Il sorbetto della regina/Parte prima/XIV
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CAPITOLO XIV.
Le conseguenze di una prescrizione del dottor Tibia.
L’idea di Bruto, il lettore se ne è già addato, era di rivelare al colonnello l’esistenza di sua figlia e di chiedergliela in isposa, sottraendola così alla pressione malefica di sua madre. Ma questa, scaltrita dalla sua lunga lotta colla polizia, credendo averne sempre alle peste i segugi ed avendo al primo colpo d’occhio creduto indovinare una spia in don Gabriele, affrettò l’esecuzione del suo progetto e scomparve con Lena. Bruto rimase abbattuto.
Cercò consolarsi coi suoi libri, distrarsi coll’esercizio della sua professione. Don Gaudioso, il farmacista, gli aveva promesso di aiutarlo e tenne parola. Bruto cominciò ad avere dei clienti, un ciabattino, un servitore di ricca casa, qualche serva, una corista di un teatro di terzo ordine, il pizzicagnolo sull’angolo della via, il cancelliere aggiunto del commissario di polizia del quartiere, una giovine crestaia, ma tutti costoro davano più lavoro che danaro, delle benedizioni e mille promesse. Don Gaudioso non si stancava tuttavia di predirgli un brillante avvenire, e perfino la carrozza.
Bruto passava i suoi momenti di ozio nella farmacia del suo compatriota, aspettando.... chi lo sa! il cholèra, forse, non per cattiveria od avidità, ma per amore della scienza.
Bruto era artista.
Non andava mai di sera alla farmacia quando vi si riuniva la solita compagnia in becco-al-vento. Il notaio, il vecchio impiegato, il possidente, il tenente della guardia urbana del battaglione del quartiere, il cavaliere don Martino, che arrivava dalla provincia, don Luciano, che scriveva le sciarade dell'Omnibus, il vecchio scapolo, che girandolava tutto il giorno per la città.... tutta questa gente andava a fare un paio di orette di conversazione alla farmacia, ciascuno portando il suo contingente di ciarle; conoscendosi tutti e tutti pieni di creanza e di attenzioni reciproche.
Quantunque ci fosse stato a guadagnare, trovandosi in contatto di una compagnia così variata, Bruto non andava alla farmacia che di mattino, fra le dieci ed il mezzogiorno. A quell’ora il lavoro era sempre pressochè terminato ed egli poteva conversare col suo compatriota. Poi, un po’ prima del mezzogiorno, il colonnello veniva a prenderlo e rientravano insieme al tocco pel desinare.
Da due giorni, Bruto vedeva arrivare alla bottega una giovane cameriera, dagli occhi agli agguati, la taglia alla grazia di Dio, il nasino in aria. Quando entrava, era una rivoluzione. Toccava tutto, voleva spiegazione di tutto, i minuti le parevano ore. Non si ristava dal dare del tu all’uomo serio serio che preparava i medicamenti; canzonava questi e quegli, dirigeva la parola al primo che capitasse e, a chi l’interrogava, rispondeva innanzi sentire la fine della domanda.
Bruto ne aveva subita una grandinata, il primo giorno, avendo avuto l’inaccortezza di lagnarsi che la gli avesse camminato sui piedi; poi un’altra, la seconda volta, perchè ella aveva trovato ch’egli occupasse mezza la porta d’ingresso. Vedendola arrivare al terzo giorno, Bruto si tenne ritto, la schiena appoggiata alla tavola, dietro la quale farmacopolizzava don Gaudioso, gli occhiali inforcati sul naso, in testa un berretto di velluto nero ricamato d’arabeschi rossi, una barba di otto giorni, una camicia d’altrettanti e dei vestiti di cui non si sapeva più la data. Don Gaudioso era di buon umore e le sue guancie tremolavano dall’ilarità.
— Presto, presto, speditemela in men che non si dice: il diavolo ti porti! gridò quel nabisso gettandogli la ricetta.
La ricetta cadde per terra. Bruto si chinò per raccoglierla.
