Il cedro del Libano/Il posto

Il posto

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L'esempio Vento di marzo

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IL POSTO

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Dove era l’officina di Michele Paris il meccanico? Da due ore il suo compaesano ed amico, chiamato anche lui Michele, inutilmente e faticosamente la cercava. Qualche tempo prima il meccanico aveva scritto alla madre, assicurando di trovarsi bene, di lavorare in una grande officina, della quale dava l’indirizzo, di guadagnare abbastanza per vivere, d’andare al cinematografo ed anche alle partite di calcio. Era una specie di rivincita che egli si prendeva, poichè era scappato di casa, con qualche soldarello si intende, non garbandogli l’umile mestiere di fabbro per ferri da cavallo, del suo severo genitore: il quale nei primi tempi minacciava di fracassargli la faccia col martello se riusciva ad acciuffarlo. Adesso le cose si erano dunque placate; Michele aveva mandato anche una sua piccola fotografia, coi capelli rossi impomatati, la spilla alla cravatta, il fazzolettino che si affacciava alla tasca della giacca. Non si dubitava nemmeno che egli un giorno non sarebbe diventato padrone di un’officina e magari di un’automobile. Il primo a crederci era l’altro Michele, quello che adesso da due ore lo cercava per le strade della città. [p. 100 modifica]

Bisogna dire che queste strade e questa città erano coperte di neve: una neve da burla, per Michele secondo, abituato alle nevicate alte del suo paese; ma qui tale da stordire con una specie di gelida ubbriachezza tutti quelli che s’incontravano per le strade. I ragazzi pattinavano urlando, le ragazze che andavano a far la spesa camminavano come su un fiume gelato; uomini imbacuccati e impellicciati correvano quasi spinti da un pericolo, e i ragazzi che non avevano la fortuna dei pattini improvvisati si esercitavano in una inesorabile battaglia di palle di neve. Una ne arrivò e scintillò sulla capoccia selvatica di Michele, mentre egli domandava per la ventesima volta notizie dell’officina. Nessuno sapeva dov’era.

Così arrivò a uno spiazzo, in un quartiere nuovo ancora in costruzione. C’era un piccolo mercato, con cesti di verdura appassita dal gelo, pesci che sembravano di vetro e mucchi di arance che, queste almeno, facevano concorrenza ai braceri accesi dalle erbivendole. Brillava anche qualche fuoco, allegro, nel chiarore quasi lunare della bianca giornata, come i fuochi della notte di Sant’Antonio nella piazzetta davanti alla casa di Michele. Ed egli ci si fermò davanti, incantato e infreddolito, sembrandogli di esser capitato in un paese un po’ più grande del suo, ma sempre paese. E fu lì che una donna tutta ardente di geloni, maternamente impietosita per il naso rosso e gli occhi desolati di lui, s’interessò finalmente alla sue domande. La strada, sì, ella l’aveva sentita nominare: doveva essere una strada nuova, non molto giù di [p. 101 modifica]lì, dove si costruivano case e palazzi. Può darsi ci sia un’officina, apposta per lavori inerenti alle fabbriche; ma altre indicazioni ella non sa dare. Gli regalò anche un’arancia, che egli si portò via fra le mani quasi per riscaldarsi. E cerca e cerca, e gira e gira, fra grandi case grigie e sinistre peggio delle rocce del suo monte, e per strade deserte e fangose, arrivò in un altro spiazzo, che accrebbe la sua sensazione di trovarsi in una solitudine alpestre: era un cantiere. La neve copriva i monticelli di pozzolana, i mucchi di laterizî, i pali e le travi buttate per terra, gli scavi incominciati per le fondamenta: una grande vasca d’acqua gelata rifletteva il cielo di alabastro, e pareva un piccolo ghiacciaio; l’orizzonte era ostruito da fabbriche ancora ingabbiate di travi, tutto bianco e freddo come di marmo; solo, in uno spazio vuoto, si vedeva una linea consolante, viola e bianca, di vera montagna.

E nessuno intorno: dell’officina rumorosa e calda, poi, la traccia svaporava anche dalla fantasia di Michele. Ma, guarda qua guarda là, distinse, fra il labirinto di passaggi del cantiere e delle costruzioni, un ventaglio di fumo che pareva salisse da una buca. Buono è il fumo, che annunzia anche nei luoghi più impervi la presenza e il calore dell’uomo. E Michele, con l’arancia d’ottone fra le mani, si diresse a quella volta. Ed ecco, davanti a una specie di baita, che completava il quadro montuoso, apparve la figura di Michele Paris. L’altro Michele lo riconobbe ai capelli rossi, lunghi e arruffati come la criniera di un piccolo leone; e poichè l’amico [p. 102 modifica]non si accorgeva di lui, piegato com’era a soffiare sul fuoco fumoso di un fornello da muratore, si avanzò di nascosto, gli piombò alle spalle, e su queste battè un pugno potente.

