Il buon cuore - Anno XIII, n. 41 - 12 dicembre 1914/Educazione Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 41 - 12 dicembre 1914 Religione

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Di notte su la Specola Vaticana

;: :: :: passando in rivista il firmamento

La cometa Delavan - I crateri della luna - Giove e i suoi satelliti - La Pleiadi - Capella - Il passaggio dl Mercurio innanzi al sole.


Sotto l’androne massiccio che da S. Marta conduce al cortile di S. Damaso, la guardia svizzera passeggia pesantemente; un’altra, alla luce di una lanterna che pende innanzi al corpo di guardia, legge avidamente forse le ultime notizie della guerra.

Varchiamo il portone semichiuso, non senza un qualche stupore della guardia. E’ notte; fuori il cielo è stellato, ma cupo ed umido.

— Questa nebbia che si solleva dall’orizzonte ci procurerà qualche sgradita sorpresa — mi dice la mia cortese guida, impedendoci forse di poter osservare dettagliatamente la cometa Delavan.

La guida cortese che mi accompagna nella visita alla Specola Vaticana è il mio ottimo amico prof. Pio Emanuelli, al quale debbo il piacere di aver potuto esaminare di notte il glorioso osservatorio.

Il prof. Emanuelli mi aveva invitato ad osservare dall’alto della Specola Vaticana la cometa Delavan, che, com’è noto, ha fatto la sua comparsa in questi giorni.

— La cometa, — mi dice l’Emanuelli, mentre attraversiamo la strada che conduce ai Musei, — si vede ogni sera a cominciare da tre quarti d’ora

dopo il tramonto del sole fino verso le 9 pomeridiane.

Entriamo nei giardini per una porticina praticata nel muro di cinta. Tutt’intorno il più profondo silenzio: la luna, che risplende ad ovest, disegna una lunga teoria di strani fantasmi tra gli alberi secolari dei viali.

Giriamo intorno alla fontana detta dell’Aquilone e siamo innanzi al primo caseggiato della Specola. La palazzina è tutta profondata in mezzo al verde folto degli alberi; vicina ad essa una cappellina dalle piccole finestre a sesto acuto; vi si prega; le piccole finestre sono illuminate d’una luce fioca, raccolta.

La Specola

Il primo padiglione della Specola più grande degli altri quattro, si erge a fianco d’uno dei torrioni maestosi che mille anni fa sorsero a difesa contro i Saraceni e che conservano ancora la maschia ossatura medioevale.

La palazzina è di data recente; essa fu fatta edificare da Leone XIII che amava passarvi i mesi più caldi dell’estate: Il suo successore Pio X volle invece farne generosa donazione alla Specola, la quale trasportò colà, dalla primitiva torre Gregoriana, la biblioteca e gli uffici di osservazione.

Nella prima delle torri vi è un rifrattore visuale con obiettivo, oculari e microscopi della famosa casa tedesca di Merz, con il quale il P. Hagen, l’illustre direttore della Specola, eseguisce importanti lavori di astronomia stellare; nell’altra vi è l’equatoriale fotografico con cui il P. Lais attende da circa 25 anni al grandioso lavoro della carta fotografica del cielo. V’è poi, a mezza strada tra le due grandi torri, una piccola torre di forma semicircolare contenente un cannocchiale di 16 cm. Infine altri due padiglioni esistono a poca distanza, in uno dei quali è racchiuso un eliografo (strumento per le fotografie del sole); nell’altro un meridiano.