— Grazie, signore, disse la ragazza. Gli è che quell’animalaccio viene a mezzogiorno ed ordina di prendere il medicamento alle undici.
— È vostro padre che è ammalato, madamigella? chiese Bruto.
— Mio padre? Chi! replicò dessa.
— Vostra madre, dunque? avete tanta... fretta!
— Oh! sì, mia madre! Mia madre! quale? La madre Annunziata, se volete!
L’Annunziata è l’ospizio dei trovatelli di Napoli.
— Scusate, disse Bruto.
— Che diavolo di roba è cotesta! Oh! come puzza; è l’ammalata che deve inghiottirla! Che mazzo di fiori! Come lo chiamate codesto orrore?
— Del musco, carina, risponde don Gaudioso, con molta buona grazia.
— E quest’altra porcheria? Puh....
— Del castoro, risponde don Gaudioso graziosamente.
— To’! e io credevo il castoro fosse una stoffa. Ah! parlatemi della canfora, alla buon’ora! conosco anche il chinino ed il laudano.... e questo che cos’è?
— Dell’oppio, risponde don Gaudioso con avvenenza.
— Presto, dunque, presto; la non ha più di scilinguagnolo, la grida, la dà delle busse, la mia padroncina, presto, presto.... Oh! come con dei fiori azzurri sarebbe bello un vestito di quel verde, lì, eh! che ne dite, don Gaudioso?
— Per chi è quella pozione, bella ragazza? chiese di nuovo Bruto.
— Per lei, giuro a Dio! c’è forse altri in casa che inghiotta di queste abbominazioni?
— La vostra padrona, senza dubbio?
— La mia padrona, appunto.
— È giovane codesta vostra padrona?
— Questo, signorino, non è affar vostro, mi pare. Dice di aver diciannove anni, si potrebbe dargliene vent’uno o ventidue; la stiratrice, che la conosce da piccina, assicura che ne ha venticinque.
— Gli è molto che è ammalata?
— Siete ben curioso, signorino! S’è accorta, della sua malattia al principio del mese, o della settimana, o della stagione.... ieri.... oggi.... eh! siete contento ora? Ma fate presto, dunque! È l’ora della colazione di Monsieur.
— È, dunque, maritata la vostra padrona?
— Per chi, dunque, l’avete presa?
— Scusate, non ero per offenderla. Che malattia ha dessa?
— Son forse medichessa io? E a voi cosa importa di sapere che cosa ella ha? Peste! ho servito undici mesi nel convento dei Miracoli. Ohi oh! se ne vedono delle belle in codesti pensionanti! vi si acquista della probità.... E la padrona si nasconde, come se a vent’anni, uscita da un convento di Napoli, dovessi ignorare cosa vuol dir esser pallida, pensierosa, piangere, avere degli uragani di capricci, purgarsi ed ingollare questi orrori che le porto io! Ma fate presto, presto! non c’è bisogno di tanta attenzione. Sono sicura che la non verrà mai a capo d’ingoffare l’orrida cervogia che le reco....
— Don Gaudioso, permettete che legga questa ricetta?
Il farmacista gliela porse. Bruto la lesse e gridò:
— Misericordia! Tibia! il dottor Tibia! Non poteva esser che lui! Ma l’ammazza quella disgraziata, l’ammazza come egli ammazzò il mio povero zio! Oh! ragazza mia, dite alla vostra padrona che non prenda più di queste misture d’inferno.... Scusa, don Gaudioso, prima di tutto l’amor del prossimo e della professione. Sì, sì, madamigella, che la vostra padrona mandi via quell’asino, quel boia di medico; egli non ha capita mai la malattia.
— Che cosa dite mai, signorino? sclama la cameriera spaventata.
— La verità. Quella bestia di medico non ha indovinato la malattia. La vostra padrona ha tutt’altro e le occorrono medicamenti ben diversi.
— Ma Bruto, Bruto; sclamò don Gaudioso.
— Scusa, caro mio, ma l’umanità....
