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lì, dove si costruivano case e palazzi. Può darsi ci sia un’officina, apposta per lavori inerenti alle fabbriche; ma altre indicazioni ella non sa dare. Gli regalò anche un’arancia, che egli si portò via fra le mani quasi per riscaldarsi. E cerca e cerca, e gira e gira, fra grandi case grigie e sinistre peggio delle rocce del suo monte, e per strade deserte e fangose, arrivò in un altro spiazzo, che accrebbe la sua sensazione di trovarsi in una solitudine alpestre: era un cantiere. La neve copriva i monticelli di pozzolana, i mucchi di laterizî, i pali e le travi buttate per terra, gli scavi incominciati per le fondamenta: una grande vasca d’acqua gelata rifletteva il cielo di alabastro, e pareva un piccolo ghiacciaio; l’orizzonte era ostruito da fabbriche ancora ingabbiate di travi, tutto bianco e freddo come di marmo; solo, in uno spazio vuoto, si vedeva una linea consolante, viola e bianca, di vera montagna.
E nessuno intorno: dell’officina rumorosa e calda, poi, la traccia svaporava anche dalla fantasia di Michele. Ma, guarda qua guarda là, distinse, fra il labirinto di passaggi del cantiere e delle costruzioni, un ventaglio di fumo che pareva salisse da una buca. Buono è il fumo, che annunzia anche nei luoghi più impervi la presenza e il calore dell’uomo. E Michele, con l’arancia d’ottone fra le mani, si diresse a quella volta. Ed ecco, davanti a una specie di baita, che completava il quadro montuoso, apparve la figura di Michele Paris. L’altro Michele lo riconobbe ai capelli rossi, lunghi e arruffati come la criniera di un piccolo leone; e poichè l’amico
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