Il buon cuore - Anno XIV, n. 11 - 13 marzo 1915/Religione

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Vangelo della quarta Domenica di Quaresima

Testo del Vangelo.

In quel tempo, passando vide Gesù un uomo cieco dalla sua nascita; e i suoi discepoli gli domandarono: Maestro, di chi è stata la colpa, di costui, o dei suoi genitori, ch’ei sia nato cieco? Rispose Gesù: Nè egli, nè i suoi genitori han peccato; ma perchè in lui si manifestino le opere di Dio. Conviene, che io faccia le opere di lui, che mi ha mandato, fin tanto che è giorno; viene la notte, quando nessuno può operare. Sino a tanto che io sono nel mondo, sono luce del mondo, Ciò detto sputò in terra, e fece con lo sputo del fango e ne fece un empiastro sopra gli occhi di colui. E dissegli: Va, lavati nella piscina di Siloe ( parola che significa il Messo). Andò pertanto, e si lavò, e tornò che vedeva. Quindi è che i vicini, e quelli che l’avean prima veduto mendicare, dicevano: Non è questi colui, che si stava a sedere chiedendo la limosina? Altri dicevano, è desso. Altri, no, ma è uno, che lo somiglia. Ma egli diceva: Io son quel desso. Ed essi dicevangli: Come mai ti si sono aperti gli occhi? Rispose egli: Quell’uomo che si chiama Gesù, fece del fango e unse i miei occhi, e mi disse: Va alla piscina di Siloe e lavati. Sono andato, mi son lavato, e veggio. E allora gli dissero: Dov’è colui? Rispose: Nol so. Menano il già cieco ai Farisei Ed ira giorno di sabbato, quando Gesù fece quel fango, e aprì a lui gli occhi. Di nuovo adunque l’interrogavano anche i Farisei, in qual modo avesse ottenuto il vedere. Ed ei disse loro: Mise del fango sopra i miei occhi e mi lavai, e veggio. Dicevan perciò alcuni dei Farisei.: Non è da Dio quest’uomo, che non osserva il sabbato. Altri dicevano: Come può un uomo peccatore far tali prodigi? Ed erano tra loro in scissura. Dissero perciò di nuovo al cieco: Tu che dici di colui, che ti ha aperti gli occhi? Egli rispose loro: Che è un profeta. Non credettero però i Giudei, che egli fosse stato cieco e avesse ricevuto il vedere, sino a tanto che ebber chiamati i genitori dell’illuminato. E li interrogarono, dicendo: E’ questo quel vostro figliuolo, il quale dite che nacque cieco? come dunque ora ci vede? Risposer loro i genitori di lui, e dissero: Sappiamo che questi è nostro figliuolo, e che nacque cieco; come poi ora ei vegga, nol sappiamo; domandatene a lui, ha i suoi anni; parli egli da sè di quel che gli appartiene. Così parlarono i genitori di lui, perchè avevan paura dei Giudei; imperocchè avevan già decretato i Giudei, ché, se alcuno riconoscesse Gesù per il Cristo, fosse cacciato dalla sinagoga. Per questo dissero i genitori di lui.: Ha i suoi anni, domandatene a lui. Chiamarono (dunque di bel nuovo colui, che era stato cieco, e ali dissero: Dà gloria a Dio: noi sappiamo, che questo uomo è un uomo peccatore. Disse egli loro: Se ei sia pcecatore, nol so: questo solo io so, che io era cieco, e ora veggio. Gli dissero perciò: Che ti fece egli? Come a [p. 85 modifica]prì a te gli occhi? Risposero loro: Ve l’ho già detto, e l’avete udito: perchè volete sentirlo di nuovo? Volete forse diventar anche voi suoi discepoli? Ma essi lo strapazzarono, e dissero: Sii tu suo discepolo, quanto a noi siamo discepoli di Mosè. Noi sappiamo che a Mosè parlò Dio: ma costui non sappiamo donde ei sia. Rispose colui, e disse loro: E qui appunto sta la meraviglia, che voi non sapete, donde ei sia, ed ha egli aperti itniei occhi. Or sappiatno, che Dio non ode i peccatori: ma chi onora Dio e fa la sua volontà, questi è esaudito da Dio, non potrebbe far nulla. Gli risposero, e.dissero: Tu sei venuto al mondo ricoperto di peccati, e tu ci fai il maestro? E lo cacciarono fuora. Sentì dire Gesù, che lo avevan cacciato fuora, e avendolo incontrato, gli disse: Credi tu nel Figliuolo di Dio? Rispose quegli, e disse: Chi è egli Signore, affinchè io in lui creda? Dissegli Gesù: E lo hai veduto, e colui che teco parla, è quel desso. Allora quegli disse: Signore, io credo. E prostratosi lo adorò. (S. GIOVANNI Cap. 8).

