Il dottor Antonio/XXVII
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CAPITOLO XXVII.
Ischia.
In questo capitolo troviamo riuniti nell’isola d’Ischia i principali personaggi della nostra storia, eccetto sir John, dalla gotta confinato ancora a Davenne.
Il dottor Antonio, vestito come un delinquente volgare, laggiù nel castello trascina la sua grave catena.
Lady Cleverton risiede, fin dallo scorso febbrajo, in una delle più belle e meglio situate ville dell’isola. Per la malferma salute, le sue abitudini sono estremamente solitarie, e al cugino, il Diplomatico, e alla sua compagna, signora di modi cortesissimi, lascia il carico di far gli onori della sua splendida dimora agli ospiti distinti, che da Napoli e dalle isole adiacenti accorrono ad ammirare il bello yacht di lady Cleverton. Si dice che i medici di Sua Signoria le abbiano consigliato di passare la vita quanto più può in mare, e, per facilitarne l’obbedienza a quel consiglio, d’Inghilterra le era stato spedito quello yacht modello. Il Perseverante — così lady Cleverton ha battezzato il suo bel navicello, — conosciuto per venti miglia in giro più di qualunque nave di Sua Maestà Napolitana, — esce ed entra nelle piccole baje vicine in qualunque ora del giorno e della notte, lo si vede bordeggiare e incrociare lungo la costa senza mai turbare la siesta degli ufficiali di dogana o di guardacoste; in una parola, il Perseverante è affatto famigliare nelle acque dell’amabile golfo di Napoli.
Speranza, è quasi inutile il dirlo, sta al fianco della sua cara padrona.
Battista ha rinunziato al suo albergo e alle sue spalline per venire a stabilirsi come pescatore in Ischia, dove abita in un povero quartiere della città vicino al porto. Quasi ogni giorno egli reca alla villa di lady Cleverton grossi carichi di pesce, ricevuti quasi sempre da Speranza. Nella casa, siccome nessuno capisce il dialetto di Battista fuor di Speranza, così è lei che fa i contratti; ma, sotto ogni altro rispetto, è trattato quale persona affatto estranea; come pure dalla Hutchins e dal servo inglese, i soli della famiglia che l’abbiano conosciuto in altri tempi. Le pratiche di Battista in città non sono molte. Eccetto qualche casual compratore di tanto in tanto, pare si limitino a un uomo avanzato, sottile della persona, in povero abito nero; senza dubbio un abitante del castello, perchè si vede invariabilmente passare il ponte che unisce il castello all’isola, quando viene ogni due giorni alla casa di Battista a comprare le sue provvisioni di pesce. Battista a questa sua sola pratica mostra grande attenzione, lo chiama «suo caro dottore;» — diploma conferitogli di sua propria autorità da Battista; — tien sempre pronto per lui un bicchiere di lacrima-christi; — lo carica di pesce, e per soprappiù di misteriosi involtini; i quali ultimi l’avventore si ravvolge con grandissima cura attorno al corpo sotto i panni. Questi involtini sono matasse forti di seta, accuratamente preparate da lady Cleverton e da Speranza. Un’ora basterebbe per congiungere insieme centinaja di queste matasse, facendone una solida fune, con cui uno avrebbe potuto discendere da qualunque altezza.
Eccoci ora giunti al mese di maggio — quel fatal mese di maggio! La notte è scura quanto amanti o contrabbandieri potrebbero desiderare, e i neri contorni del torreggiante castello si discernono appena nel tetro fondo di un cielo nuvoloso. Un battello, nel quale stanno il Diplomatico e Battista, si avanza cautamente, con remi ravvolti di panno, fino al piede del massiccio edifizio, e prende posizione proprio dove lo scoglio cade perpendicolarmente nel mare. A un corto miglio dal piccolo porto d’Ischia sta ancorato il Perseverante. Nella cabina sul ponte stanno lady Cleverton e Speranza, mute come ombre. La loro ansietà è troppo grande per esprimerla con parole. Speranza in ginocchio a lato della sua amata padrona, le bagna con acqua le tempia. La vita di Lucy pende dall’esito di quest’ora.
