Il buon cuore - Anno XIII, n. 29 - 2 agosto 1914/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 29 - 2 agosto 1914 Religione

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LA VITA AL POLO NORD

Gli Eschimesi

(Continuazione e fine v. num. precedente)


Gli eschimesi sono formidabili mangiatori. Essi possono benissimo esser paragonati agli animali da pascolo: digeriscono riposando pascolano di nuovo per tornare a digerire e si riposano per ruminare. Il loro stomaco sem, bra ignorar le malattie che un tale esercizio occasionerebbe alla nostra razza: esso ha un ardore di fornace che avvamperebbe una corrente d’aria gelata, e come gli uccelli, digerirebbe dei sassi. La principale alimentazione degli eschimesi centrali e della costa orientale della Groenlandia è il lardo di balena, che non viene mai cotto poichè il cuocerlo, o il riscaldarlo semplicemente sarebbe un’eresia. Esso vien tagliato in fette lunghe quanto un braccio, le quali vengono sospese con una mano al di sopra della bocca che ne tiene stretta, fra i denti, l’altra estremità. Poi, per trangugiarlo, con una rumurosa aspirazione delle labbra, il lardo è reciso a bocconi grossi come un’arancia in estrema prossimità iella bocca, per mezzo di un affilato coltello, con grande ed evidente pericolo, specialmente nei bambini, di ferirsi alle labbra. La cattura di una balena è, per le tribù eschimesi in generale, uno dei più grandi e memorabili avvenimenti, ed è facile comprenderne bene il perchè, considerato che basta solo uno di cotesti giganteschi cetacei per nutrire durante un intero mese la popolazione d’un completo villaggio.

Gli eschimesi dànno comunemente a succhiare ai loro fanciulli gl’intestini di foche e di narvali; cibo in verità disgustoso; ma l’orrore del quale viene oltrepassato dall’altra costumanza di suggere come per passatempo i vecchi lucignoli che hanno servito per le loro lampade. I pesci vengono mangiati crudi, freschi o disseccati semplicemente al sole o dal fumo delle loro igloos. Secondo il Lyon, un altro dei cibi preferiti è una specie di bollitura di sangue e di grasso di vitello marino. Notevole leccornia degli eschimesi centrali è, poi, il contenuto dello stomaco di renna che mangiano impudridito, da una stagione all’altra. Bevanda sovrana, e comune a tutte le tribù iperboree, è l’olio di foca (non già quello di balena come è stato ed è creduto dai più); olio dall’odore disgustoso che si ottiene con le viscere di questi animali esposte a fermentare al sole durante i lunghi giorni dell’estate. A paragone di tale bevanda, scrisse sir J. Ross, il nostro olio di fegato di merluzzo si direbbe uno dei rosoli più profumati. Vien quindi l’acqua che ottengono dalla fusione della neve o del ghiaccio; e, infine, il caffè.

Nell’eschimese è sviluppatissimo il sentimento della famiglia, quantunque qualche madre abbia compiuto l’atto di cedere il proprio fanciullo, o qualche uomo la propria donna, in cambio, magari, di un coltello, di un pezzo di ferro o di un cane.

Di solito, gli eschimesi hanno un sola moglie, talvolta due e raramente tre o quattro. E’ obbligo quando un uomo può e vuole prendere una seconda donna, accasare la vedova di suo fratello. Quasi tutti gli eschimesi sono esenti dalla gelosia. E’ raro il caso che i mariti e le mogli si abbandonino ad eccessi in tale ordine di idee.

