Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/X
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LA NUOVA MAESTRA.
Questo piacevole amico se n’andò, con gli altri, verso la metà di settembre, e il maestro rientrò di mala voglia nella sua vita solitaria ed eguale. Ma fu per poco. Una sera degli ultimi giorni del mese, dopo un desinare più che parco, egli se ne stava a tavola col segretario a sentir cantare la pioggia, quando udirono il rumore d’un calesse che si fermò davanti all’uscio di casa loro; e un momento dopo venne la serva in gran fretta ad annunziare ch’era arrivata la nuova maestra; la quale doveva occupare il quartierino della signora Pezza, al primo piano. Il segretario corse a vedere. Al maestro non parve delicato di mostrare la curiotà che pure lo pungeva. Dopo due minuti il segretario ricomparve. Non mostrava punto entusiasmo. — Ebbene — gli domandò il giovane — questa famosa bocca?
— Me la figuravo meglio — rispose quegli, rimettendosi a sedere.
E soggiunse ch’era una ragazza simpatica, piuttosto piccola che grande, d’un aspetto per bene; ma niente di più: aveva con sè suo padre, un piccolo vecchio mezzo paralitico, che stentava a salir le scale, anche sorretto. — Povero diavolo! — disse con accento di pietà — m’ha l’aria d’un antico segretario comunale. Finiamo tutti in quella maniera.... noi altri.
La mattina dopo, appena levato, il maestro corse alla finestra del cortile, e guardò per l’apertura delle tende sull’altro braccio del terrazzino. La maestra era là che sciorinava dei panni sopra una corda tesa lungo il muro. Gli scappò subito un’esclamazione; — Ma par la moglie del medico! — Era al più a otto passi da lei: potè osservarla bene, di dietro ai vetri, senz’esser visto. Si presentava di fianco. Gli parve un po’ piccola; ma aveva dei bei capelli castagni, lucidi e morbidi. Non era bella; ma molto bianca, e aveva le mani piccolissime, e una vita che, nell’atto ch’ella faceva d’alzar le braccia, si stendeva con la vivacità d’un busto infantile, mostrando la pienezza d’un petto materno. La somiglianza con la moglie del medico era infatti singolare; ma la ragazza aveva fattezze più fini. Si chinò a raccogliere un fazzoletto, s’affacciò a guardar nel cortile, ed ogni suo atto era composto insieme e grazioso. Quando improvvisamente si voltò di faccia, parve al maestro che le fosse cresciuto qualche anno in un attimo: il viso era serio ed esprimeva come un’ansietà abituale; ma sotto quegli occhi un po’ tristi, sotto quel naso un po’ troppo affilato, come quello d’una convalescente, s’apriva una bocca così piccola, così bella, così buona, così dolce, che l’attenzione del giovane vi rimase fissa su, come sopra un terzo occhio, il quale dicesse assai più cose e rivelasse più schiettamente l’animo suo che quei della fronte.
La sua apparizione in Altarana non fece grande effetto. Le sue grazie minute e delicate non eran di quelle che attiran l’attenzione in un villaggio. Ma notarono tutti la somiglianza con la moglie del dottore; la quale, però, aveva più gaiezza, un più bell’incarnato, e degli occhi con cui non c’era confronto. Spiacque il suo modo di vestire, troppo dimesso, quasi sciatto: non faceva onore al paese. Spiacque anche più di sapere che non aveva un soldo oltre lo stipendio e che manteneva quel vecchio mezzo morto di suo padre. — Fra tutti e due — dicevano — hanno l’aria della famiglia Bisognosi. — Il padre non uscì che una volta nella prima settimana, appoggiato con una mano al bastone, coll’altra al braccio della figliuola, col capo tremolante, a passi di lumaca, e chi li vide ne parlò quasi con dispetto, come d’uno spettacolo che rattristasse la popolazione. La moglie del maestro Calvi tradusse in una parola il sentimento comune. Avendo domandato a una sua amica, davanti al caffè, se avesse già visto la povra — la povera, — quest’epiteto qualificativo fu ripetuto da altri, e rimase, in un certo giro di conoscenti, il soprannome della nuova maestra. Il sindaco, a giudicar dalla cera, pareva che non ne fosse punto contento.