Ogni orologio della città suona mezzanotte — le due donne nello yacht fissano gli occhi nella direzione della fortezza; — i due uomini nel battello tengono i loro occhi fissi in alto; — non un movimento, — non un suono. Anche un’altr’ora — un secolo — è passata, e regna pure la stessa quiete di morte. Che vuol dir mai questo ritardo? Mezzanotte era l’ora convenuta; la limatura delle catene del prigioniero, e delle sbarre di ferro della finestra, dalla quale deve tentar la fuga, aveva a occupar solo venti minuti. Possibile che tutto sia stato scoperto? Ma se ciò fosse, si sarebbe udito qualche allarme, qualche colpo di fucile, qualche suono di voce — almeno si sarebbero veduti dei lumi: — eppure tutto rimane scuro e quieto come la morte. O fosse mai, che al momento decisivo, a faccia a faccia col sottoposto abisso, sia venuto meno il coraggio al prigioniero? Tre anni di tortura, quale si pratica sul fisico e sul morale nelle prigioni di Napoli, sapevasi che avevano indebolito altri cuori nobili e intrepidi come quello di Antonio.
Mentre a bordo dello yacht e del battello queste congetture si discutevano con tremulo bisbiglio, la vasta massa del castello diveniva ogni momento più distinta per il progressivo albeggiare dell’orizzonte. Altri dieci minuti, e sarebbe troppo tardi per il battello il ritirarsi senza destar sospetti; però il Diplomatico e Battista ripresero di nuovo i loro remi, e lasciando cautamente la lor pericolosa situazione, navigarono verso lo yacht, e dopo poco più di un’ora, una portantina depose lady Cleverton nella sala della sua villa. Battista intanto passeggiava su e giù nella sua povera casa, presso il porto, aspettando colla più viva impazienza l’ora che doveva recargli il suo misterioso avventore del castello, e con lui la soluzione dell’enigma della notte passata.
Venne alla fine, e con notizie che fecero cadere indietro come un briaco l’ansioso ascoltatore. Battista volò alla villa, e fu dall’atterrita Speranza introdotto immediatamente alla presenza di lady Cleverton. — «Egli non vuol uscire!» gemette il poverino stracciandosi i capelli e battendosi le mani. — «Egli non vuole uscire.» Questo era il fatto. Antonio aveva ricusato di fuggire, e il mal esito della notte passata era stata opera sua.
— «Questa è decisa pazzia!» esclama il Diplomatico. Lo sguardo a queste parole scambiato tra Lucy e Speranza fu pieno di un nuovo terrore. In quell’istante Battista stende a lady Cleverton un sudicio pezzo di carta. O gioja! era suo, benchè potesse dirsi appena di suo carattere. Le lettere erano formate di piccoli forellini nella carta. Queste poche parole, tracciate interamente all’oscuro, avevano costato allo scrittore un’intera notte di lavoro. Eccone il senso:
«Sono qui meco cinque altre nobili persone, la minima delle quali vale dieci volte più di me. Non posso abbandonarle. Voi non potete salvarci tutti, lasciatemi dunque al mio fato. La Provvidenza mi ha assegnato il posto fra quelli che soffrono. Forse le nostre pene saranno contate a salvezza del nostro paese. Pregate che sia così. Pregate per l’Italia! Dio vi benedica!
«Il vostro A.»
Lucy si nascose fra le mani la faccia, e lagrime cocenti le corsero fra le dita. Gli altri tre erano commossi quasi altrettanto.
— «Noi li salveremo,» sclamò ella subitamente sollevando il capo in aria di persona ispirata.
— «Noi li salveremo, coll’ajuto di Dio!» dissero il Diplomatico e Speranza. Battista non disse nulla, ma alzò le mani in atto di solenne voto.
Dopo il pranzo, il baron Mitraglia venne a far visita a lady Cleverton. Ella lo aveva incontrato alle riunioni di Corte. Personaggio di grandissima importanza: era barone, generale, ciamberlano — «tre grandi uomini in uno raccolti» — e troppo innanzi nel favore del Re, questo grancroce di innumerabili ordini, perchè gli si potesse negare accoglienza. La conversazione non potè a meno di essere a balzi: la Corte, la stagione, la bella prospettiva, il bello yacht di lady Cleverton, che il barone aveva ammirato in distanza. — Amerebbe egli di andarvi a bordo? Il barone si dolse moltissimo di non potersi valere in quel momento del cortese invito di sua signoria. Egli era venuto in Ischia per affari di ufficio, e doveva tornare immediatamente a Napoli. «Non era venuto, sperava,» diceva lady Cleverton con un forzato sorriso, «a mettere Ischia in istato d’assedio? Quell’«affari di ufficio» l’aveva colpita.
