Il mondo è rotondo/XV
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Capitolo XV.
“Quis est proximus tuus?„
Storia d’Italia! Un cavaliero cavalca un somiero. Sono giunti in vista del Campidoglio. Che nome! Ma Capitolium fuit! Il somiero non vuol salire quella vetta, e ribalta cavaliero e elmo di Scipio.
Il rosignolo, morto; il gallo, morto! Triste storia!
E in questa meditazione — nel silenzio dello studio, rimasto vuoto dopo la partenza del giovane — questa voce si udì:
«Beatus, buon dì».
«Ciao, caro».
Era il pappagallo, animale calunniato.
«Povero Loreto! Tu non sei nè insensibile nè demoniaco. Sei quello che sei. E così Biagino non è nè buono nè cattivo. È quello che è. È masnadiero. E così il somiero ubbidisce ai sensi che ha.
«E così il rosignolo morto non pensava all’oriente; nè il gallo vuol destare gli uomini. Tutto il resto è la tua malattia, qui».
E col ditino Beatus si toccò la fronte.
«Questo ditino così gracile e questa fronte così mostruosa! Ah, io sono animale mostruoso; e Scolastica ben lo sa: ma tutti voi, signori, siete mostruosi», disse Beatus volgendo lo sguardo attorno attorno per le pareti da cui pendevano i benefattori dell’umanità.
Tutti pendevano con quella deformità della fronte; e siccome alcuni erano calvi, così quelle fronti parevano bianchi occhi ciclopici.
«Figlio mio, perchè bestemmi tu i doni dello Spirito Santo?»
Questa voce Beatus udì. Essa proveniva da un ritrattino più piccolo: quello di sua madre. Anche Beatus aveva avuto una madre.
Allora Beatus si rannicchiò in grande meditazione, finchè venne la sera. E allora si accese la lampadina elettrica; ma, poco dopo, senza dire perchè, la lampadina alitò e si spense.
Alla luce dell’ultimo crepuscolo, Beatus vide il ritratto di quell’uomo che studiò tanto per mettere quei cosini di metallo l’uno sopra l’altro, e trovò l’elettricità. «Le teocrazie ne avrebbero fatto un segreto magico; ma lei, signor Alessandro Volta, viveva nel secolo dei lumi, e ne ha fatto un regalo al popolo. E ora è troppo giusto che il proprietario della luce sia il sindacato degli elettricisti, e lei stia contento, con una a di meno, ad essere una misura. Anche lei appartiene alla società dei fessi; e così anche lei, professor Galileo Ferraris, professor Pacinotti.»
Ma intanto bisognava cercare una candela. Ma soltanto Scolastica sa dove sono, e se ci sono, le candele.
Beatus fu costretto a riconoscere che anche Scolastica era indispensabile.
Sono verità che si vedono, specialmente quando si è al buio.
E un giorno che i calzoni non stavano su perchè si erano staccati i bottoni delle bretelle e quindi egli non potè uscir di casa, rivide questa verità, benchè fosse di giorno.
Questa verità fu veduta, anche più luminosa, per la terza volta, quando Beatus infermò.
Allora Scolastica apparve proprio indispensabile e insostituibile.
Quando uno è infermo, vengono gli amici, e dicono:
«Comandatemi, amico. Ben lieto di potervi servire». E se ne vanno. Ovvero mandano fiori da mettere sul comodino, purchè non vi sia troppo odore di cadavere, chè, in tale caso, i fiori si mandano per i funerali.
Ma per Beatus non venne nessuno perchè c’era un’epidemia chiamata la spagnola, e il popolo ci aveva fatto anche la sua canzonetta.
Ma il vero nome dell’epidemia non si sapeva, perchè il bacillo, quantunque esortato dai più valenti scienziati, conservava gelosamente il suo incognito.
Dal modo come si comportava, si può supporre che fosse un bacillo umoristico. Comunemente si presentava sotto l’aspetto di un raffreddore dabbene, e poi, d’un tratto, assumeva la maschera della morte nera. Era inoltre capace di lasciar vivere una mezza carognetta come Beatus, e portar via lì, sotto casa sua, un colosso come il salumaio: un uomo che Beatus aveva ammirato tanto. Vedere con quanta religione questo colosso, dalla fronte depressa, tagliava i suoi prosciutti, con la sua gran coltella! E il suo falso burro! e il suo denaro!
E invece?
Ah, povero uomo!
E poichè era stato assicurato che gli uomini si impestavano con l’alito, così si vide gente girare con la maschera di garza.
Molte donne che vendono i baci della bella bocca, videro svalorizzata la loro merce. Molti pescicani, arricchiti con la guerra, temettero la spagnola assai più della rivoluzione.
Uno di questi pescicani aveva ordinato la carrozzeria per una automobile, ma si sentì rispondere che per il momento i falegnami lavoravano unicamente in casse da morto. E dopo, non più casse! Sacchi! Si insaccanogli uomini come a Roma si fa per le immondizie.
Di queste cose Beatus ragionava quasi piacevolmente col suo dottore, un giovane così lindo, così dotto, così gentile! Perchè Beatus aveva un po’ paura degli uomini; ma della morte non troppo: forse perchè la aveva incontrata altre volte per la strada, in precedenti infermità. Ci si era abituato, e avevano anzi finito col salutarsi.
— Lei ha vinto — diceva il dottore, — una gran battaglia!
— Ma quale?