S’apersero le scuole. Il maestro osservò che col principiar delle lezioni la sua vicina prendeva più brio, e che andava perdendo di giorno in giorno quella leggiera tinta di tristezza che le aveva veduto dapprima. Appena svegliato, egli sentiva il suo passo sul terrazzino. In casa doveva far tutto lei. Spesso, prima dell’ora della scuola, era già stata a far la spesa. La sera le si vedeva il lume in casa fino a tardi. Egli cominciò a scambiar qualche parola con lei dalla finestra. Aveva una voce un po’ velata; parlava italiano, scolpendo un po’ troppo le sillabe, come se spiegasse alle sue alunne il significato delle parole, e allargava le e, pronunziava la prima enne dell’enne doppia alla torinese, con un suono un po’ schiacciato e nasale, che gli spiaceva; ma i movimenti della sua bocca correggevano l’effetto spiacevole dei suoni. Aveva davvero una bocca bellissima; la quale, parlando, pareva che baciasse l’aria ad ogni parola, e dava l’idea d’un fiore che continuamente sbocciasse al tocco d’un raggio, si chiudesse a un soffio gelato, fremesse sotto il succio d’un’ape. Il maestro smarriva qualche volta il filo del suo discorso per star a vedere in che modo le usciva di bocca, e ci provava un piacere sempre nuovo, come se quelle labbra avessero un vezzo particolare per ogni parola. Ma la simpatia nacque ben presto da una fonte più intima, cioè da un sentimento, che in tutti e due era vivissimo. Essa gli esponeva ogni giorno, di scappata, certe osservazioni ora liete ora tristi, che andava facendo sul carattere delle sue alunne. Una sera, che pareva un po’ impensierita, mentre spazzolava un vestito, gli disse che quello che l’addolorava di più, al cominciare d’un corso scolastico, era la prima cattiveria delle bambine, il primo atto, che una di loro commettesse, di quelli che rivelano un animo tristo, e come un nemico, col quale ella dovesse apparecchiarsi a combattere per tutto l’anno.
— Del resto, — soggiunse, — purchè ne abbia sette o otto di buone, mi basta. Un atto di bontà di un’alunna mi compensa del cattivo animo di dieci. Io voglio bene ai bambini. Ci sono accadute delle disgrazie in famiglia, abbiamo tutti avuto l’occasione di mettere il mondo alla prova, che è quanto dire di perdere molti buoni sentimenti; e poi si sa che, vivendo, se ne perde qualcuno ogni giorno. Ebbene, il solo che m’è rimasto, oltre l’affezione per il mio povero padre, e quello che sento che non diminuirà mai, è l’amore per l’infanzia; e se gli altri mi ritornano ogni tanto, mi ritornano per via di questo. Anzi, quanto più conosco la gente, quanto più trovo delle madri egoiste, dei padri brutali, delle famiglie triste e scandalose, tanto più mi cresce l’amore per i bambini, pensando in che mani sono la maggior parte, che cosa patiscono e avranno da patire, e quanti diventeranno malvagi, e saranno infelici, non per propria colpa. È un’affezione, vede, che resiste a qualunque disinganno, a qualunque più iniqua azione mi sia fatta anche dai loro parenti; un istinto, insomma, come l’amore della vita. Per me sono, come direi? la gentilezza, la poesia del mondo; tanto che, se sparissero loro, se gli uomini, per dire una stramberia, nascessero d’ora in poi uomini fatti, mi pare che in pochi anni diventerebbero bestie feroci e s’ammazzerebbero tutti gli uni cogli altri. Ho sentito così fin da bambina. Per esempio, l’idea della divisione della società in ricchi e poveri non mi fa pena che pensando all’infanzia. Non odio i miei simili che quando penso che è per colpa di milioni di grandi che vanno nudi e soffrono la fame dei milioni di piccini. La forma più ributtante della malvagità, per me, è quella che si manifesta a danno dei bimbi. Per questo mi sembra che i più orribili mostri della creazione sian le madri senza viscere. Ho visto una volta una donna ubriaca stramazzare in terra col bambino in braccio, che si spaccò la fronte. Lo crede? Questo ricordo è un tormento della mia vita. Ogni volta che mi si ripresenta, mi strappa una maledizione.
Al maestro parve di sentir espresso il fondo dell’animo suo, e con una tal fedeltà, che ne rimase maravigliato, come se la ragazza avesse ripetuto delle cose dette da lui.