Le due grandi torri sono unite da un comodo ponte di ferro sospeso, al di sopra dei viali, che allaccia naturalmente anche il terzo padiglione dove è installato il cannocchiale di 16 cm. [p. 322 modifica]E così, da queste torri dove un tempo si combatteva con archi e con balestre e poi con colubrine.e con spingarde, oggi si puntano potenti cannocchiali verso il cielo e si studiano le meraviglie dell’universo! Uno spettacolo superbo Saliamo la scala a spirale che dalla palazzina conduce alle prime torri. Uno spettacolo superbo, indimenticabile si offre ai miei occhi. Sotto un cielo trapunto di stelle, cullata quasi timidamente al pallore lunare, Roma si stende ai miei piedi con tutto lo spettacolo fantastico delle sue mille luci, tremolanti, indistinte, che nella lontananza oscura sembrano lucciole erranti nella notte. E a volte pare che un immenso riflettore gigante lanci i suoi fasci vividi sulla città sottostante, dove la vita febbrile del giorno dà gli ultimi segni, con gli stridii dei trams e i suoni assonati degli ultimi organini. Ma vicina giganteggia la cupola di Michelangelo, lanciata nell’immensa oscurità, non profanata da alcuna luce indiscreta che ne turbi il mistico raccoglimento. E una gran macchia oscura sono al pari i giardini che ora domino dall’alto della torre e dove si ode solo di tanto in tanto il passo cadenzato del gendarme che vigila. Nient’altro; io sono entrato ora nel santuario più riposto della scienza. Ecco la cometa! In alto le costellazioni splendono della loro luce tranquilla; il mio buon amico mi indica qualcuna di esse: ecco il quadrato di Pegaso, la costellazione di Andremeda, Cassiopea, l’Orsa Minore, l’Orsa Maggiore Non vedi ora nulla d’insolito — mi dice d’un tratto l’Emanuelli — sotto la coda dell’Orsa Maggiore? Io fisso le sguardo nel punto del cielo indicatomi e scorgo facilmente una stella opaca, simile ad una piccola chiazza bianca, seguita da una coda. E’ la cometa Delavan: ora la vedrai meglio col cannocchiale. L’astro capelluto non è molto alto sull’orizzonte e si trova a poca distanza della stella chiamata Arturo. Traversiamo il primo ponte sospeso — fatto costruire dalla munificenza di Pio X — che conduce alla piccola torre che è nel mezzo tra i due grandi torrioni laterali e dove si trova mi magnifico cannocchiale. Lo strumento, che è molto buono e preciso, è posto parallatticamente sotto una cupola girevole. Il prof. Emanuelli apre il Fettore della oupola, punta il cannocchiale e, dopo al( uni momenti necessari per la ricerca dell’astro, esclama: Ecco la cometa! E’ bellissima; ha un `nucleo perfettamente stellare ed una coda abbastanza lunga: vieni a vedere. Mi avvicino al cannocchiale e pongo l’occhio all’oculare.

La visione, sia pure per l’occhio di un profano, è. magnifica. Sembra di vedere un gran fascio di luce emanata da un riflettore. Scorgo con facilità, pur non essendo abituato a simili osservazioni, il nucleo che appare simile ad una stella, circondata da una nebulosità che i tecnici denominano chioma. Questa — mi dice il prof. Emanuelli — è la cometa Delevan, scoperta l’anno scorso, il 17 dicembre, dall’astronomo americano Pablo T. Delavan, dell’Osservatorio, di La Plata, nella Repubblica Argentina. Secondo i calcoli dell’astronomo belga Felix de Ray — mio carissimo amico e del quale non ho più notizie dalla presa di Anversa colcoli confermati dal nostro illustre Millosevich, direttore dell’Osservatorio del Collegio Romano — la cometa Delavan potrà vedersi fino al 1918 con un equatoriale cioè simile a quello che possediamo noi. Questo è un caso eccezionalissimo in astronomia. E ad occhio nudo fino a quando si vedrà? Fino al 1915. Presentemente la cometa si trova nella costellazione chiamata Cani Levrieri, poi entrerà in quella del Bifolco e poi in quella del Serpente. Ma ancora per pochi giorni potrà ’vedersi la sera, perchè in seguito non si potrà osservare che la mattina prima del levar del sole. E quando scomparirà? — Questa — mi risponde il prof. Emanuelli — è una domanda alla quale è molto difficile dare una risposta. Sino ad ora, e per quel che è a mia conoscenza, sono state calcolate tre orbite della cometa Delavan: una nell’ipotesi che descriva la parabola e una terza nell’ipotesi che descriva l’iperbole. Le osservazioni si accordano molto con l’orbita parabolica calcolata dall’astronomo Van Biesbroeck, ma questo non significa che l’orbita descritta dalla cometa sia realmente la parabola. Se descrivesse una parabola non ritornerebbe più: potrebbe tornare in vista dei popoli della terra, solo se essa percorresse la ellisse. E dove andrebbe? Nello spazio. siderale forse, di sistema in sistema. (Continua)