Pensieri. Fra i molti dolori provati da Cristo, uno dei più gravi, dei più intimi, dei più profondi, fu quello dell’ingratitudine degli uomini; far del bene agli uomini, e vedersi.da essi disconosciuto, negato, perseguitato: con qual senso di profonda angoscia, egli, guardando dal colle Oliveto a Gerusalemme, esclama: Gerusalemute, Gerusalemme, quante volte ho cercato.11 n:ceni/ 114-re i tuoi figli, e tu s•on hai voluto! E gli scendevan le lagrime dagli occhi. Ma Gesù Cristo ebbe pure delle consolazioni. h: fra queste, dolcissima, la riconoscenza di alcune anime beneficate, la prontezza, la schietezza, la costanza, la serenità, colla quale esse corrisposero ai suoi benefici, riconoscendoli in faccia a tutti, anche quando tale confessione poteva costare ad essi contraddizione, disprezzo, persecuzioni. Simile consolazione ha recato a Cristo il cieco dell’odierno Vangelo. Risanato miracolosamente da Cristo, ricevuto da lui il dono della luce, egli non nasconde’ il fatto glorioso, dinnanzi a chi lo crede e a chi non lo vuol credere; ma lo confessa francamente, costantemente, serenamente in faccia a tutti, di nulla ’preoccupato se tale confessione incontri indifferenza, dubbi, denegazioni, insulti; la sua preoccupazione è una sola: esser schietto dinnanzi alla verità, essere riconoscente dinnanzi al beneficio’. Qual lezione per noi, non meno del cieco beneficati da Cristo! Egli ebbe la luce del corpo, noi quella più preziosa dell’anima.

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Gesù Cristo incontrò sulla via un uomo cieco fin dalla nascita, e gli Apostoli chiedono a Cristo: di chi è la colpa per cui quest’uomo è nato cieco? sua o dei Parenti? L’osservazione degli Apostoli è giusta e falsa; è giusta nel ritenere che tutto il màle fisico e morale che trovasi sulla terra ha per causa una colpa; è falsa nel determinare di chi sia la colpa.

Gesù Cristo risponde, rilevando una delle norme più alte e sublimi nel governo della Provvidenza divina nel mondo, che è quella di permettere il male per cavare da essa il bene. Nè egli, nè i parenti suoi peccarono; ma ciò avvenne perchè in lui si manifestino, le opere di Dio. E alle parole seguì tosto il fatto. Cristo sputò in terra, fece collo sputo del fango e ne fece un impiastro sopra gli occhi di colui, dicendogli: Va, lavati nella Piscina di Siloè. E quegli andò, si lavò,, e tornò che vedeva. La bontà e la potenza di Cristo sono palesi. Non cercato, egli accorda un beneficio, uno dei più grandi benefici nell’ordine dei beni materiali, il dono della vista; e per compierlo non si arresta dal fare un miracolo. Quanti beni Dio ha fatto anche a noi! Non siamo noi, e nell’ordine materiale e nell’ordine morale, tutto un suo beneficio vivente? Fra i molti beni, Dio non ci ha fatto quello che è maggior di tutti, di esser nati in grembo della Chiesa Cattolica, la Madre dei santi, •immagine della città superna, la Chiesa che ha la certezza dei beni presenti, che ha la promessa dei beni futuri? Quale è la nostra condotta dinnanzi a questi benefici, la nostra condotta nell’apprezzarli presso di noi, la nostra condotta nel proclamarli francamente in faccia agli altri?