Un’altra sera gli disse che era stata a vedere l’asilo infantile del paese, ed era ancora tutta eccitata. La vista d’un gran numero di bambini riuniti le faceva l’effetto come d’una musica di chiesa, le destava mille idee belle e tristi, che la commovevano, fino a farla piangere. In quei momenti le pareva che avrebbe dato con gioia tutto il suo sangue per assicurar la felicità di tutte quelle creature. — Poi, — soggiunse, — gli accompagno tutti a casa con l’immaginazione, e allora sento una pietà che mi soffoca a pensare che li aspettano delle camere fredde, dei lettini sudici, un po’ di mangiare malsano, dei parenti di cattivo umore, o snaturati, i quali alle volte li lascian morire senza chiamare il medico, e li battono. Perchè battono anche i bambini di due anni! Comprende lei come si possa battere un bambino? Ecco un’idea che mi fa ribollire il sangue. Percuotere un bambino.... per me è come vederlo uccidere. E dire che c’è di quelli che li batton da farli ammalare! Le proprie creature! Io urlerei quando ci penso. E questo si vede tutti i giorni, e si tollera! Che ignominia! La carità umana si dovrebbe rivolger tutta all’infanzia; per tutto il resto dell’umanità fare quello che rimarrebbe possibile; ma prima i bambini; che certe miserie, certi orrori non si vedessero più; che ci fossero delle società per dar la caccia ai genitori aguzzini come ai cani idrofobi, che le madri senza cuore, povere e signore, fossero frustate in mezzo alle strade! Oh è un infamia! È un’infamia!
Essa esprimeva così bene i sentimenti del giovane, ch’egli non metteva più parola nel discorso che per farla continuare. Era già quasi buio: la sua voce usciva come da un’ombra.
— Puniscono quelli che fanno dei biglietti falsi, non è vero? Io mi domando sempre perchè non si puniscono i parenti che tiran su dei figliuoli birbanti. Ci son ben di quelli che li fanno diventar così, per forza; delle famiglie che son vere fabbriche di malvagi, di donne e d’uomini senz’affetto, spietati e vendicativi. È per questo che perdóno certe cose in scuola. Così, vede, perdóno ad un uomo cento scelleraggini per un atto di tenerezza verso un bambino. Fin che uno scellerato è capace di questo lo preferisco ancora a tanti galantuomini che non versano una lagrima davanti alla culla d’un loro piccino morto. Alle volte son triste, irritata contro il mondo: vedo per la strada un uomo del popolo, rozzo, con le mani nere, che porta il suo bimbo in braccio guardandolo e accarezzandolo, con gli occhi umidi: ebbene, questo mi rasserena per tutta la giornata; ritorno a casa con un’idea migliore dell’umanità. Ma che serve, se si vede tanto più male che bene! Quando si pensa che c’è dei parenti, anche dei signori, che perseguitano un bimbo perchè è brutto e infermiccio, e fanno le preferenze all’altro, che è sano e ben fatto! Io ci ebbi due alunne sorelle, di cui l’una veniva a scuola vestita da signorina, con dei confetti in tasca, e l’altra messa come una povera, coi segni delle battiture sulle mani. Pensi un po’, nella mia scuola! Davanti a me! Ed eran signori del paese! Io feci delle scene.... basta dire che mi licenziarono per questo.... Ma anche qui, ch’io non veda nulla di simile, che non mi mandino in classe delle vittime che non mangiano abbastanza e che portano i lividi sulle carni, perchè non c’è forza al mondo che m’impaurisca, allora; io vado diritta alla casa dei parenti, dovessi far dieci miglia per la montagna, fossero cento insieme, sapessi di lasciarci la vita, e li tratto di carnefici e d’infami, com’è vero che c’è un Dio che mi sente!
Le ultime parole uscirono come fulminando. Il giovane ne fu scosso, ed esclamò: — Ah! brava signorina Galli.... Così ho sempre pensato io pure; ma per dirlo a quel modo bisogna aver l’anima sua.
— Oh! giusto! — rispose la maestra con una voce scherzosa in cui si sentiva ancora la commozione; — ci vuole la mia chiacchiera, dovrebbe dire.... Scappo perchè fa freddo. Buona notte, signor Ratti!
E lo lasciò con l’eco del proprio nome nell’orecchio, un nome che aveva non so che di nuovo, e che gli parve come ingentilito. Dopo quella sera egli provò un certo imbarazzo a rivolger la parola alla sua vicina; una inquietudine dell’amor proprio che gli faceva cercare avanti e rivoltare in mente le prime parole che le doveva dire, per mettervi qualche cosa che uscisse dalla volgarità delle solite frasi d’entratura. Vide con rincrescimento cader la prima neve, che rendeva impossibile le fermate lunghe sul terrazzino. Cercò d’attaccar discorso con lei all’entrata e all’uscita della scuola; ma non c’era tempo che a scambiar due parole. Anche qualche volta trovava il posto preso dal maestro Calvi, che, giudicandola una ragazza sensata e di mente aperta alle idee didattiche ardite, cercava di persuaderla dei suoi progetti. Andava notando, frattanto, che all’indifferenza con cui ella era stata guardata al suo arrivo dai signori del villaggio, succedeva man mano una curiosità vicina alla simpatia, come se venissero scoprendo di giorno in giorno quello che aveva di grazioso e di amabile. Il che seguiva a lui pure; e per la simpatia che gl’ispirava avrebbe voluto che andasse vestita meglio, per farsi valere, e che tutti avessero potuto, senza frequentarla, conoscerne l’animo, com’egli lo conosceva. Si faceva i vestiti da sè, e avevan tutti un difetto di taglio nella vita per cui le facevan borsa tra il collo e le spalle; portava un cappottino di panno scuro che la ingrossava troppo, e si metteva male il cappellino, troppo giù sulla fronte, che le nascondeva i capelli. La bocca soltanto appariva in tutta la sua bellezza gentile. E il maestro non tardò a risapere che altri l’aveva notata; che anzi una sera n’avevan fatto tema di discorso al caffè il pretore, l’esattore ed il medico, con dei commenti indecenti.
