannate bestie ritornino all'attacco.

In un baleno si arrampicarono fra le piante, portando con loro le armi. Mina, aiutata dal fratello, si era già messa al sicuro. I pesci-martello ricomparvero in quel momento. Erano soltanto quattro, ma si precipitarono impetuosamente contro la zattera, rovesciandola prima e poi sfasciandola con pochi e formidabili colpi di coda.

— Dannati! — esclamò il bosmano. — Se arrivavano un momento prima eravamo fritti.

— Ringrazia la señorita che con il suo fuoco li ha trattenuti un po', — disse il capitano. — Siete una tiratrice unica, Mina.

— Un'altra al mio posto avrebbe fatto altrettanto, — rispose la bella cilena.

— O sarebbe caduta svenuta per lo spavento, — osservò il bosmano.

I naufraghi si erano radunati sulle larghe radici di una rhizophora, per riposarsi un po' prima di spingersi sulla terraferma che poteva essere ancora lontana. Il capitano, dopo aver accordato ai suoi compagni un quarto d'ora di riposo, si era messo in marcia attraverso quegli ammassi di radici che non cedevano sotto il suo peso, abbattendo a colpi di navaja i fusti che crescevano fittissimi sbarrandogli il passo. Aveva raccomandato a tutti il più profondo silenzio, poiché al di là di quelle piante poteva trovarsi qualche villaggio di Kanaki.

— Non vi dimenticate, — disse ai compagni — che siamo in un paese popolato di antropofaghi. Quindi nessuno sparo e nessun grido per ora. La cena la cercheremo più tardi.

Avanzavano a stento, aiutando Mina che si trovava assai impacciata con le sue gonne e che correva di quando in quando il pericolo di cadere fra le aperture piene d'acqua stagnante che formavano le radici. Già il capitano, che camminava in testa a tutti, cominciava a scorgere le foglie di alcuni alberi di cocco, che crescono soltanto sulla terraferma, quando i suoi compagni lo videro curvarsi rapidamente e caricare la carabina. Non sapendo di che cosa si trattasse, tutti lo avevano imitato. Trascorsero alcuni istanti d'angosciosa aspettativa, poi il capitano si rialzò scostando, con infinite precauzioni, alcuni fusti.

— Che cosa avete scorto, don José? — chiese sottovoce Pedro, scivolandogli presso.

— C'è della gente qui, — rispose il capitano.

— Dei Kanaki?

— Sì.

— Molti?

— Erano in due, armati di lance e di scuri di pietra.

— Che cosa facevano?

— Non saprei, ma mi sembrò che cercassero qualcosa.

— Se ne sono andati?

— Non credo. Eccoli là, li vedete, don Pedro?

Il giovane seguì con lo sguardo la direzione indicatagli dal capitano e scorse infatti due uomini di statura piuttosto alta, di colorito molto scuro, simili più ai negri che ai malesi, e che per unico ornamento portavano sul capo delle penne dai colori brillantissimi. Parevano occupati in qualche strana faccenda, poiché andavano e venivano fra le rhizophore, tendendo fra i fusti delle lunghe liane.

— Che cosa fanno dunque? — chiese don Pedro.

— Credo di aver indovinato, — rispose il capitano. — Preparano i lacci per Kutio-Kueta.

— Che cosa volete dire?

— Per il passaggio dei colombi. Questa infatti è la vera stagione delle migrazioni. I notù non devono essere molto lontani.

— Sono i volatili dipinti sul documento lanciato in mare da mio padre?

— Sì, don Pedro. Se abbiamo un po' di pazienza questa sera avremo una cena eccellente, senza sparare un colpo di fucile. Ecco che se ne vanno. Ci deve essere qualche villaggio sulla costa che dovremo evitare con gran cura. I kanaki sono bravi guerrieri, pieni di coraggio e non esiterebbero ad assalirci.

— Eppure sarà necessario avvicinarne qualcuno, per sapere dove ci troviamo e dove si trova la tribù dei Krahoa!

— Sì, ma non ora. È un prigioniero che ci vuole e prima o poi lo prenderemo.

Appena gli indigeni si furono allontanati, il minuscolo drappello riprese il cammino sempre attraverso le rhizophore, dirigendosi là dove aveva visto tendere fra i fusti le corde vegetali. Dopo cinque buoni minuti raggiungevano il posto poco prima occupato dai due indigeni.

— Non mi ero sbagliato, — disse il capitano, indicando alcune liane. — Quei due cacciatori preparavano i lacci per i notù. Il passaggio degli squisiti piccioni avverrà presto, ne sono certo. Disgraziatamente noi non assaggeremo quegli arrosti delicatissimi.

— Perché? — chiesero Pedro e Reton, i quali avevano molto contato su una buona cena.

— Perché quei due indigeni torneranno qui verso il tramonto a strangolare i notù. Guardate bene quanto sono ingegnosi questi lacci.

— Perché dunque non potremo rimanere qui a cacciare anche noi? — domandò Pedro.

— Vi ho detto che i cacciatori saranno costretti a ritornare per far lavorare i lacci. Se non si tira a tempo la liana per strangolare il piccione, questo fugge.

— E se potessimo sorprendere questa notte quei due cacciatori per avere da loro notizie sui Krahoa? — chiese Reton.

— È quello che pensavo anch'io, — rispose il capitano. — È certo che si fermeranno qui fino all'alba.

— Siamo in quattro, senza contare la señorita e avremo facilmente ragione di loro, quantunque i kanaki siano robusti come gli africani.

— Su ciò discuteremo più tardi. Cerchiamoci intanto un rifugio che sia sicuro contro le sorprese, — disse il capitano.

— E soprattutto qualche cosa da mettere sotto i denti, — aggiunse Emanuel. — Ci sono degli alberi di cocco laggiù.

— Tentiamo di raggiungerli, — osservò don Pedro.

Per un quarto d'ora ancora i naufraghi camminarono su quegli ammassi di radici, che trasudavano acqua da tutte le parti e dove correvano a ogni passo il pericolo di affondare; poi si trovarono sulla terra ferma, dinanzi a un gigantesco fico baniano con il tronco formato di grossi fusti intrecciati.

— Ecco un bosco formato da una sola pianta, — disse il bosmano. — Non ho mai veduto una pianta così colossale.

— Preferisco le altre più modeste, ma più utili, — soggiunse il capitano. — Fra le loro foglie portano la nostra cena. Questo però ci servirà da casa.

— Che cosa avete scoperto dunque?

— Ve lo dirò fra cinque minuti, — disse Emanuel che si allontanava di corsa.

— Dei cocchi! — esclamarono Mina e suo fratello.

— Che ci offriranno un pasto squisito, — aggiunse il capitano. — Avremo del latte eccellente.

La marcia attraverso le rhizophore li aveva così estenuati da non potersi più reggere in piedi. Emanuel però ritornava in quel momento, portando una mezza dozzina di grosse noci di cocco, che promettevano del latte squisito e una polpa simile alla crema.