Il buon cuore - Anno XIV, n. 41 - 9 ottobre 1915/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIV, n. 41 - 9 ottobre 1915 Religione

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I Cungusi della Manciuria


I Cungusi, il cui nome in cinese significa «briganti» sono celebri per l’audacia con cui ogni giorno commettono numerosi misfatti; essi hanno dappertutto delle spie che li informano quando c’è qualche buon colpo da tentare, e molte sono le leggende che intorno ad essi circolano in tutto l’estremo Oriente. Eppure per molto tempo questi briganti che spadroneggiano nella Manciuria, hanno diviso il loro nome coi pacifici cercatori d’oro, il cui unico delitto era quello di esercitare questa industria per proprio conto invece di riservarne i beneficii al governo cinese.

I briganti ed i minatori vivevano separati e si fusero solo dopo che una spedizione cinese distrusse i cercatori d’oro.

Solo verso la metà del secolo XIX la corte di Pechino cominciò a occuparsi dei ricchi terreni auriferi della Manciuria Settentrionale. Questa regione dal clima rigidissimo era ancora sconosciuta ai cinesi stessi, quando dei mercanti mancesi portarono in Cina delle pepite d’oro, qualcuna delle quali valeva fino a 10.000 franchi. Allora il governo interrogò i viaggiatori e li costrinse a indicare i luoghi ove l’oro si trovava così abbondante e subito, risoluto a riserbarsi il prodotto di quei terreni, minacciò i cercatori indigeni con le pene più severe se essi avessero continuato a raccogliere il prezioso metallo, e mandò esso stesso per proprio conto dei minatori nella Manciuria.

Senonchè i mandarini, ai quali la Corte di Pechino aveva affidato l’incarico di organizzare il lavoro, non riuscirono ad assicurare un servizio regolare di viveri

e così gli operai che dovevano già soffrire del clima glacible di quella regione, furono decimati da terribili carestie, molti di essi fuggirono nelle vicine foreste e furono questi i primi Cungusi.

La loro vita era tutt’altro che lieta: oltre alle difficoltà contro le quali dovevano lottare per la mancanza di viveri e di vestimenti, dovevano difendersi contro gli ostacoli delle belve feroci, specialmente delle tigri che in quel paese sono assai abbondanti.

Intanto il numero dei Cungusi, aumentava rapidamente perchè i minatori che il governo mandava nelle regioni aurifere, disertavano in grande quantità, e ben presto su quelle montagne si ebbero migliaia di individui che si raggrupparono secondo le loro affinità. Avevano scoperto in mezzo ai boschi dei terreni auriferi e s’erano messi a lavorarli per proprio conto; dei negozianti vennero a sapere che quei disertori avevano dell’oro in abbondanza e sfidando i pericoli ai quali si esponevano commerciando con uomini fuori della legge, si misero con essi in relazione segreta e in cambio del metallo che ne ricevevano fornivano loro viveri, vestiti, utensili.

Allora l’esistenza di quei disgraziati diventò più sopportabile; e appena cessarono di soffrire la fame, pensarono a organizzarsi e a formare delle associazioni adatte alle condizioni di vita che venivano loro imposte dal paese e dalle circostanze. Scelsero come loro capi alcuni mandarini, che, caduti in disgrazia, erano stati relegati nella Manciuria settentrionale, e di là erano evasi cercando un rifugio in mezzo ai Cungusi; e questi mandarini s’incaricarono di stabilire le regole delle associazioni, senza le quali i Cinesi non sanno vivere. Crearono così delle federazioni i cui capi erano incaricati di provvedere alla comunità tutto ciò che era necessario alla vita: e la più conosciuta di quelle federazioni è la piccola repubblica che sorse a poca distanza dal confine russo, sulle rive della Cetuga, affluente dell’Amur, e che rappresenta forse il più curioso esperimento di collettivismo che sia stato mai tentato.