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Un aneddoto sconosciuto di Yitt, Emanuele II narrato dal Ministro Visconti Venosta. Questo aneddoto mi venne raccontato alcuni anni or sono, sotto condizione del silenzio, dall’amico Abate Giulio Tarra, al quale l’aveva confidato il Ministro Emilio Visconti Venosta, suo cugino per parte di madre. L’aneddoto risale all’epoca fortunosa dell’andata degli italiani a Roma. Viscoiti’ Venosta era allora ministro degli Affari Esteri. Era vivamente agitata in quei giorni la questione se l’Italia dovesse o non dovesse andare a Roma. [p. 323 modifica]In forza della Convenzione del Settembre 1864, l’Italia, trasportando la Capitale da Torino a Firenze, si era obbligata, in corrispettivo della partenza delle truppe francesi da Roma, di non violare i confini dello Stato Pontificio, e in questo senso il Ministro Visconti Venosta, interpellato in Parlamento, aveva dichiarato che i trattati si opponevano a quella violazione, e i trattati sarebbero stati rispettati. Visconti Venosta non voleva dire con ciò che l’Italia non dovesse andare a Roma: l’andata a Roma era nella coscienza di tutti gli italiani, e innanzi tutti, di Visconti Venosta, l’antico discepolo di Mazzini e di Cavour: la capitale portata a Firenze voleva dire non rinuncia a Roma, ma sosta sulla via di Roma. La diversità fra i ’diversi partiti era soltanto nei mezzi. Chi voleva andare a Roma coi mezzi rivoluzionari, come aveva tentato Garibaldi nel 1867 a Mentana, coll’immediata conseguenza di far tornare i Francesi a Roma, e di far pronunciare nel Corpo Legislativo a Parigi, dal Ministro Rhouèr,la famosa parola, parlandosi dell’andata degli italiani a Roma:• Jamais! Chi voleva invece andare a Roma coi mezzi morali, e precisamente col consenso del Papa, come già si era stati sul punto di ottenere nel 1861, colle trattative segrete fra il Conte di Cavour e il Cardinale Antonelli, l’Abate Isaia e il Padre Passaglia, trattative bruscamente abortite e disdette per la improvvisa morte di Cavour. Questa disposizione d’animo di ravvicinamento tra il Governo Italiano e la Santa Sede, era sempre stata latente: Pio IX voleva bene all’Italia, e l’Italia; malgrado la lotta momentanea, non dimenticava che Pio IX, coll’amnistia politica del 1846, aveva dato il primo segnale del risorgimento nazionale, e aspettava, con speranza non mai perduta, che Pio IX ritirasse per l’andata a Roma, il fatale non possumus. Si era alla vigilia del 20 Settembre 187o. Il presidio francese, in seguito alla sconfitta di Sedan, si era ritirato da Roma. Vittorio Emanuele II, come era il voto suo e di tutta la nazione, avrebbe voluto andar subito a Roma, ma non voleva andarvi contro il volere del Papa. Piuttosto che recare dispiacere al vecchio Pontefice, al quale lo legava un senso di venerazione, si sentiva disposto a qualunque sacrificio. Ma se non andava, la rivoluzione nel Paese era inevitabile: Mentana si sarebbe ripetuta in maggiori proporzioni. A qual partito si appiglia Vittorio Emanuele? Scrive, di suo pugno, al Papa, le seguenti parole: Santità, vengo o abdico? Vittorio Emanuele volle essere ben certo che la sua lettera fosse pervenuta nelle mani del Papa. Pio IX, leggendola, avrebbe dovuto rispondere una di queste due parole: venite,.... o abdicate. La risposta non venne. Pio IX non aveva dato l’assenso di venire, ma non aveva neanche consigliato a Vittorio Emanuele di abdicare, piuttosto che venire a Roma. Vittorio Emanuele, nell’urgenza della decisione, interpretò il silenzio in assenso, e, senza abdica 323

re, lasciò che il Generale Cadorna proseguisse pel suo cammino. In tal modo le.truppe italiane entrarono in Roma. Questo aneddoto, rimasto sconosciuto a tutti, non poteva essere ignorato da colui che al momento era il ministro responsabile del governo di Vittorio Emanuele per gli affari esteri. L. VITALI.