Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/I
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IL PROGRAMMA DEL SINDACO.
Altarana è un villaggio delle Alpi occidentali, formato da due archi sottili di case, congiunti da un ponte di pietra, sotto il quale passa un torrentello che va giù a lunghi salti a gettarsi nel torrente grande, da cui ha nome la valle, verdissima e solitaria, chiusa in fondo dalla bianchezza sfolgorante d’un ghiacciaio. Il fianco della montagna, sopra e sotto il villaggio, è ripidissimo, e tutto coperto di castagni, di faggi, di betulle, d’ontani, che lascian trasparire qua e là piccole cascine e casette signorili, chiuse come sepolcri per nove mesi dell’anno. Il villaggio ha una sola lunghissima strada, che forma una serie di piazzette irregolari davanti alla chiesa, alla casa comunale, alla farmacia, e a un albergo di bell’aspetto, il quale s’apre in giugno e si chiude ai primi freddi. Gli abitanti riparano con l’operosità e con la parsimonia all’insufficienza dei prodotti della terra, non vivendo che di latte e di polenta, innaffiata, a quando a quando, d’acquavite; le donne fanno da bestie da soma; gli uomini emigrano nella buona stagione, e non ritornano che l’inverno. Il che pare che giovi all’accrescimento della popolazione, poichè si vedon mucchi di bambini, biondi, rosati e sporchi, per tutti i buchi. Un miglio sotto al paese, sulla via principale della valle, v’è una rozza borgata che ha nome delle Case Rosse, e fa parte del comune. Per tutti questi luoghi, d’estate, è un fremito di verzura cupa, una musica d’acqua, una pompa di fiori incantevole; d’autunno e d’inverno tutto è silenzioso e tetro. Il solo torrente del fondo serba il suo scroscio sonoro che riempie la valle, rotto da un continuo martellar d’incudini che fanno i pochi lavoratori di ferro del villaggio.
Il giorno dopo il suo arrivo, il maestro si vide comparire in casa una specie di scherano, basso di statura e larghissimo di spalle, guercio, con un gran cappello alla calabrese e una enorme barba brizzolata; il quale con una voce di galletto che, uscendo da quella foresta di peli, faceva ridere, lo invitò da parte del sindaco a trovarsi a una cert’ora nella casa comunale, dove si dovevano radunare tutti gl’insegnanti del comune. Era l’inserviente del municipio, un antico scalpellino, a cui una scheggia di pietra aveva rovinato un occhio; il perchè lo chiamavan nel paese, con gentilezza montanara, ’l borgno, il guercio; soprannome ch’egli accettava con indifferenza, quando non aveva bevuto.
All’ora fissata il maestro si trovò alla casa del comune, impaziente di veder tutti insieme i suoi colleghi; poichè la precoce esperienza del mondo gli aveva già svegliata quella curiosità di conoscere nuovi originali umani, che non suol venire che più tardi, nell’età dell’osservazione.
Si trovarono in cinque, tre maestre e due maestri, nella sala del Consiglio: una stanza stretta e bassa, dov’eran da una parte vari ordini di scaffali, pieni di scatole di cartone, che contenevano registri e collezioni di atti ufficiali, e sulla parete opposta un ritratto litografico del re tutto nero di brutture di mosche, fiancheggiato da un calendario scolastico e da un elenco delle autorità del comune. Nel mezzo c’era la gran tavola delle sedute, formata da quattro tavolini di varia altezza, coperti d’un tappeto verde bucherellato. E ci puzzava di muffito e di chiuso come se non v’avessero aperto le finestre da un anno.
Un ometto ossequioso, vestito tra il cameriere e lo scrivano, con un viso aguzzo e due baffi di topo, presentò prima sè stesso al maestro Ratti, dicendo che era il segretario comunale, e poi gli nominò i suoi colleghi: — La signora Pezza, maestra di 2a e 3a; la signorina Vetti, maestra della scuola mista della frazione Case Rosse; la signora Falbrizio, maestra di 1a; il signor Calvi, maestro di 1a.
Egli fissò l’attenzione sulla maestra Vetti, la quale, sotto il suo sguardo, abbassò gli occhi, ma con l’espressione viva che accompagna quell’atto quando è fatto per civetteria e non per modestia. Non c’era dubbio: doveva esser la maestra di cui gli aveva parlato il Lérica: una figura di crestaina bruna, che s’era incipriata per velare un poco la vaiolatura del visetto, e di cui ogni movimento anche leggerissimo faceva indovinare sotto lo scialle un corpicciuolo elastico di ballerina. La maestra Pezza era una ragazza di più di trent’anni, gialla, con gli occhi malati, vestita come una donna che non ha più alcuna cura di sè, e la Falbrizio, una contadina cinquantenne, d’un viso ligneo e astuto, col fazzoletto in capo e il grembiale, e le forbici appese alla cintura. Quanto al maestro Calvi, alto e pelato, vestito d’un soprabitone verdognolo che gli piangeva addosso, gli ricordò un povero poeta stracciapane, ch’era stato dieci anni prima nella sua città nativa, e aveva dato accademia di poesia estemporanea in una birreria.