Al fatto evidente della vista riacquistata, i vici. ni e clúelli che avevano veduto prima il cieco mendicare, facevano le meraviglie, e alcuni dicevano che fosse desso, altri che fosse un altro. Dinnanzi al dubbio espresso,,che cosa fece il cieco? Tergiversa nel ri-. spondere, per paura che lo si metta in ridicolo, per timore che si neghi il fatto che a lui è realmente avvenuto? No; dichiara francamente: sono io quel desso. Siamo noi sempre, ed egualmente pronti, in faccio a tutti a dire: io sono cristiano? Dissipato il dubbio del fatto, nasce il dubbio sul modo col quale il fatto è compiuto. La disposizione avversa a riconoscere i miracoli è comune negli uomini„ specialmente in quelli che si credono istruiti: Nè neghiamo che sia disposizione pef sè riprovevole. Constatare se una cosa è vera, specialmente una cosa che esce dall’ordine comune, è dovere, è rispetto alla coscienza e alla verità. Ciò che è riprovevole è la esagerazione di questa disposizione, è il non ammettere a priori che i miracoli ci siano. Questa disposizione crea un ambiente di diffidenza, di incredulità, che rende assai difficile la pogizione del credente, perchè per credere e tenere.ferma e alta la propria fede deve combattere contro chi la mette in dubbio e la nega; ci vuol del coraggio, ci vuol della franchezza. E’ il coraggio, è la franchezza, che ebbe il cieco. La causa che lo rese veggente è miracolosa; egli non la discute; è un fatto: basta. I fatti si espongono per quello che sono. A Dio nulla è impossibile. [p. 86 modifica]Le difficoltà dell’affermazione della fede crescevano. I vicini, non persuasi dell’asserzione del cieco, lo conducono dai Farisei. Erano i maestri riconosciuti, quelli nei quali si trovava riunita come una doppia scienza, la scienza divina e la scienza umana. Essi interrogano il cieco sul fatto avvenuto. Il cieco, sebbene si accorga di trovarsi dinnanzi ad animi mal disposti, risponde semplice e chiaro, affermando il fatto miracoloso. Essi cominciano a sollevare dubbi sulla liceità del fatto, essendo stato compiuto in sabato, giorno di assoluto riposo, e poi chiedono al cieco: Tu che dici di colui che ti ha aperto gli occhi? Il cieco risponde: E’ un profeta. Profeta non vuol dire Dio, ma un rappresentandi Dio: non è ancor la fede completa; è la fede iniziale. Qui nasce un incidente assai frequente nella storia delle umane debolezze, ma che per contrasto fa risaltare maggiormente la forza ed il merito delle persone che hanno il coraggio della loro fede, e la franchezza di attestarla in faccia a chiunque. I Farisei, non persuasi delle affermazioni del cieco, lo lasciano in disparte, e mandando a chiamare i suoi parenti, e chiedono ad essi: è questo vostro figliuolo? è vero che è nato cieco? come dunque ora ci vede? I genitori sapevano benissimo che era loro figliuolo, che era nato cieco, che ora è veggente, sapevano benissimo, che la vista l’aveva ricuperata in modo non naturale, ma miracoloso; il figlio lo aveva loro attestato; nessuno meglio di loro poteva confermarlo; la gioia che per tale fatto era tanto naturale e giusta in loro, doveva spingerli non solo a confermare l’asserzione del figlio, ma ad esaltarla e glorificarla... invece rispondono, e non rispondono; sì è nostro figlio; sì era cieco; sì ora ci vede; ma come ora vi cede noi non sappiamo; domandate a lui; ha i suoi anni. Il Vangelo aggiunge: così parlarono i genitori di lui, perchè avevan paura dei Giudei, avendo essi già decretato che chiunque credesse in Cristo venisse cacciato dalla Sinagoga. Quanto frequente è questo fatto anche in mezzo di noi! Quanti che sono cresciuti nella vera fede, che hanno la fede nel loro cuore, che sentono essere la fede il massimo dei benefici e il massimo dei doveri, che vogliono vivere e morire nella fede, che riconoscono, quanto sarebbe nobile e grande il professarla francamente in faccia a tutti, pure indietreggiano, si fanno piccoli, si lasciano imporre dalla insolenza, dalla prepotenza degli increduli, da lasciar supporre quasi che anch’essi siano del loro numero, e ciò per la paura di essere da essi disprezzati, condannati, boicottati! La paura degli uomini, e talvolta quali uomini! vale più del rispetto della verità e di Dio; la parola di un giornalista vale più della parola di Cristo! Quale viltà, quale ingratitudine!

