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Toccava tutto, voleva spiegazione di tutto, i minuti le parevano ore. Non si ristava dal dare del tu all’uomo serio serio che preparava i medicamenti; canzonava questi e quegli, dirigeva la parola al primo che capitasse e, a chi l’interrogava, rispondeva innanzi sentire la fine della domanda.

Bruto ne aveva subita una grandinata, il primo giorno, avendo avuto l’inaccortezza di lagnarsi che la gli avesse camminato sui piedi; poi un’altra, la seconda volta, perchè ella aveva trovato ch’egli occupasse mezza la porta d’ingresso. Vedendola arrivare al terzo giorno, Bruto si tenne ritto, la schiena appoggiata alla tavola, dietro la quale farmacopolizzava don Gaudioso, gli occhiali inforcati sul naso, in testa un berretto di velluto nero ricamato d’arabeschi rossi, una barba di otto giorni, una camicia d’altrettanti e dei vestiti di cui non si sapeva più la data. Don Gaudioso era di buon umore e le sue guancie tremolavano dall’ilarità.

— Presto, presto, speditemela in men che non si dice: il diavolo ti porti! gridò quel nabisso gettandogli la ricetta.

La ricetta cadde per terra. Bruto si chinò per raccoglierla.

— Grazie, signore, disse la ragazza. Gli è che quell’animalaccio viene a mezzogiorno ed ordina di prendere il medicamento alle undici.

— È vostro padre che è ammalato, madamigella? chiese Bruto.

— Mio padre? Chi! replicò dessa.

— Vostra madre, dunque? avete tanta... fretta!