Il meccanico balzò in piedi ululando, con gli occhi verdi spalancati. Riconobbe il compaesano; gli restituì senz’altro il pugno sul fianco. Poi si abbracciarono.


— Dov’è dunque l’officina? — fu la prima domanda dell’amico. — E tu, dove stai?

— Qui — dice l’altro, additando il casotto come un castello. — Adesso ti dirò: vieni dentro.

Dentro c’erano arnesi di muratore, un giaciglio fatto di assi e stracci, e, ai piedi di questo, una macchina d’arrotino. Non essendoci altro, si misero a sedere sul giaciglio, davanti al fornello, la cui sola fiamma illuminava l’ambiente. Come quadro non c’era male; ma il compaesano non ricordava di essersi mai trovato, neppure nelle stamberghe più strette e povere del paese, in un luogo più sudicio e disperato di quello: la cosa più confortante era la faccia tosta di Michele Paris. Tirandosi indietro i capelli infiammati ma anche pieni di polvere e di pagliuzze, egli diceva, con la sua voce ancora rauca di adolescente:

— Ci ho la camera, in città, col letto grande e le sedie; ma l’officina non è qui. Qui, — aggiunse abbassando la voce, — vengo per far piacere all’impresario della fabbrica accanto; che, del resto, mi paga. Si tratta di questo: hanno trovato una statua antica, nelle [p. 103 modifica]fondamenta; e si crede ce ne siano altre. Valgono migliaia e migliaia di scudi. Allora, perchè gli operai o i ladri non se le portino via, io sono qui come guardiano. Ci sto anche alla notte. Ecco.

L’altro aprì la bocca, con un riso muto che mise allo scoperto i suoi denti lupigni: poi la richiuse; si volse a tradimento e diede un altro pugno sulle spalle dell’amico e, mentre questi si drizzava sulla schiena e inghiottiva la saliva per non gridare, disse: — Ho bell’e capito, brutto maramaldo. E non mi ricordavo che eri il più grande bugiardo dei nostri dintorni. E ho creduto alle tue baggianate scritte, e son venuto qui... son venuto qui...

A dire il vero sembrava più disorientato lui dell’altro; il quale prese subito il sopravvento.

— E allora, che sei venuto a fare? Il brutto pecorone sei tu.

Si scambiarono un mucchio di parolacce: dopo di che, però, vennero ad amichevoli confessioni: e il compaesano disse che era venuto con la speranza che l’altro gli trovasse un posto nell’officina, o dovunque fosse: una sinecura che permettesse anche a lui di andare al cinematografo, farsi la fotografia e mandarla a una ragazza dalla quale era stato sbeffeggiato.

— Ci hai soldi? — domandò l’altro. — Coi soldi si trova tutto.

No, non ci aveva nulla, l’illuso; neppure il tanto per il viaggio di ritorno. Allora Michele Paris confessò che anche lui non aveva neppure da mangiare, quel giorno: tutto il suo capitale consisteva nella macchina d’arrotino, ma con [p. 104 modifica]quel tempo non si poteva neppure andare in giro a cercar lavoro.

— C’è però la serva del commendatore che, dovendo sposarsi la sua signorina, ha promesso di farmi arrotare tre dozzine di coltelli. Andiamo a vedere: può darsi che me li lasci portare qui.

Con questa speranza andarono a vedere; ma la serva non era in casa e la cuoca non aveva tempo da perdere coi due poveracci. Tornarono indietro, e il compaesano dovette far le spese lui: comprarono pane, lardo e altre due arance: il nevischio continuava a cadere, fangoso e pungente: ma nel casotto non mancavano almeno le assicelle per alimentare il fuoco. Riconfortati, anzi rallegrati dal calore dei loro sedici anni e delle loro avventure, i due amici si abbandonarono ai loro ricordi, di quando bambini cavalcavano l’asino del padre di Michele secondo; oppure quando, nell’oliveto roccioso, sopra i dirupi del paese, andavano a caccia di talpe. Bei tempi: e al loro ricordo essi si sentivano così felici che ridevano fino a buttarsi l’uno contro l’altro, ripetendo, per scherzo s’intende, i loro esercizi maneschi. Poi, non essendoci altro da fare, si sdraiarono sul giaciglio, abbracciati come bambini; e l’un Michele sognava una grande officina dove egli si arrabattava ad aggiustare un’automobile che era anche una macchina d’arrotino, mentre l’altro, già pratico della realtà, si accontentava dei trentasei coltelli del commendatore.