Il podere (Tozzi)/XIII
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XIII.
Giulia aveva un vestito nuovo; era più disinvolta come se fosse doventata una signorina; e tutti le parlavano volentieri, e con un certo riguardo; perchè, come dicevano ridendo, aveva trovato il modo di mettere giudizio a Remigio. Ella alzava le spalle, si animava; e il viso le si coloriva. Volendo far vedere che poteva entrare lo stesso alla Casuccia quando ne aveva voglia, andò a trovare Berto per fargli visita.
Cecchina era sola in casa e chiamò subito il marito dall’aia che venisse su. Berto le strinse la mano con tutte due le sue, dopo che se l’ebbe lavate perchè erano terrose; ridendo, tutto contento, e facendola mettere a sedere. Poi le chiese, battendo le nocche su la tavola:
— Come va con l’erede?
La giovane fece con la bocca un atto di disprezzo, e poi rispose:
— Mi ha mandato via di casa, e avrei dovuto, se le cose andavano per il giusto, mandare via io lui. Ma non gli farà prò la roba che non doveva essere sua. Se Dio cè, spero di trovare chi m’aiuta.
Cecchina, incuriosita, le domandò:
— Quando si farà il processo?
— Tra una settimana o due, credo.
— Ha trovato un bravo avvocato?
— Non c’è male.
Berto l’ascoltava, con la testa appoggiata a una mano. Chiuse l’uscio con una pedata, perchè non udisse nessuno e poi disse:
— Avrà da regolare i conti anche con me.
— Badate di non farvi mettere i piedi sul collo, perchè quello lì vorrebbe comandare come faceva suo padre.
— Non sarà a tempo, se le braccia non mi fallano.
La moglie gli chiese, rimproverandolo per celia:
— E che gli vorresti fare tu?
— Io?
E si alzò da sedere, andando su e giù per la cucina; tenendosi stretta la testa con tutte e due le mani.
— Non è possibile che io mi adatti ad essere il suo sottoposto! Nè meno se morissi di fame.
E la moglie, sorridendo a Giulia perchè la vedeva rallegrarsi, disse:
— Eh, nè meno io lo posso vedere! Quando mi s’avvicina per dirmi qualche cosa, magari non per comandarmi ma per salutarmi, sento un so che nel cuore come se me lo azzannassero. Per non essere sgarbata, devo fare uno sforzo. Ma, il più delle volte, non ci riesco.
— Tu sei una donna, e di te non ha timore.
— Anche le donne sanno fare qualche cosa! Domandalo qui alla signorina Giulia.
— Ma io farò da me!
Giulia, allora, benchè il piacere che parlassero così di Remigio fosse forte, cambiò discorso; perchè non voleva che Berto dicesse apertamente con le parole quel che aveva sperato di capire. E, poi, era invidiosa che un altro potesse fargli del male come soltanto voleva farglielo lei! Non voleva che Berto ci riescisse meglio! Ma, già, quelli erano contadini, e lei invece aveva una raffinatezza che non poteva superarla nessuno! Le pareva d'essere nata a posta per far del male a lui! Era proprio quella come ci voleva! Poi, chiese:
— Picciòlo e Tordo che fanno?
— Picciòlo, — rispose Berto, — vorrebbe quasi quasi che le cose gli andassero bene, ma c'è Tordo dalla mia! Non proprio che la senta come me; ma, insomma, son sicuro che al momento opportuno chiude un occhio e poi anche l'altro.
— Il fieno quanto è stato?
— Veramente, non sarebbe andata male; ma gliel'hanno sciupato le acquate che sono venute! Ci ricaverà la metà di quel che poteva costare.
Giulia sorrise: era contenta; ma queste notizie, tra buone e cattive, non le bastavano. Possibile che non venisse giù una grandinata grossa come le noci; sopra le viti?
Allora Berto e Giulia si guardarono ne gli occhi. Cecchina chiese:
— Vuol gradire un bicchiere di vino? È fresco fresco: l'ho preso dianzi in cantina, non sarà nè meno un quarto d'ora.
— Grazie: mi farebbe male, perchè sono digiuna.
— Vuole un pezzo di pane? L'ho cavato dal forno ieri. Non è più caldo, ma si mangia volentieri lo stesso.
Aprì la madia e le fece vedere uno di quei pani grossi e pesi; che mangiano i contadini.
— Tenga anche il coltello: se lo tagli da sè. E non faccia complimenti.
Giulia staccò con le mani un cantuccio, dov'era più saporito; e si mise a masticare. Berto empì un bicchiere di vino a lei e uno per sè.
— Alla moglie non glielo date?
— Lei lo beve quando va in cantina!
Risero; ma si chetarono tutti e tre insieme, perchè Remigio chiamava Picciòlo.
Poi, non udendolo più, ricominciarono a parlare sottovoce. Ma Giulia, finito il cantuccio e bevuto un sorso di vino, si alzò per andarsene. Voleva raccontare a Berto e a Cecchina come aveva combinato il processo con quei due testimoni; ma per prudenza stette zitta. Poi, ancora, non si sentiva certa che al tribunale non nascessero difficoltà. E, prima di buio, voleva parlare con il dottore Bianconi; per fargli fare da testimonio anche a lui.
Attraversò l'aia, badando di non cadere perchè c'erano sparsi i torsoli delle spighe del granturco; e disse a Cecchina:
— Non venite voi! Non fatevi vedere che siete d'accordo con me. Io vi ringrazio.
La contadina, allora, si fermò e le rispose:
— La saluto a presto.
Giulia trovò il dottore che stava per escire. Si mise a piangere, e si raccomandò che l'aiutasse. Il Bianconi l'ascoltò arricciolandosi la barbetta; poi, accese un sigaro e disse:
— Io da testimonio non posso fare. Ma parlerò al presidente del tribunale che è mio cugino.