Tale non è la condotta del cieco. Egli è richiamato dinnanzi ai Farisei; essi credono di intimidirlo, col ricordo solenne della loro autorità, di essere discepoli di Mosè, che non sanno chi sia l’uomo che lo ha risanato.... Il cieco che prima era stato franco, ora è trionfante; il vedersi richiamato è per lui una prova che i Farisei non sono sicuri del fatto loro, che vorrebbero imporgli con dei paroloni: egli non fa che richiamarsi al fatto; niente è più cocciuto di un fatto, dice il proverbio; è anzi col richiamo del fatto ch’egli demolisce tutte le loro contrarie asserzioni:.qui sta appunto la meraviglia che voi non sapete donde sia, ed ha aperto i miei occhi; dacchè mondo è mondo, non si è udito che alcuno abbia aperti gli occhi a un cieco nato;.m questi non fosse da Dio non potrebbe far nulla. In queste parole del cieco è tutta la teorica della fede cristiana: la fede cristiana è appoggiata a dei fatti. Che rispondono i farisei? Tu sei venuto al mondo pieno di peccati, e vuoi farci il maestro? E lo cacciaron fuori. E’ quello che rispondono, contro il fatto del cristianesimo, gli attuali increduli. Non potendo distruggere, il fatto, si appigliano agli insulti, alle villanie: danno ai credenti del cretino, dell’ignorante, del menzognero, del superstizioso, e li cacciaron fuori, o almeno vorrebbero cacciarli fuori dal comune consorzio, dalle scuole, dai municipi, dal parlamento, da tutta la vita sociale. Ignoranti, superstiziosi, i discendenti di Dante, di Galileo, di Volta, di Manzoni! Il cieco ricevette subito da Cristo il premio della sua franca e serena professione di fede. Avendo saputo che i Farisei lo avevano cacciato fuori, incontratolo gli disse: Credi tu nel Figliuolo di Dio? Rispose il cieco: chi è egli, o Signore, affinchè in lui creda? Disse Gesù: è colui che tu hai veduto poco fa, è colui che teco parla; sono io. Il cieco aveva già creduto in Cristo come Profeta, come mandato di Dio; ora è dinnanzi a Cristo che si chiama Figlio di Dio; le ragioni che provavano la prima qualifica, provavano la verità della seconda pronto e franco prima, non è meno franco e pronto adesso: alle parole di Cristo risponde: Signore, io credo! E prostratosi l’adorò. Che gioia dovette provare Cristo dinnanzi a questa esplicita dichiarazione di riconoscenza e di fede! Che gioia dovette provare il cieco dinnanzi all’acquisto della doppia luce, la luce dell’occhio, la luce della mente; la vista, la fede! Queste due gioie possono essere procurate e ottenute anche da noi. Colla professione della nostra fede procuriamo innanzi tutto la gioia al cuor di Cristo, nel riconoscere la sua divinità: che gioia il poter recar questa gioia! Cristo, alla sua volta, procurerà a noi, non una, ma due gioie:; una, e ben dol [p. 87 modifica]ce, e ben cara, ce l’ha già procurata, e ce la procura colla fede che pose e mantiene nel nostro cuore; l’altra, e ben viva, ben gloriosa, è quella che ci procurerà quel giorno nel quale presentandoci al Padre dirà: costui non si è vergognato di me dinnanzi agli uomini, anch’io non mi vergogno di lui dinnanzi a voi, o Padre mio. La parola di Cristo al Padre sarà per noi il cielo.

L. V.

L’è ora de finilla!

L’è ora de finilla! Avii capii? O mazzador de tanta bella gent. Ve sentii minga in coeur on gran torment, Pensand a tutt quj mort, a quj ferii? Perchè la bella forza che g’havii La doperee per fa el prepotent? N’anca on barlumm g’havii de sentiment? Propi nagott in l’anima sentii? Al post del voster coeur g’havii on gran sass. Sui spall g’havii on crapon scombussolai,, Ch’el sping tanti bei giovin a mazzass! Gh’aziii in di vena on microbo birbon Che de fa di malann l’è mai saziaa! Per desfesciall? Mandav tutt duu al foppon. FEDERICO Bussi.

I Signori del Sahara Ben poco sí sa di ciò che riguarda i Tuareg, questi abitatori dello sconfinato Sahara i quali, nonostante i trattati europei ed a dispetto della influenza francese e dell’opera dei nostri ufficiali, sono ancora i veri dominatori di quel deserto, di un territorio, cioè, la cui superficie misura quasi metà di quella degli Stati Uniti. Questa popolazione bianca di colore e generalmente civile, appartiene etnograficamente alla cosidetta razza caucasica, razza originaria di quella parte dell’Africa che si estende a nord del Sudan, e di quell’epoca in cui il Sahara era una regione sommamente fertile, coperta qua e là di paludi e intersecata da grandi fiumi. Di questa razza, a dire degli scienziati, erano anche i nostri antenati, e il ramo mediter,

