Il buon cuore - Anno XIII, n. 38 - 21 novembre 1914/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 38 - 21 novembre 1914 Religione

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PERGOLESI


Vi sono alcuni uomini i cui nomi appartengono alla storia ed a cui la tradizione dei popoli ha assegnato, non si sa per quale fenomeno di errore collettivo, un posto infinitamente maggiore di essi o li ha perpetrati nella fama di valori, ad essi quasi estranei o in essi assai limitati; gli anni passano, il tempo sembra non curarsi degli errori umani (non è forse la verità negata al nostro spirito affannato di ricerca angosciosa?) e il mondo continua a lasciare, gli idoli sui loro piedestalli, forse anche un po’ per inerzia, per non far la fatica di abbatterli; allora un bel giorno viene la critica, vecchia petulante occhialuta, esamina, studia, anatomizza, e a traverso una rete di ragionamenti e di analisi quanto mai logiche, arriva alla conquista della verità e... non mette a posto nulla; tanto è vero che nel motore della vita universale vale più una gocciolo di fede vera che una sorgente di verità arida e categorica.

Del resto non è il caso questo di Gian Battista Pergolesi; egli è e resterà per noi e per le seguenti generazioni, l’immortale cantore dello Stabat; avrà cioè conquistato diritto all’immortalità della fama proprio per quello che anche dinanzi alla critica, nell’opera sua, conserva il maggior valore; ecco quindi un caso di vero e proprio parallelismo tra le forze che costituiscono la superiorità di un’epoca d’arte: intensità di vibrazione tale che dia senso di vasta e piena umanità, e intensità di espressio, ne tale che irradii il sentimento della bellezza.

Per quali occulti motivi il Pergolesi, il quale

la sua attività creatrice a traverso tutte le forme più diverse, dall’opera buffa alla composizione sacra e alla sonata da camera abbia raggiunto la più perfetta e potente espressione proprio nella musica religiosa o per lo meno in una pagina sorta per ispirazione sopra un dramma religioso, qual’è lo Stabat, panni interessante ricercare.

A me sembra che nella figurazione e nell’anima della terra dov’egli nacque e crebbe possa trovarsi ed idealmente ricostruirsi l’anima musicale di questo fanciullo la cui breve vita non fu che musica, breve ma eterna nota nell’eterna sinfonia del creato; terra augurale, questa parte del centro d’Italia che doveva poco dopo dare al mondo altri due colossi della musica: Rossini e Spontini, che con il Pergolesi formano una così luminosa trinità; terra di pace, di fecondità e di lavoro, a specchio del mar senza tramonti; dove tra l’ondulazione dolce dei colli che sembrano inseguirsi in agile corsa, e l’incurvarsi delle valli erbose e l’insinuarsi delle acque correnti, il lavoro dell’uomo, mentre si compie sotto l’occhio di Dio tra il miracolo eterno delle notti e dei giorni, delle stagioni amiche e nemiche, non appare mai quasi castigo o dotta o maledizione, ma concepimento di una legge dolce e necessaria.

E quanto più si pensa, tanto più sublime ap, pare il miracolo di certe armonie dentro forma di umana vita, le quali si librarono sul dissonante fragore del mondo e fecero tanto silenzio intorno a sè, per riempirlo poi della Icíro risonanza.

Ora non so se per ideale analogia di immagini spirituali e per associazione di luoghi, mi vien fatto di pensare al Poverello di Assisi che tanta musica espresse dal silenzio armonioso della sua mirabile vita e così nel silenzio dell’uno, come nel canto dell’altro, fratelli in ispirito a distanza di secoli, mi pare di poter cogliere il punto di contatto che li accomuna oggi nella fiamma della commossa evocazione, e non saprei chiamarla se non purità.

Sì, questo ponte ideale, gettato al disopra dei fragorosi abissi del tempo e della vita, può da solo riunire idealmente due perfette espressioni di vita e d’arte; purità senza macchia, che dà alle loro veci [p. 298 modifica]una freschezza d’erba appena nata, odore di rugiada raccoglientesi a sera sui bocci e sugli steli mentre l’ombra scende nella valle a (passi taciti e sui monti scivola l’ultimo raggio stanco. Ora vedete: come nel Serafico l’idea del dolore è trausumanata si che ogni scoria, direi quasi, di umanità è caduta da essa come vecchia scorza da un tronco, e tutta la forza dell’estasi muove il volo dal supremo dolore nell’ebbrezza di una visione assolata di gioia; vedete come tutti i fenomeni e tutte le forze nemiche e distruttrici della vita cosmica perdono il loro potere contro lo spirito umano vittorioso, e quasi inconscio di tanta vittoria. e si ritrovano anzi affratellate con il loro nemico naturale. O mia sorella Morte!... niente è contro l’uomo che sa veramente amare; egli doma la natura e la vita coll’amore, e la belva che fatta mite, viene a lambire il piede al solitario e a mangiare nella sua scodella, è l’eterno simbolo di questa sublime verità. Amore nel senso più vasto e più alto della parola può dirsi essere l’anima del canto purissimo di Pergolesi. Quando ascoltate lo Stabat, questa drammati— ca descrizione della più gran3e tragedia del mondo, non potrà non sorprendervi questa semplice e commovente ingenuità che potè stabilire un così forte contrasto tra la forma di espressione e la visione tragica d’onde tale forma scaturisce. Sproporzione! Forse, ma sproporzione che ritrovasi in ’tutti i primitivi e che non va a scapito di, nulla, che anzi, lungi dal togliere efficacia alla loro espressione, aggiunge un godimento strano e soave alla nostra ammirazione; e Pergolesi se non proprio possa considerarsi come un primitivo nella sua arte, certo dei primitivi ha in sè tali caratteri da non poterlo staccare.da quelli; è un po’ il casodel Beato Angelico, il quale però fu un anacronismo costante in tutta la sua produzione, mentre il Pergolesi sente tale sproporzione nello Stabat. E infatti, se si pensa all’espressione piena, completa, potente dell’anima religiosa dei cinquecentisti, primo fra tutti il grandissimo Palestrina, sembrerà assai minore questa voce tenue e commossa, quasi infantile o femminile, avente in sè qualche cosa di così fragile e puro, di così passionatamente vivo che ci arrida al cuore direttamente, e se non ci lascia così pieni di risonanze tragiche e possenti, o così scossi cóme l’altra voce, la più forte, tuttavia il nostro cuore ne resta gonfio di tenerezza e di riconoscenza per chi seppe ridestare in noi tanta freschezza-di suoni e di profumi. C’è in questa musica dolorosa, ma n6n mai spasmodica del Pergolesi, una evidentissima corrispondenza di carattere con la ingenuità’ e la semplicità così espressiva del testo; corrispondenza di stile, dovuta certo a sola coincidenza; analogia di natura, non già virtuosismo di forma; e perciò aggiunge valore e sapore all’opera. La quale resta pur