I suoi membri avevano tutto in comune, così i mezzi di produzione, come i prodotti del lavoro, e nessuno aveva il diritto di possedere qualche cosa di suo. Il lavoro dei membri della comunità era retribuito con [p. 274 modifica]buoni di credito che permettevano a ciascuno di ritirare dai mgazzini dell’Associazione, i vari oggetti di cui aveva bisogno. Così i buoni lavoratori potevano procurarsi tutto ciò che volevano, quelli che lavoravano poco non potevano procurarsi che lo stretto necessario, e coloro che non volevano far nulla si vedevano negato recisamente qualsiasi soccorso. Le leggi, compilate da una commissione di venticinque membri che erano stati eletti a suffragio universale, erano molto rigorose; quasi tutti i delitti erano puniti colla morte. L’amministrazione della giustizia era affidata a due giudici nominati dal comitato legislativo, il quale eleggeva anche ogni tre anni due presidenti; questi avevano accanto a sè alti funzionari e ministri, uno dei quali era incaricato dell’approvvigionamento dei magazzini, il secondo ripartiva il lavoro fra tutti i membri della Comunità, il terzo era incaricato di vendere, all’estero, l’oro ammucchiato nei depositi della federazione. Intanto il numero dei Cungusi crescendo sempre più con l’aggiungersi di nuovi fuggitivi, venne il giorno in cui i terreni auriferi furono tutti occupati. Naturalmente i primi occupanti non erano punto disposti a cedere il loro dominio, e già stava per scoppiare un conflitto fra i primi e gli ultimi venuti, quando si riuscì a stabilire un accordo: i possessori auriferi fornirono agli altri tutto ciò che era loro indispensabile per tre mesi; e questo tempo bastò perchè questi potessero costituire delle associazioni di briganti che si sparsero per tutta la Manciuria e si misero a saccheggiare il paese. Questi briganti furono i veri Cungusi. Da principio i briganti Cungusi si limitarono ad assalire i viaggiatori isolati o senza difesa; e seguendo l’esempio dei membri della Siao-lu-hoei, ossia della associazione di ladri che prospera da secoli nel Celeste Impero, si recavano alle fiere e ai mercati per esercitare la loro industria in mezzo alla folla. E’ curioso il fatto che quando qualcuno veniva derubato, se egli si recava a trovare il rappresentante ufficiale che i briganti avevano in ciascun centro di popolazione, poteva rientrare in possesso del suo, pagando una somma eguale a un terzo o un quarto del valore della roba rubata. Col tempo questi briganti diventarono sempre più audaci: fermavano le carovane, avevano stabilito su tutte le strade della Manciuria delle stazioni, taglieggiavano i convogli stessi del Governo, saccheggiavano i piccoli villaggi, imponevano contribuzioni alle città più importanti. Quando fermavano qualche barca carica di merce al confluente dei fiumi che si gettano nell’Amur; andavano a vendere la merce nella città più vicina, tenerdo intanto prigioniero il proprietario della barca, e terminata I operazione gli restituivano la barca e gli consegnavano il ricavato della vendita tenendo per sè il 35 o il 40 per cento. ’ briganti potevano mostrarsi di pieno giorno, perfino nelle strade delle principali città; tutti li conoscevano ma nessuno osava denunciarli.

Ma la scandalosa audacia dei Cungusi finì col rovinarli. Una volta es i catturarono dei generali cinesi che avevano rifiutato di trattare con loro; e fecero sapere al governo di Pechino che non li avrebbero rilasciati se esso non avesse pagato un riscatto. Il Governo rifiutò di cedere a questa ingiunzione e risolvette di fare un grande sforzo per sbarazzare là Manciuria da quel flagello. Fu rrap_&to contro i Cungusi un vero esercito, ma la maggio: parte dei briganti riuscì a fuggire riparando sulle inaccessibili montagne; così la spedizione fece più danno alle pacifiche federazioni dei minatori che ai briganti. L’incursione fatta dai Cungusi nel 1900 sulla riva sinistra dell’Amur fu il pretesto che permise alle truppe russe della Siberia di occupare la Manciuria. Dopo l’occupazione i russi cercarono con ogni mezzo di amicarsi gli indigeni, e di ricondurre nella regione l’ordine, e facendo affluire milioni di rubli, prccurarono agli abitanti una prosperità materiale che prima essi non avevano conosciuta.