Cinque minuti dopo entrò il sindaco, seguìto dal soprintendente.
Era sindaco da quattro anni. Era stato lui il fondatore del grand’albergo del paese, comprato poi da un trattore di Torino, il quale l’aveva ampliato e abbellito; e ora accudiva ai suoi averi, che eran due case e una buona estensione di boschi. La sua faccia diceva la sua antica professione: una faccia di cuoco larga, sbarbata, rosata, una vera vescica di lardo, dalla quale sporgevano due labbroni di satiro, che scoprivano dei grossi denti bianchi; e aveva la testa rapata e il collo corto.
Entrò con la scioltezza pensata d’un commediante, sorridendo a tutti, e dicendo:
— Signori insegnanti, s’accomodano.
Quando li vide seduti da una parte della tavola, sedette dall’altra, e accanto a lui s’insediò il soprintendente, un uomo sulla cinquantina, antico fattore d’un conte del paese, una faccia bonacciona, fatta a sghimbescio, che pareva formata di due mezze facce di persone diverse, e premeva il mento sopra un grosso gozzo, nascosto nella camicia.
Era quello l’anno in cui doveva andare in vigore la nuova legge dell’istruzione obbligatoria, e il sindaco aveva radunati gl’insegnanti per dar loro qualche avvertimento al proposito. E cominciò il suo discorso, sgrammaticando e piombando le parole, ma con una certa franchezza.
— Quest’anno, dunque, signori insegnanti, posto che andiamo in vigore con la nuova legge dell’istruzione obbligatoria, io li ho chiamati giusto per questo. Loro mi conoscono, sanno come sono appassionato per l’istruzione. E precisamente quest’anno bisogna raddoppiare d’attività. Io dico fin d’ora: si tratta di dichiarare all’ignoranza una guerra a morte. A morte. Questa è la mia parola. La legge è socrasanta. A noi di farla rispettare, tutti con buona volontà, spronare i parenti e le famiglie, e di aver la scuola al completo, e farsi onore. Per conto mio dichiaro che andrò avanti senza guardare in faccia nessuno, e adesso il segretario darà a ciascheduno l’elenco degli obbligati, che abbiamo fatti con tutta esattezza e puntualità. E ripeto: non si tratta di transigere, saranno rigorosamente consegnati al signor pretore i nomi dei parenti che negligentano. Centesimi cinquanta d’ammenda, ripetuta due volte, e via dicendo, lire tre, lire sei, lire dieci. Io li prego d’avvertire loro stessi i rispettivi alunni e, al bisogno, fare un passo alle case di padri e madri, a persuadere. Dunque, mi raccomando. Cominciamo l’anno bene, che tutto anderà bene, con vantaggio della polazione. Ripetiamo: istruzione, energia, e non stancarsi mai. Questo, in via generale, per quanto riguarda l’applicazione della legge.
Qui, mentre tutti s’aspettavano che, finito l’esordio, entrasse nel vivo del discorso, s’accorsero invece che il discorso era finito.
— Per il resto - continuò il sindaco — non ho altro da dire. Signor segretario, gli elenchi.
Il segretario, che aveva ascoltato il discorso con profonda attenzione, saltò su dalla seggiola e porse ai maestri gli elenchi, che aveva già in mano; il sindaco s’alzò, tutti s’alzarono. Il Ratti diede un’occhiata al suo foglio; gli alunni erano settantaquattro.
Come un sovrano dopo l’udienza solenne, il sindaco rivolse qualche parola amichevole, successivamente, a tutti gl’insegnanti, eccettuata la maestra Falbrizio. Il giovine osservò che, nel dire alla maestrina che avrebbe mandato a cambiare la corda della campana della scuola, le si avvicinò in modo sconveniente, quasi da toccarle il naso col naso; ed essa aveva, come molte donne, nel moversi, nel sorridere, nel parlare tutti gli atteggiamenti e gli accenti della voluttà, resi con una verosimiglianza, benchè un po’ smorzata, così fedele, che eccitava i sensi. Alla maestra Pezza chiese notizie della salute, e scosse il capo in atto di rammarico. Al Calvi domandò familiarmente: — Ebbene, ebbene, e questo nuovo sillabario? Siamo a buon punto? — E quegli, gesticolando, gli diede a bassa voce una spiegazione che non finiva più. Al Ratti strinse la mano, e ripetè la frase del suo programma: — Siamo intesi, una guerra a morte all’ignoranza: questa è la nostra bandiera: d’accordo su questo, andremo d’accordo su tutto.
E con queste parole sciolse l’adunanza.