— Che umanità mi vieni ora a raccontare! rispose il farmacista; le umanità, sì, le si studiano al collegio. Tu soffi la ribellione in mezzo ai miei clienti. Tu vai a fare insorgere contro me tutti i medici....
— È vero, caro amico, ho torto, te ne chiedo scusa; ma veder uccidere così una giovane donna, bella forse!...
— Quanto a bellezza, la è una stella, interruppe la cameriera.
— Ricca, forse, felice, di buona famiglia! Oh perdonami, don Gaudioso, ma il cuore mi sanguina, gli è un peccato....
— Ma sai tu che codesto peccato mi produce una piastra al giorno, caro mio! Sai tu che dei clienti così puntuali come il conte Ruiz di Llamanda, signor mio, ce ne sono pochi! e primum ego ha detto Cicerone.
— Tutti dicono così, amico mio. Il cuore è sì stolido....
— Il cuore? ah! tu sarai un cattivo medico.
La pozione era pronta e la cameriera se ne andò.
La prima parola che la disse alla sua padrona fu questa:
— Vi ammazza.
— Chi?
— Il dottor Tibia.
E Lisa allora raccontò la conversazione tenuta col giovine medico ed il farmacista. L’ammalata restò perplessa e si fece ripetere minutamente tutto quanto aveva udito. Lisa fece il ritratto di Bruto con molta compiacenza, qualificandolo un bel giovine, elegante, educato, grazioso. L’aveva chiamata madamigella e le aveva dato del voi.
L’ammalata ascoltò attentamente, riflettè alcuni minuti, parve agitata; poi, prendendo come una subita risoluzione, tracannò la tisana e si lasciò cadere sui guanciali. Lisa, che, invece, era convinta che il medico aveva sbagliata la malettia e che la curava a rovescio, non si tenne per vinta, raccontò al conte tutto ciò che aveva udito nella farmacia. Questi altresì parve colpito e si allontanò in silenzio. Un quarto d’ora dopo mandò a chiamar Bruto.
Alle due don Bruto si presentava in casa del conte Ruiz de Llamanda.
Il conte abitava il primo piano di un palazzo quasi isolato, che dava sopra un bel giardino, dietro il convento dei Miracoli. Il principe di Noto, ottuagenario, che non usciva mai, abitava il secondo piano, ed il terzo era serbato a suo figlio, il marchese Annibale di Diano, che, trovandolo troppo lontano dal centro della città e del mondo elegante, non ci poneva i piedi che una volta ogni quindici giorni.
L’appartamento affittato al conte Ruitz, in una al giardino, aveva due ale; la sinistra, destinata a Cecilia sua figlia; la destra, occupata da lui. In questa aveva stabilito il suo studio di scultura — il conte era artista — ed il suo gabinetto, perchè era anche poeta. Bruto, avendo chiesto del conte Ruitz, fu introdotto nello studio da un vecchio domestico.
Il giovane dottore era stato appena annunziato e s’era appena seduto, che una porta vetrata che dava sul giardino s’aprì ed una signora vestita di scuro, con un velo fitto abbassato sulla faccia, entrò.
A questa apparizione, il conte balzò in piedi, s’inchinò fino a terra, cavò il suo fez greco, andandole incontro senza dir motto. La signora non badò all’ossequiosità del conte, ma parve sorpresa della presenza di Bruto. Lo fissò un momento e seguì il conte che la precedeva. Il conte aprì un uscio e ne sollevò la portiera per lasciarla passare.
Ella si volse nel mezzo della stanza, onde guardare Bruto che si teneva in piedi dinanzi ad un busto; poi ancora una volta lo squadrò dall’alto al basso prima che la porta si chiudesse di nuovo e la portiera ricadesse sull’uscio. Il conte si faceva ora rosso, ora pallido. Un momento dopo chiamò con impazienza il vecchio servitore e gridò:
— Dalla signorina, stupida bestia, dalla signorina; indica al signor dottore l’appartamento di Cecilia.