— Quella che i fagociti hanno combattuto contro i misteriosi microbi della febbre spagnola.
E Beatus aveva la sensazione che il suo corpo fosse come la madre terra che sostiene tanti milioni di combattenti, e non se ne accorge.
«Ecco i leucociti, i fagociti, mobilitati per la caccia alla spagnola. Il mio corpo è un campo di battaglia. Ma forse è la Morte che ha tanto da fare in questi giorni! Del resto lei sa dove! sto di casa.»
Ma forse fu anche opera della signora Alice, una inquilina della casa, la quale venne e portò una tazza di brodo, un uovo fresco, un’ala di pollo: tutte cose rare nell’estate del 1918. E questa inquilina non soltanto portò il brodo e l’ala di pollo, ma rassettò la camera e mutò le lenzuola, anzi prestò lei le sue lenzuola, perchè soltanto Scolastica sapeva dove erano e se c’erano ancora le lenzuola. Ma Scolastica era assente. E allora apparve a Beatus quel Cristo, che aveva veduto in quella chiesa di Romagna, e questa domanda gli batteva nel cervello: Quis est proximus tuus?
E quando la signora Alice non poteva venire, mandava su una sua bimbetta, e spesso venivano tutte e due; e a vederle facevano sorridere: lei era una donna di così vaste proporzioni che ingombrava di sè quasi tutta la camera, mentre si chiamava Alice, un nome che dà l’idea di una figurina sottile; e la bimbetta si chiamava Elena, il nome della gran femina! E invece era una bimbetta rachitica, col corpo di dieci anni, il volto grinzoso, ed il mento aguzzo; e una zazzera avea nera e tonduta, legata con un nastro rosso. Pareva la figura del diavolo zoppo nelle vecchie illustrazioni del Le Sage. Ma ella aveva una infantile, dolcissima cantilena umbra con parolette piene di assennatezza, per cui Beatus, comparando quel suono col ciacolar di Scolastica, gli parve che mai San Francesco avrebbe potuto nascere nel Veneto.
La formidabile signora Alice era una piccola borghese, e proprio di quelle spregiate terre del sud, che nelle terre del nord sono dette terra matta o terra ballerina. Nominava spesso quegli idoli che si vedono a Napoli sui comò, e portava una capigliatura nera elaboratissima, sì che pareva senza fronte. Non tutto, dunque, è nella fronte?
La bimbetta non era sua figlia, ma una trovatella, raccattata per via, e che lei aveva pulito, vestito; e le aveva messe scarpe ai piedi, e le aveva promesso, se fosse stata buona e ubbidiente, che la avrebbe tenuta alla prima comunione. Ma la bimbetta non aveva bisogno di ammonimenti: faceva lei per casa; capiva e — ridendo con gli occhi nerissimi — guardava Beatus, che stupiva come ella capisse. «Fidatevi di me, signo’ — dicea. — Capisco, ho capito!» E aveva capito! Perchè Scolastica se ne era andata senza dir nulla: ma la sua roba era ancor lì. Faceva tutto lei, la bimbetta: «Voi statevi quieto». E anche andava nelle farmacie lontane lontane a prendere le medicine.
Ma una sera la bimbetta non tornava. Era andata tutta baldanzosa a prendere una medicina che non si trovava più se non in una farmacia lontana lontana, e per grazia dell’amico dottore: una medicina tedesca, che abbassava la febbre, ma non indeboliva il cuore.
E la città era grande.
Già calava la sera, e lei non tornava.
Mo’ viene — diceva la grossa donna del sud. — Non si perde!
Ma la bimbetta non veniva; ed era in pensiero anche la grossa donna del sud.
E in silenzio attesero.
Suonò l’ora di notte.
Finalmente la bimbetta venne. Rideva e piangeva.
Raccontò sua ventura.
Si era smarrita.
Intanto era venuta la notte, i lumi non ci sono più e lei piangeva.
La gente si fermava e diceva: «Cos’è?» «Una bimba che ha smarrita la via». E andavano oltre. Allora una bella signora vestita di bianco, le domandò perchè piangeva. Ella raccontò sua ventura. «Oh, che brava bimba!» E in un momento la ricondusse a casa in carrozza.
— E la medicina?
— Eccola qui —, e non sapeva più come avesse trovato la medicina.
La grossa donna del sud, seduta presso il capezzale, diceva: — Mo’ vedete, chi sa? è la Madonna.
Tante storie ella sapeva di apparizioni della Madonna: sempre una bella signora, ma vestita di bianco.
Una volta sui monti apparve a una pastorella, e tutte le pecore erano intorno inginocchiate; un’altra volta apparve d’agosto, con tutta la neve bianca d’intorno; un’altra volta d’inverno, con tutti i gigli fioriti.
— E perchè a me non appare? — chiese Beatus.
— E scusate — disse la donna del sud con peritanza, — voi siete un buon uomo, ma voi non siete innocente!
La notte, la febbre placò, come talvolta misteriosamente placa il vento sul mare. Erano i microbi della vita che vincevano quelli della morte? Era la medicina tedesca? E allora perchè quel popolo fabbricò anche i gas asfissianti? Domande su domande, come onde su onde, portavano Beatus su di un oceano.
Si assopì verso l’alba. E allora gli apparve ancora quel gran volto di Cristo. Le labbra di Cristo si movevano come se mormorassero: Quis est proximus tuus? E le tre dita erano levate sopra di lui.