sempre una delle pagine di musica — mi sia lecito l’attributo — più profumate che si conoscano. Che cosa è dunque questo soffio che traversando l’anima del giovane musicista, dalla balda espressione della sua pienezza di vita e dalla colorita sensualità, quale si manifesta nelle altre opere, o dal facile riso e dalla gaiezza spensierata di una gioventù appena sbocciata, lo sp;nse a così sincero accento di tenerezza triste, di nostalgica brama, di mistico ardore? Forse una sera, mentre dalla finestra di una umile stanzetta, quando il sole è calato e la notte non è scesa ancora, e il pigolio delle rondini inseguentisi per il cielo diviene più acuto e assordante, con l’ombra che scendeva, ei vide entrare nello spazio breve, lungo la parete grigia, (il fantasma freddo della Nemica che lo aspettava all’agguato, e sentì aderire alla schiena, come uno straccio umido, i•l suo abbraccio fatale e irrimediabile.... e come il condannato che ode chiuder sopra si sè l’ultima porta, con la speranza sente poi tutto l’orrore cadere a poco, a poco dallo spirito attonito: così egli forse, mentre idealmente tendeva le labbra al terribile bacio, sentì nella ’bocca un sapore di pianto che era pieno di una durezza nuova; e non il dolore amaro dell’oppresso e del vinto, non l’esaltazione del visionario e neppure la compassione sovrumana di Dio pei poveri uomini sentì passare nel suo cuore gonfio, ma il ddlore umano, infinito, dolcissimo della madre; egli, che cosa era ormai se non un fanciullo bisognoso ancora della madre nel mondo, se non un fanciullo sperduto,nella via della vita, che la Morte veniva a raccogliere sotto il suo mantello umido; la Morte che viene quando vuole e che non sceglie nè la vittima, nè il luogo, nè l’ora?..

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E’ difficile affermare quale posto nella storia della musica avrebbe potuto occupare il Pergolesi se non fosse morto all’età di ventisei anni. Quello che di lui resta, sopravvive per sola forza propria, intensità di vibrazione non comune, testimonianza di una sensibilità superiore, e di una purezza rara. Ma nato in un momento in cui la musica, distolta dal sentimento religioso dei cinquecentisti per opera del melodramma, cominciava ad orientarsi verso quella sensualità che doveva poi degenerare in frivolità e costituirne la decadenza, egli, dall’indirizzo e dalla forza dei tempi trascinato alle forme di espressione correnti non aveva potuto e saputo produrre che della musica colorita e piacevole; quando il suo spirito vero si rivelò a sè stesso, la morte troncò la sua voce. Lo Stabat sta lì come una mano appoggiata sopra la maniglia di una porta; ma la mano è inerte e fredda; che cosa c’era dietro la porta? Non si può dire di lui quel che si può a ragione indurre di Bellini; che cioè egli avesse esaurita o quasi la sua energia creativa; almeno affermare si può che l’opera di Bellini quale ci rimane, basta a darci la figura completa del grande musicista, in Per [p. 299 modifica]golesi no; quel che resta non può essere considerato che come un primo periodo di maturazione del suo ingegno, sino allo «Stabat» il quale inizia, e purtroppo compiè, periodo della maturità. Non mai la morte compì opera di maggiore devastazione. Mentre in Gemania il culto della forma si andava sviluppando rapidamente per opera dei sinfonisti e degli scrittori di cembalo, quali i figli di Sebastiano Bach, e si preparava la riforma gigantesca di Cristoforo Gluck nel campo drammatico teatrale, e in Italia l’èra dei sinfOnisti si iniziava,coi due Sanmartini. il Locatelli, il Porpora; Pergolesi avrebbe potuto sviluppare chi sa quanti germi della sua produttività e rappresentare chissà quale fulgida eccezione in mezzo a tanto fulgore di ingegni. Ma egli moriva fanciullo e il suo «Stabat» il quale come interpretazione drammatica di testi sacri, può esser avvicinato ai salmi del grande contemporaneo Benedetto Marcello (ma con tutt’altro spirito) rimane ancora oggi come un dono votivo di morte offerto all’ammirazione e al rimpianto degli uomini. Ammirazione e rimpianto s’infuturano nel tempoche rinsalda la tempra del suo nome, vittorioso questo contro le forze nemiche, morte •e oblio, tra loro discordi. VITTORIO GUI.