raneo di essa al quale appartengono i Tuareg, è strettamente affine ai rami iberico, corsico, italico e greco. Probabilmente per il fatto che, mentre la parte settentrionale dell’Africa sempre più inaridiva, più scarso nutrimento essa offriva ai suoi abitatori, questi rami europei della razza caucasica in tempi sconosciuti a noi lasciarono ’in migrazioni successive la loro regione, e si stabilirono nelle terre più fertili poste a nord del Mediterraneo, ove in più, favorevoli condizioni di clima e di suolo rapidamente si accrebbero e si civilizzarono. I Tuareg, tuttavia, rimasero fedeli alla terra nativa, alla loro regione che a poco a poco divenne ciò ch’essa è ora, uno dei più vasti e desolati deserti sparsi sulla faccia del globo. Così è che i Tuareg ancora mantengono le caratteristiche fisiche e le qualità intellettuali della razza da cui derivano, e il loro metodo di vita, stante la natura del territorio ch’essi abitano, è del tutto differente da quello dei loro più civili cugini di Europa. Anch’essi, però, sono civili al punto da sapere quasi tutti leggere e scrivere nella propria lingua, detta Tamahak; molti, inoltre, conoscono l’arabo, e alcuni parlano anche un linguaggio sudanese. L’aridità del Sahara costringe i Tuareg a condurre senza tregua una vita nomade in cerca della scarsa quantità di acqua e pascoli, di cui possano nutrirsi gli armenti che formano la loro unica risorsa. Essendo un popolo estremamente povero, essi suppliscono alla scarsità di alimento fornito loro dal nroprio bestiame o depredando i loro vicini o servendo come guide e difensori alle carovane che attraversano il territorio della tribù alla quale essi appartengono. Le ricche carovane, che composte ancora talvolta di oltre duemila carrelli carichi di merci, traversano il Sahara, offrono, passando per la zona abitata da una tribù rivale, un’esca troppo attraente a quei nomadi senza legge, e ben raramente avviene di attraversare il deserto senza avere almeno un serio scontro con quei formidabili predoni. Gli Arabi con dottieri di camelli, benchè all’occasione valorosissimi, per nessun conto vorrebbero avventurarsi nel territorio dei Tuareg, senza venir prima a patti con i capi delle tribù in mezzo alle quali debbono passare, e senza pagare il prezzo da essi richiesto, per averne un salvacondotto e protezione entro i limiti della loro zona. Grazie tuttavia, alla occupazione francese della parte settentrionale del Sahara, le vie che conducono in Algeria sono divenute relativamente sicure. Speriamo che presto si possa dire altrettanto delle vie che conducono al Fezzan ed in Tripolitanià. Tutti gli uomini Tuareg nascondono i loro volti con maschere di cotone generalmente nere, e si tolgono mai la maschera neppure in seno alla propria famiglia. Qualunque sia l’origine di questa usanza, certo è che essa offre i suoi vantaggi in un clima come quello del Sahara. Per questa loro specialità e [p. 88 modifica]per la loro tendenza al brigantaggio i Tuareg sono conosciuti in tutta l’Africa settentrionale col nome di «predoni mascherati del Sahara». Ma, come tutti gli uomini, anche i Tuareg sono composti di bene e di ’male. Le loro buone qualità in nessun modo rifulgono così brillantemente come nella loro condotta verso la donna, condotta che sotto certi aspetti ricorda i costumi romantici e cavallereschi dell’Europa feudale. Il valoroso giovanetto Tuareg, seduto sul suo camello, armato di spada, pugnale e lancia, vaga per il Sahara come un antico cavaliere errante, guidando e proteggendo le carovane che si affidarono alla sua tribù, vendicando e riparando i torti fatti ai suoi servi ed ai suoi schiavi, e per coprirsi di gloria, o per conquistare con le sue rapine una sostanza che gli permetta di farsi una famiglia. Quando i guerrieri Tuareg tornano alle loro famiglie per deporre ai piedi delle mogli il bottino raccolto nelle loro scorrerie, le donne.dell’accampamento si affrettano incontro ad essi, cantano con accompagnamento di chitarra, canti di vittoria e odi improvvisate in omaggio di quegli eroi. Se la scorre

ria è stata molto fruttifera, l’intera comunità si abbandona a grandi feste che si protraggono per parecchi giorni.