Il mistero del poeta/XXXVII
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XXXVII.
Ecco la lettera di Violet:
«4 luglio.
«Appena sei partito ho data la felice notte ai miei amici ed eccomi nella mia camera. Voglio tanto bene a questi perfetti amici, ma quando tu mi lasci soffro di stare con altri, desidero esser sola per ritrovar te, per stringerti al mio cuore nel più profondo mistero, come dice la cara poesia.
«Non ti scrivo per dirti che ti amo, benchè avrei tanti volumi da riempire con questo. Ti scrivo per tenere subito la mia promessa di Geisenheim.
«Caro, io credo di averti amato molto presto, a Belvedere; molto prima di quanto potresti credere. Allora pensavo, contro la mia volontà, che sarei felice di vivere presso a te come la più umile persona della tua casa, assistendo, ignorata da te, alla tua vita intima, udendoti parlare con altri più degni di me e leggendo.... sì, sognavo anche questo peccato!... leggendo di nascosto le tue carte. Poi, quando seppi d’essere amata n’ebbi una vertigine, e desiderai nella mia fantasia che tu avessi a scrivere per me sola. Questo l’ho desiderato anche più tardi, una volta. Viaggiando in ferrovia da Firenze a Roma ho udito parlare di te come scrittore idealista, in modo che mi fece male. Avrei pianto di collera e pensai che diventando mio non daresti più al mondo un solo verso. Ma era un pensiero che, allora, non poteva durare. Conoscevo tanto meglio di prima, per le tue lettere, l’anima tua; sapevo che, per quanto riguarda le idee, sei capace di seguire il tuo cammino col più risoluto disprezzo degli attacchi che giungono e di quelli che non giungono a te. Adesso io sono tua ed ecco ciò che ho nel cuore:
«Noi dobbiamo vivere nel tuo paese, là dove tu hai le memorie più care, dove le voci delle cose ti hanno parlato la prima volta, un giorno della tua fanciullezza, con tua grande confusione e stupore, e ti hanno poi appreso in seguito ch’eri poeta e che bisognava rispondere ad esse. Ricordi bene, non è vero, di avermi raccontato questo? Là tu hai conosciuto la vita e i cuori degli uomini che in parte sono già ne’ tuoi libri e in parte nella tua mente; là tu hai sentito spesso col sentimento di tutto un popolo. Noi dobbiamo vivere là, non perchè tu goda tutte queste dolcezze della patria, ma perchè mi pare che sieno quasi l’alimento del poeta, e tu devi esser poeta sino all’ultimo, con tutta l’anima tua e con tutta la mia.
«Caro, io sono forse in parte troppo scettica e in parte troppo entusiasta; di quest’ultimo guaio ne hai colpa tu che mi hai ridonato il mio cuore di diciott’anni. Io penso che tu possa realmente far bene, come poeta, a pochissime anime, e penso in pari tempo che il valore di questo ristretto beneficio sia inestimabile e che saresti colpevole di non recarlo. Non basta; io sono una personcina molto ignorante e da nulla, ma tuttavia presuntuosa assai; e oso adesso dire cosa vorrei che tu facessi in avvenire come artista. Il romanzo che hai incominciato mi piace immensamente e so come vi lavorerai quando sarai mio. Io mi vedo già seduta vicino a te, con un lavoro fra le mani molto più umile del tuo, guardandoti e baciandoti col desiderio mentre scrivi, e tenendo gli occhi bassi quando alzi i tuoi dalla carta, per non tentarti, per lasciarti tranquillo. Ma vorrei che ne’ tuoi futuri libri non vi fosse solo die wornehme Welt, come dicono qui, una elegante società di signori e signore; e nemmeno che ci fossero solamente contadini e operai; vorrei che tu prendessi in mano tante persone di ogni specie, come si mescolano o si toccano o almeno si vivono accanto nella vita reale. E vorrei un’altra cosa più grande assai; che tu fossi per questa gente il poeta della verità e della giustizia.
«Dio mio, come mi batte il cuore pensando che lo sarai! Ti abbraccio, mi stringo a te nel pensiero, ti amo tanto e sono tanto felice che ne soffro.»
«5 luglio.
