Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Bossolano/VIII
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PICCOLI PERSONAGGI.
L’esempio di questo singolare collega ispirò al Ratti un nuovo amore per la scuola. Ma dopo sette anni che non aveva più esperienza di ragazzi piccoli, egli ritrovava in quella benedetta prima elementare delle difficoltà che lo scoraggiavano. Prima di tutte, c’era la difficoltà quasi insuperabile di ritornare con bambini di sei anni a quel metodo severo a cui aveva risoluto di attenersi per sempre dopo quei bei frutti che aveva raccolto dalla dolcezza e dall’affetto a Camina. Poi, in una classe come quella, si poteva dire che la fatica d’insegnare era la minor cosa appetto alle infinite piccole noie che gli toccavano per cagion dell’età degli alunni. Il continuo va e vieni per un bisogno, il ragazzo che dava in pianto perchè gli s’era staccato un bottone, l’altro che metteva sossopra mezza la scuola perchè aveva perso il fazzoletto, il passaggio d’una formica sul muro che distraeva venti alunni dalla lezione, non gli lasciavan cinque minuti filati di pace nello spazio di tre ore. Egli si persuadeva che una donna soltanto può aver la maniera di pazienza che si richiede per una classe simile, la quale, più che una classe di scuola, è ancora una continuazione dell’asilo infantile. Alle volte era costretto a scendere dal suo posto per andare a spartir due che s’erano accapigliati per un chiodo, o doveva interrompere una spiegazione per ordinare a un altro di soffiarsi il naso. Doveva frugare nelle tasche, cercar dentro alle bocche il boccone che negavan d’averci, infilare i cappottini all’uscita, sequestrar la roba rubata, visitare le capigliature, fasciar le piccole ferite, passar in rivista le facce per rimandare addietro almeno quelle che non eran lavate da tre giorni. Ma, del rimanente, quale campo di studio non gli presentava anche quell’età! Quali e quante varietà di caratteri, da quello che, sinceramente, si disperava per una goccia d’inchiostro caduta sul suo quaderno, a quello che pareva avesse succhiato col latte della madre una indifferenza suprema per tutte le cose umane! E che strani casi d’intelligenze oscure, che dopo tre o quattro mesi di sonno si svegliavano e si rischiaravano quasi all’improvviso, come tocche da un raggio misterioso, e d’altre che, dopo pochi mesi, senza una apparente cagione, si raggrinzavano, non ricevevano più un’idea, non davan più luogo nemmeno a un progresso meccanico nel lavoro della scrittura!
Egli ci aveva in quella classe vari tipi originalissimi, che gli offrivano oggetto di spasso e di studio continuo. Ce n’era uno, fra questi, che gli fu una prova vivente del come occorra a un maestro di bambini, fra le altre qualità, anche una fine astuzia, e di quanto sia difficile anche ad un maestro astuto l’arrivar col sospetto fino all’ultime profondità dell’ipocrisia infantile. Era un ragazzo di sette anni appena, dall’aspetto d’un putto del Murillo, con due occhi che parevan gli occhi dell’innocenza; il quale lo menò pel naso per tre mesi interi, ammontando invenzioni sopra invenzioni per scusarsi di non aver fatto il lavoro di casa. Veniva una volta con una mano fasciata e con la faccia spaventata, a raccontar con molti particolari in che maniera era caduto e s’era ferito, arrischiando la vita, e ripeteva le parole di consolazione dei suoi parenti e le cure prescritte dal medico. Un’altra volta aveva dovuto dare una mano al padre e alla madre per trasportar dei mobili da una camera all’altra, a cagione d’un principio d’incendio, che aveva fatto i tali e tali danni, e che era stato soffocato in tempo dai vicini, le tali e tali persone, che avevan detto questo e quest’altro. Eran stati un altro giorno tutti sossopra in famiglia per via di suo padre, ch’era scivolato giù da una scala, rompendosi quasi una gamba, per inseguire un ladro, il quale s’era introdotto di notte con un cerino in un ripostiglio dove tenevan roba da mangiare; ma vistolo una vicina da una finestra di rimpetto, s’era messa a gridare, e il ladro, fuggendo, aveva perso il berretto, un berretto così e così. Ed eran tutti fatti complicati e drammatici, raccontati con una tal minutezza, e con una così franca disinvoltura, e resi così credibili dall’espressione del viso e del gesto, che l’uomo più diffidente del mondo ci avrebbe creduto. E non c’era ombra di vero!
C’era un altro originale in tutto diverso, il quale s’ostinava a voler stabilire fra sè e il maestro, al disopra dei propri compagni, una specie di dimestichezza fraterna, scendendo ogni momento dal banco per andargli a chiedere un consiglio all’orecchio, facendogli delle confidenze di famiglia, cercando sempre di accompagnarglisi dopo la scuola, come se avesse da discorrergli di cose che riguardassero loro due soli. Si dava quasi con lui un’aria di protezione affettuosa: gli ripuliva il tavolino prima che entrasse, rimproverava ostentatamente i compagni che facevan chiasso: gli portò una volta della farina di gran turco, rubata in casa. E per quanto il maestro lo facesse in là, egli tornava ad appiccicarsi; fingeva coi compagni d’aver da lui delle commissioni confidenziali, che non poteva dire; arrivava perfino, in presenza di tutti, quando era rimproverato per non saper la lezione, a fargli dei finti cenni d’intelligenza, come per far credere che fosse convenuto fra loro due che il rimprovero fosse una semplice formalità, fatta per non parere; e il bello era che dava ad intender questo ai suoi parenti, i quali venivano, contenti e stupiti, a ringraziare il maestro delle immeritate preferenze che usava al loro marmocchio.
Ma uno anche più originale, e che veramente gli rallegrò tutto l’anno scolastico, era un certo Fusta, di sette anni, figliuolo d’un ciabattino; uno spirito comico d’una precocità maravigliosa, una delle più bizzarre figure di ragazzo ch’egli avesse mai veduto: piccolo anche per i suoi sette anni, tutto pancia, colle gambe arcate, con la voce nasale; una faccia di buon parroco flemmatico rimpicciolita, seria e buffa ad un tempo. Costui aveva dei modi, delle risposte, delle scappate di cui doveva rider per forza anche il Ratti, in faccia a tutta la classe. Egli s’era rivelato fin dai primi giorni, una volta che il maestro, vedendogli fare un cenno di rimprovero a un suo vicino, gliene aveva chiesto il perchè: egli aveva risposto pacatamente, senza smetter di scrivere e senz’alzar gli occhi dal quaderno: — Niente, signor maestro, una cannonata. — E questa gravità ridicola d’uomo maturo l’aveva in ogni occasione. A un compagno che lo urtava nella schiena passando sul banco per andare al cesso, diceva, serio, interrompendo la lettura del sillabario: — Passi, cavaliere. — Una mattina, essendo arrivato a lezione incominciata, e rimproverandolo il maestro, si fermò in mezzo alla scuola, e rispose gravemente, con un’espressione di comicissimo risentimento: — Mia madre vuole ch’io faccia le commissioni prima di venire a scuola; qui mi sgridano se arrivo tardi: uno non sa più come regolarsi. — Avendogli domandato un’altra mattina il maestro perchè non avesse studiato la lezione, egli rispose con dignità: — Mi hanno purgato. — Ma già n’aveva una tutti i giorni. A capo di due mesi di scuola il Ratti non lo poteva più guardare senza ridere, e s’era ridotto a non interrogarlo più che di rado, per non dare egli il primo alla scolaresca il segnale dell’ilarità. Se n’avesse avuto una mezza dozzina di quello stampo, non avrebbe potuto far scuola.