Con maggior dispiacere riseppe che il sindaco era stato due volte in una settimana a visitar la sua classe. Ne domandò alla maestra, la quale gli rispose di sì, sorridendo, e soggiunse che le pareva che il sindaco si pigliasse molta cura delle scuole; ma egli capì dal viso di lei che eran state due visite fatte col dovuto riserbo, soltanto per fiutar l’aria, e che la maestra non doveva aver concepito nessun sospetto. Un altro giorno essa gli disse con aria di rammarico d’aver saputo che il parroco aveva visto male che, appena arrivata, non fosse andata ad iscriversi tra le Figlie di Maria: ora le pareva tardi per farlo, perchè l’atto non sarebbe più parso spontaneo: era in dubbio. Ogni mattina, affacciandosi al terrazzino, gli diceva in poche parole le piccole novità del giorno innanzi. — Ieri sera — gli disse una mattina — è venuto a farmi visita il maestro Calvi per spiegarmi un suo nuovo metodo di far imparare l’aritmetica senza scrittura. A dirle la verità, m’ha persuaso poco. Ma è tanto persuaso lui, quel brav’uomo, che son stata a sentirlo con piacere.
Al maestro non riuscì gradita la notizia. — A me, — osservò — non l’ha mai detto d’andarla a trovare a casa.
— Ah! ma è differente; — rispose la maestra sorridendo. — Prima di tutto, il signor Calvi è venuto senz’essere invitato; e poi è ammogliato, e ha cinquantanni.... Del resto, se non l’ho detto a lei, è soltanto perchè temo che la compagnia di mio padre la rattristi: a mala pena può parlare, povero vecchio. E mi peggiora! — Venga — soggiunse poi — ci farà piacere.
Ma quella maniera d’invito non parve bastante al giovane, e stimò bene d’aspettarne un altro.
Non avendo visto una sera, come di solito, il lume nella camera di lei, le domandò il giorno dopo se era stata a veglia.
Infatti, era stata a far visita alla madre del pretore; la quale, essendo venuta due volte alla scuola a chiedere informazioni d’una sua protetta, aveva tanto insistito perchè l’andasse a trovare a casa una sera, che v’era dovuta andare, e le avevan fatto promettere di tornarvi.
Un’altra sera essa domandò al maestro, di sfuggita: — Può immaginare lei che cosa possa avere con me la signora Calvi, che mi guarda così male quando m’incontra? — E sorrise, scotendo una spalla, quando il maestro le disse che doveva esser gelosa delle confidenze didattiche che le faceva suo marito.
Finalmente, un dopo pranzo, la maestra gli annunziò una grande novità davvero: era stata quella mattina a visitar la sua classe la moglie del medico condotto, nominata ispettrice al principiar dell’anno scolastico.
Il maestro indovinò sul momento, senza pensar la cagione, che l’incontro non doveva esser stato cordiale.
— È una bella signora, — disse la maestra, ma in modo da far capire che aveva notato la rassomiglianza, e che si credeva forse obbligata da questo a usare un certo riserbo nel lodar la bellezza. — Era vestita con un lusso!... Fin troppo, direi, per visitare una scuola di povere montanare. Ha esaminato i lavori di cucito: si vede che se ne intende. Ma.... mi è parsa un po’ severa; un po’.... quasi asciutta. Non m’avrà detto venti parole in mezz’ora. — E non capiva che l’ispettrice aveva parlato poco perchè era intenta a un soliloquio muto, il quale non le permetteva che delle brevissime osservazioni. — Quell’asino di mio marito che ha l’impudenza di dirmi che pariamo due gemelle. Vediamo queste calze. Bisogna proprio aver gli occhi e la delicatezza d’un marito per far di questi complimenti a una signora. Qui ci sono delle maglie scappate, bambina. Ha la fronte bassa e le guance infossate. Mi faccia veder le camicie. E anche quell’imbecille di pretore con la sua famosa bocca. Badi a questo taglio, signora maestra. E poi è insaccata!...