L’arte di domani

E dopo? Quando la pace riaprirà le ali, ahimè, non più candide sopra questa nostra povera Europa, e i giornali non parleranno più ogni giorno di nuove disfatte e di stragi e di carneficine, quando ogni famiglia richiudendosi nella propria casa (quelle che troveranno ancora la propria casa) resterà pensosa a ricordare gli scomparsi, e quando tuttavia la vita ripiglierà la sua forza di rassegnazione e di rinnovazione inesauribile, e le anime sentiranno bisogno di un ricreamento e l’arte fiorirà di nuovo a rendere gentile ogni amore, al ora, come si presenterà la nuova ‘ita dello spirito, quale sarà il sentimento, di cui l’arte nuova si renderà l’interprete e la creatrice divina? Noi ci rivolgeremo ai passato, guarderemo al 1913 dopo il silenzio del 1914, e vedremo quell’anno già dito più distante, che non possiamo immaginare. Il tempo è fatto lungo o breve dalla quantità di azioni che lo occupano: ora questo 1914 nefasto ha accumulata una tale congerie di fatti giorno per giorno, che noi possiamo bene ritenere di avere vissuto almeno un quarto di secolo. E l’arte — quella seria, quella degna di tal nome — che ha dovuto tacere in questo frattempo, si è venuta maturando ed evolvendo dentro gli spiriti eletti degli artisti, come si deve maturare ed evolvere il gusto del pubblico. In mezzo alle distrazioni tumultuose della cronaca quotidiana, davanti allo spettacolo vicino o lontano della distruzioneA e della morte, dell’ira selvaggia e della barbarie vanta dalica, l’arte non può a meno che venire raccogliendo l’espressione del grido violento, dello spasimo diuturno, grido e spasimo di chi sente la bellezza della vita e l’orrore dell’annientamento.

Perchè l’arte fu sempre l’espressione e la esalta [p. 275 modifica]zione della vita; fu sempre il desiderio di prolungare questo grande mistero dell’esistenza, cercando la vita nell’uomo e fuori dell’uomo, nel dolore e nel piacere, in tutto quello che potesse rappresentare il riflesso o farne godere la sensazione. Ora attraverso a nessun periodo storico, questo sentimento della vita fu mai tanto profondamente agitato; e raramente la storia dell’umanità ci ha presentata l’indagine dell’uomo così fatta acuta, incessante e penetrante nel fitto intrico, delle leggi intime delle sensazioni nostre come essa si trova nel momento storico nostro. Prima che la bufera fosse scatenata, noi avevamo già rilevati largamente questi atteggiamenti dello spirito e per conseguenza dell’arte. Non si cercava di essere sintetici: si voleva essere analitici. E poichè l’analisi è squisito diletto dei privilegiati, noi avevamo constatata la mancanza di un affiatamento fra gli artisti ed il grande pubblico. A quest’ultimo si concedeva l’industrialismo artistico, il commercio volgare, dalla pochade al cinematografo. L’arte vera e severa si faceva sempre più aristocratica, ma anche sempre più analiticamente profonda. Dal realismo, che cercava nel documento umano la base scientifica della ricerca delle leggi del;Macere e del dolore, e cioè della vita, si passava ad un simbolismo, che voleva tentare di cogliere queste leggi, e sorprenderle non più nell’individuo isolato, ma nelle analogie fra specie e specie di esseri, per ampliare la veduta e il campo dello studio. E da questo simbolismo si passava con tendenza evidente, allo spiritualismo, e cioè alla espressione di sentimenti che non erano più ritenuti espressione della materia, ma tendenze dello spirito. La poesia ritornava, non più sotto velami semplicemente formali, e con sti’izzazioni stucchevoli, ma co-, me bellezza intima di cose, a spiegare agli uomini il sorriso dell’esistenza. Precipitò la guerra, si scatenò il turbine, fu la distruzione violenta. E dopo? Dopo la guerra — e sia presto -- l’arte ripiglierà senza dubbio il suo corso, per forza e solo apparentemente interrotto. Ma lo ripiglierà con fervore rinnovato e con preparazione assai più profonda in mezzo ad una assai più larga massa di pubblico. E l’arte sarà la proclamatrice della pace, della serenità, della gioia, della vita. La Provvidenza ha fatto l’uomo facile all’oblio; le leggi sacre della natura perciò avranno la loro esplicazione, che a qualcuno parrà anche cinica e crudele. Si rimpiangeranno le migliaia e migliaia di vittime, si avrà terrore anche solo a ricordare il passato, come si ha terrore dopo la burrasca nel ricordare l’urto dei cavalloni e l’aspetto spaArentoso del mare e del cielo, ma l’anima tenderà ad una riposata calma; e dal dolore della morte si volgerà anche verso la gaiezza della vita. Fu così sempre nella storia dei popoli. Ricordiamo Virgilio, che tenta l’agreste camena, pur ricordando le guerre recenti: Tityre, tu patulae recubans sub tegtnine fagi,