Giulia, che s'aspettava, invece, dovesse dire di sè, non potè nascondere la delusione stizzosa che la rodeva; tanto più credendo si trattasse di una scappatoia. Il Bianconi la rassicurò subito:
— Se io parlo al presidente del tribunale che, come ho detto, è mio cugino...
Ma ella lo interruppe; perchè non poteva tenersi; e già, avendo capito, la gioia la faceva tremare tutta.
— Gli dica...
— Lo so da me quel che devo dirgli. Lei stia più tranquilla d'animo; perchè altrimenti ammalerà. Si è molto sciupata da quando la vedevo ad assistere il povero Giacomo.
— Mi son ridotta che, se mi guardo allo specchio, faccio paura a me stessa. Vorrei sapere chi fu ad avvertire quel mascalzone che suo padre moriva. Bastava che arrivasse un giorno dopo, e forse io non avrei bisogno di logorarmi la salute per avere quello che è di mio diritto.
E arrossì pensando che il Bianconi sapeva perchè il signor Giacomo voleva farla erede. Ma il Bianconi si voltò da un'altra parte; e disse:
— Fui io che avvertii Remigio.
La ragazza scattò, impallidendo:
— Lei?
— Era mio dovere: certe cose non si possono rimproverare.
— Ma non vede quali sono state le conseguenze per me?
— Ci rimedieremo.
— Ma come?
Ed ella fece per andarsene, quasi fosse ormai rovinata. Il dottore le disse:
— Resti qui.
La ragazza tornò a dietro come per obbedirlo; ma ormai non voleva raccomandarglisi più: aveva un'aria così compunta e affranta che faceva compassione. Il Bianconi le domandò:
— Crede che io sia dalla parte di Remigio?
A lei palpitava il cuore, e non disse nè sì nè no. Allora, il chirurgo proseguì:
— Per me, un figliolo che va via di casa, qualunque possano essere stati i pretesti, dev'essere gastigato. Il suo dovere era di restare in famiglia e di obbedire al padre; perchè se ne sarebbe trovato bene. E non aveva nessun diritto contro la volontà del padre. Io, a quest'età, se mio padre, che non si può nè meno alzare dalla poltrona, mi desse uno schiaffo, lo prenderei e zitto. E non gli ho mai mancato di rispetto. Quello, invece, lo so che contegno aveva!
La ragazza assentiva, con la testa; ma trepidava ancora.
— Non solo era prepotente, ma quando tornava a casa il povero signor Giacomo non avrebbe potuto dirgli nè meno: «accostami cotesta sedia!» E i denari che gli ha sciupato! Era sempre con donnacce e con amici anche peggio di lui. Se il signor Giacomo non avesse avuto lei in casa, avrebbe dovuto morire come un disperato. Perchè, ormai si può dire, la signora Luigia non avrebbe avuto testa da pensare a qualche cosa.
La ragazza era già accesa d'orgoglio; e il viso, con gli occhi dolci, pareva che le lustrasse.
— Dunque, ripeto, lei era in quella casa come una vera figliuola. E Remigio, se avesse giudizio, dovrebbe essergliene grato. Ma quello là ha il cervello sotto i gomiti! E finirà male. Sono contento se lei riescirà a dargli una buona lezione; perchè certe indoli non si piegano altro che quando cominciano a soffrire. Ora, lui, si crederebbe di fare il padrone della Casuccia; ma non stimo che ne sia capace!
La ragazza gli sorrideva, con un'aria di bontà sincera e riconoscente. Non poteva nè meno articolare una parola: ma continuava ad accennare con la testa che diceva bene.
— Vorrei vederlo come farà a comandare i contadini, lui che non stava mai in casa e nè meno sapeva quel che il padre facesse!
Ella, quasi senza voce, gli disse:
— Sa che m'ha mandato via come fossi una cagna?
— È un pazzo! Ma anche cattivo. Non ha coscienza di quel che fa. Basta sentire come parla. Sembra sempre nelle nuvole.
Giulia rise.
— Lasci fare a me: io informerò il presidente del tribunale di quel che si tratta. E se lei ha i testimoni come mi ha detto, vedrà che le cose andranno bene. Il presidente è imparzialissimo; e perciò può stare sicura.
— Io non so come dirle grazie!
— Povera figliola! Non ce ne sarebbe nessuna ragione. Piuttosto, le consiglio di fare una cura ricostituente e di mangiare bene!
— E, appena mi ci scappa minestra e lesso!
— Che fa ora?
— Sto in casa con la zia.
— Ho capito.
— Comanda niente, signor dottore? Vuole che mi faccia rivedere?
— Domani telefonerò al tribunale. Anzi, andrò io stesso.
— Grazie! Grazie!
Il Bianconi, restato solo, si convinse sempre più che la Cappuccini dovesse essere aiutata da lui; giacchè Remigio era stato un discolo; e, ora, per quanto avesse diritto all'eredità, non voleva riconoscere quel che gli altri avevano fatto per suo padre. Perchè, poi, non voleva darle niente, se c'erano quei due testimoni? E non si sapeva, da tutti, che l'erede doveva essere la ragazza? Sarebbe stata una riconoscenza forse eccessiva e a danno del figliolo, salvo la legittima; ma la legge non può badare alle cose, impacciandosi di quel che non la riguarda. Questo era, dunque, proprio un caso del quale doveva occuparsi lui stesso. C'entrava anche l'amor proprio di far vedere alla Cappuccini e agli altri, che egli poteva fare un favore ogni qualvolta avesse voluto. E siccome metteva da parte parecchi denari, e voleva comprare un podere, per farcisi una villa, notò che Remigio lo possedeva senza esserselo guadagnato e senza doverlo pagare a nessuno.