— «Potrei quasi desiderare di essere a ciò venuto,» rispose il barone ringalluzzandosi; «non foss’altro per assicurarmi che voi non ci scappiate uno di questi giorni.» Mentre ciò diceva, dai suoi occhi grigi schizzò come un lampo misterioso alla sua ascoltatrice. «La mia missione presente,» continuò gravemente il barone, «posso confidarla a una signora discreta come voi siete — riguardo alcuni prigionieri politici, — oso dire che non avevate idea di aver siffatti vicini — que’ detenuti laggiù in castello.» E indicò col dito la massiccia fortezza che si vedeva distintamente dal sofà su cui egli stava seduto.
— «Davvero!» fu quello che potè dire lady Cleverton, mentre una nube le passava dinanzi agli occhi.
— «Sì. Il Governo di Sua Maestà fu informato da pochi giorni che in quest’isola da qualche tempo si maneggiavano pratiche clandestine — qualcosa di simile a una congiura per l’evasione de’ prigionieri di cui vi parlava. Non ve ne mostrate turbata, signora; non c’è timore che persone di carattere tanto pericoloso possano essere rilasciate ad infestar la società. Sua Altezza Reale il principe Luigi, che ha il carico, come Ammiraglio del Regno, di quest’isola, mi mandò ad inquisire su quest’oggetto. Non c’è nulla che valga la pena d’esser menzionato, infin de’ conti: vero giuoco da fanciulli. Tuttavia ho creduto meglio, principalmente pel bene de’ prigionieri stessi, di ordinare la loro immediata traslocazione.»
Aveva ascoltato lady Cleverton questa confidenza colla disposizione d’animo di un reo colla testa sotto la mannaja; ma seppe comandarsi una calma esterna sufficiente; e gli domandò in modo noncurante: — «E dove pensate mandarli?
— «Questo è il mio segreto, Milady,» rispose il barone con un sorriso pungente come la punta di un pugnale. «questo è il mio segreto,» e uscì.
Quando Speranza, poco dopo, recossi dalla sua padrona, la trovò svenuta. Per disgrazia non era un caso straordinario. Da molti mesi in qua lady Cleverton era stata soggetta a svenimenti. — «Fu quell’uomo orribile,» bisbigliò; «ve lo dirò di qui a poco; ora proprio non posso pensare; mi sento tanto sonnecchiosa.» Speranza la pose sul sofà a dormire. Lucy si giacque quietissima. Di tratto in tratto, qualche parola interrotta, connessa evidentemente con un sogno le esce dalle labbra. Sta per venire alcuno che da lungo tempo ha aspettato, e vuole la sua veste azzurra. Provossi una volta alle prime note di un’aria, che Speranza continuò e canterellò gentilmente. Era la prima canzone siciliana da Antonio insegnata a Lucy. Dopo di ciò durò il silenzio parecchie ore senza interruzione.
Il giorno stava per finire. Speranza, la quale aveva osato appena di respirare per tema di turbar la dormente, cominciò ad aver paura, nè sapeva perchè di quel lungo silenzio. Non potendo più durare in quello stato, si recò in punta di piedi presso la padrona, e piegossi sopra di lei. C’era un cambiamento in quel suo bel viso che colpì Speranza. La chiamò per nome — era fredda. Lucy aveva cessato di soffrire.
Pareva un fanciullo dormente. L’angelo della morte aveva spianate le rughe premature intorno agli occhi di lei e alla bocca. Le sue labbra erano leggiermente aperte ad un sorriso. Ella giaceva colla testa rivolta verso il castello. Il suo ultimo sguardo era stato per Antonio.
Sir John non potè resistere al colpo della fatal notizia, e dopo pochi mesi morì.
Il giovane addetto all’Ambasciata sollecitò e ottenne un cambiamento di residenza. Napoli gli era divenuta insopportabile.
Il misterioso avventore di Battista non si vide più, nè si seppe più nulla di lui.
Battista e Speranza tornarono al loro paese, e comprarono una bella casina di campagna vicino a Nizza, ove vivono agiatissimamente; chè lady Cleverton, forse presentendo la sua prossima fine, aveva lasciato a Speranza una grossa somma. Ma la perdita della loro benefattrice e la sorte disperata del dottor Antonio, gittava una nube di mestizia sopra la loro vita. L’aspetto di Speranza è mestamente alterato; i suoi capelli sono tutti grigi.
Il capitano, ora sir Aubrey Davenne, contrasse un ricco matrimonio, nè più tornò nell’India. In questi ultimi anni era un membro rispettatissimo della Camera de’ Comuni, ove parlò rare volte fuor di quello che era ormai la sua specialità — soggetti religiosi e filantropici. La Società della Pace lo conta per uno de’ suoi più influenti e zelanti promotori.
Il dottor Antonio soffre, prega e spera ancora per la sua patria.
FINE.