Silvestrem tenui musam meditaris avena;. Nos patriae fines et dulcia linquimus arva, Nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra Formosam resonare doces Amaryllida silvas. Questo strano e pur logico contrasto si rinnoverà ai tempi nostri. L’arte nuova sarà l’espressione di chi è stanco d’affanni e cerca la cerulea immensità dei cieli; di chi fuor dal pelago dell’odio sospira alla bontà, alla carità, all’amore. L’arte si serve del Passato per esprimere l’avvenire; e noi vedremo come da questo torbido passato recente l’arte uscirà portandosi seco quanto ha potuto trovare di bello e di sacro. Contro la prepotenza degli uomini, contro le affermazioni tragiche della forza brutale, essa proclamerà il trionfo del diritto e del giusto, e forse esalterà il senso del divino, che troverà risvegliato nei cuori, e che matura oggi fra lo spavento e le lagrime, per arrecare domani consolazioni segrete e soavi. E troverà più largamente il pubblico pronto a cercarlo, a volerlo, ad accoglierlo, in tutta la sua forza di vita interiore. Perchè l’uragano che passa, distrugge molte utopie, molte superbie, molti sforzi di titani contro il Cielo. Si vede oggi e si rileva che non baessano leggi umane a tenere a freno i popoli con qualunque reggimento essi vivano. La necessità d’una legge che sia data agli uomini per grazia di Dio comincia a far brec-Aa sul consenso comune. La fratellanza di tutti, scomparsa d’un tratto, al primo rombo del cannone, si sentirà rinsaldata quando tutti i fratelli sentiranno la legge di un Padre che sta nei cieli.

L’arte sarà più largamente sentita in mezzo al pubblico anche perchè corrisponderà più direttamente ad un bisogno universale: la liberazione dell’incubo odierno che preme sopra di tutti, farà sì che tutti sentiranno più fortemente, più psicologicamente, più sottilmente la vita in quella sua più raffinata espressione. Restiamo in questo convincimento e auguriamoci che non sia un sogno ma che lo condividano tutti quelli che nel segreto maturano attualmente con dolorosa aspirazione e aspettazione la vita dello spirito per il domani. Abbiamo avuto nell’ultimo decennio uno stato di preparazione attiva delle intelligenze. L’Italia nostra pareva non producesse più grandi lavori, e gli artisti vecchi scomparivano, e i nuovi si annunciavano molto timidamente e con molti segni di incertezza. In vece di creare si è nell’ultimo decennio studiato. Abbiamo seguito con viva compiacenza l’affannosa ricerca di opere antiche, lo sforzo erudito di conoscere meglio la storia delle nostre glorie meno conosciute. Certi secoli prima disprezzati, e nei quali pure erano più vivi più sinceri i germi della nostra arte italiana, furono amorosamente fatti rivivere nella loro vera espressione di vita nazionale. Il problema economico troverà una momentanea sosta nella sua evoluzione, perchè la mano d’opera avrà più facile collocamento, e la patria nostra potrà [p. 276 modifica]meglio sorvegliare la sua emigrazione, affinchè rappresenti espansione e non rinnegamento. Le sensazioni acute che lo spettacolo orrendo ha lasciate nell’anima dei nostri artisti, fatti forti e pronti dai buoni studi, avranno bisogno di una esplicazione gloriosa. E speriamo perciò che, passata questa sanguinaria follia europea, sia l’Italia nostra a dare al Mondo l’arte novella dell’evo novello che si apre nella storia. L’arte è fatta di umanità e anzi dell’umanità è il fiore e prepara il frutto più delicato. Bisogna sperare per questo. Snob.