«È l’alba e io scrivo presso la finestra aperta, per aver luce. Non ho potuto dormire, ma ho riposato e l’aria così pura e fresca mi ristora, mi dà una gioia tranquilla.
«Il caso e le condizioni della mia esistenza, alquanto vagabonda, mi hanno fatto conoscere molte persone e molti atti di queste persone che sono ignoti alla maggior parte della gente fra la quale vivono. Ho udito il mondo esaltarle o deprimerle con giudizi di errore e poche cose che mi hanno fatto altrettanto sdegno, altrettanta amarezza. Avevo forse appena tredici anni quando questi stupidi giudizi umani incominciarono a farmi soffrire. La mia adolescenza fu assai fantastica e ambiziosa. A sedici anni sognavo la gloria come un ragazzo, credevo poter diventare un grande scrittore e m’inebbriava l’idea di far giustizia colla penna senza rispetti umani. Forse, col carattere focoso e altiero che avevo allora, pensavo più a castigar degl’ipocriti che a premiare la virtù sconosciuta. Le mie illusioni, la mia folle ambizione caddero presto e di quell’ideale non è rimasta in me che un’alta, inaccessibile immagine; ma ho sempre pensato che invece di porre in scena caratteri non mai esistiti o fatti di rappezzi, il poeta dovrebbe portare intere ne’ suoi libri le persone che ha conosciute nel mondo, rappresentandole secondo verità e giustizia, in modo che possa servire di premio o di pena. Io so che non dobbiamo giudicare i nostri fratelli e che nè la perfetta scienza, nè i definitivi premi e le pene del cuore umano sono in nostro potere; ma sento con tutta l’anima che il poeta è chiamato a prendere sulla terra, per ombra e figura, questa parte divina, a esercitarla, non per uno sfogo di passione come avrei fatto io qualche volta, ma col solo intendimento del bene, per correzione ed esempio, e con le prudenti cautele che ha o dovrebbe avere chi pronuncia in chiesa la parola di Dio, quando apre le anime e vi mostra il peccato.
«Caro, ti faccio io sorridere? Credo veramente che sorridi, mi accarezzi e mi baci, molto come il tuo amore che sono e un poco pure come una bambina che ti sembro in questo momento. Perchè io La credo capace, sarcastico signore, di questa cosa mostruosa: ridersi di me. Ciò ch’ella del resto non potrà, un giorno, fare impunemente, perchè se io Le ho già morso un dito, piano piano, per amore, saprò mordere anche per vendetta, e forte! Ma no, è vero, non tocca a me dirti qual è la tua via; a me tocca solo seguirti, seguirti sempre, al tuo fianco quando la via è piana, nelle tue braccia quando è difficile. Spero che sarà molto difficile, sai?
«Ecco una lunga lettera e non vi è ancora ciò che mi fu cagione di scriverla. È una cosa contro il mio cuore, ma secondo la mia mente e la mia coscienza. Non ho mica presa sul serio la tua proposta di Geisenheim; ma sai perchè non vorrei vivere a Geisenheim nè in qualsiasi altra solitudine? Perchè occuperei troppo tutta la tua vita! Per me sarebbe il paradiso, ma non dev’essere, non lo voglio. Voglio essere una nuova fiamma in te per le opere del bene e dell’arte, e ritroverò me in tutto che penserai, in tutto che farai, quantunque in apparenza estraneo e in fatto superiore a me. Voglio però anche essere la tua vanità; io sola, che sono parte di te, una parte inferiore, io sola voglio essere la tua vanità. Se tu ti sforzi di non curar le lodi dei giornali e della folla, ti abbandonerai invece — senti come sono orgogliosa! — alla dolcezza di esser lodato da me, che non so ancora lodare, che invidio, per questo, le donne italiane, ma che cercherò d’apprendere, e se non saprò scioglier la mia lingua legata, ti parlerò colle mie carezze!
«Solamente, se ci saranno ne’ tuoi scritti eleganze classiche, bellezze puramente italiane, temo che non le saprò intendere. Me le insegnerai tu, caro. Quante cose mi devi insegnare! Quando penso come sono ignorante di tante cose che ogni scolaretta sa, mi copro il viso. Ti piace ch’io mi copra il viso?»