La famiglia è composta, dunque, del padre, di una o più mogli, e di due o tre figli di solito. Non vi sono nomi per indicare i gradi di parentela: nè la,donna prende mai il nome del marito. I doveri dell’uomo si riassumono nel procurare gli alimenti: nella costruzione delle igloos, dei battelli, delle slitte, delle armi e degli utensii; quelli della donna nel mantenere la casa, nel conciare e nel preparare le pelli e confezionare gli abiti; nel cuocere le vivande; nel comporre i finimenti per i cani e, talvolta, nell’adoperarsi anche alla costruzione della igloos, dei vasellami, delle lampade, ecc. Sovra tut- [p. 226 modifica]to, poi, è suo dovere l’allattamento dei bambini e la loro sorveglianza. A lei spetta, pure la spartizione della caccia alla famiglia. Quanto a diritti, non ne posseggono nè il pater familias nè la mater familias, poichè non sentono che assai raramente la superiorità reciproca. I vecchi sono considerati generalmente, come i consiglieri della tribù; fino all’appresarsi• della morte godono tutto il rispetto, solo quando si avvicinano gli ultimi momenti essi sono lasciati in un completo abbandono. L’eschimese ama molto i fanciulli. La libertà dei loro figli è illimitata quanto è possibile: non vengono puniti, anzi neppur mai sgridati. I bambini sono allattati generalmente, sino ai dieci anni; e l’Amudsen racconta d’aver veduto un fanciullo di quell’età smettere di fumare la pipa per riattaccarsi al seno materno. In parecchie tribù i fanciulli, sin dalla loro nascita, sono destinati alla tale o tal’altra fanciulla, e, quindi, essi vanno a nozze conocsendosi fin dalla più tenera infanzia. In altre tribù invece, è il giovinotto che cerca la sua sposa e le ragazze non debbono mai far sapere di avere un fidanzato e meno ancora di amarlo; sicchè quando è giunto il momento convenzionale di rapirla, ella deve difendersi, piangere ed urlare. Il matrimonio si compie, generalmente, a diciasette anni per l’uomo e quindici anni per la donna. Presso gli eschimesi dello Smith Sound vi è il matrimonio di prova: se un giovane e una fanciulla non sono l’uno all’altra adatti, l’uno e l’altra provano una nuova combinazione matrimoniale e spesso provano e riprovano parecchie volte, fino a che trovano la persona con cui andranno d’accordo. Se due uomini vogliono sposare la stessa donna, risolvono la questione con una prova di forza, lottando insieme finchè l’uno abbia atterrato l’altro e pestandosi pugni reciprocamente sul braccio sinistro finchè il meno resistente ceda. I rivali restano amici. La sposa non riceve altro corredo che un abito nuovo da donna maritata, un coltello ed una lampada. Quando una donna osserva che suo marito non le rivolge la parola, piglia le sue vesti e ritorna dai genitori (Winckler); in altri casi è l’uomo che, stancandosi della moglie, le dice semplicemente che nella, igloo no•n vi è più posto per lei, ed allora essa torna dai genitori se vivono ancora o da un fratello o da una sorella e manda a dire all’uomo della tribù che preferisce, che è libera e pronta a ricominciare la vita coniugale: In questi casi di divOrzio primitivo, il marito si tiene quanti figli desidera; se non ne vuole alcuno, la donna li conduce seco. L’enorme dispersione del popolo eschimese si oppone a qualsiasi costituzione di un potere organizzato. Non vi sono capi tra di essi, nessuno è investito di alcuna autorità, tranne, in certo senso, il sacerdote, e l’indovino. Non esiste il diritto di proprietà, salvo per gli oggetti personali. E’ veramente singolare il comunismo eschimese; non v’è alcuna differenza sociale dipendente dal sesso o dall’età, e la concordia, sì nelle famiglia che nei villaggi, tipica. Il bottino di caccia è in comune; ed in tempo di carestia i bimbi e le vedove senza figli sono i primi ad esser nutriti se qualcosa di cibaria è a loro portata. Mangiano tutti insieme •della medesima carne

finchè ne resta; la pelle, invece, come certe altre parti del corpo, sono, senza discussioni, riconosciute di spettanza a colui che ha ucciso l’animale. Non conoscono alcuna forma per tutelare la modesta supellettile loro: le tane invernali non hanno alcun oggetto che ne chiuda l’ingresso, l’onestà loro è proverbiale; sicuri di trovare ogni cosa al ritorno dopo le più o meno lunghe gite estive, possono ben lasciare tutto su di un’isola senza timore che venga rubato. Già si è detto che gli eschimesi ignorano il sentimento della vendetta. Ad ogni modo, allorchè un eschimese ha ucciso un altro, è difficile trarne vendetta, poichè il colpevole veglia quando gli altri dormono e dorme quando gli altri vegliano.... L’eschimese poi, che si reputa ingiuriato, compone una poesia satirica in cui rimprovera all’avversario la sua ingiustizia e fa imparare questa poesia a memoria a tutti i suoi parenti e famigliari. Quindi avverte l’intero villaggio che egli intende cantare contro l’avversario. L’avversario gli risponde nello stesso modo e la tenzone poetica dura, così, finchè una delle parti si stanca di rispondere. Gli avversari tornano amici. Tali usanze, assai caratteristiche, erano da molti ignorate, non ostante la letteratura sugli eschimesi fosse ricchissima, come ci provano le continue citazioni e la ricca bibliografia che il Faustini espone nel suo libro, ch’è il primo apparso in Italia sull’interessante argomento e che è scritto in una forma discreta, atta a renderlo piacevole a qualunque lettore. ARTURO LANCZLLOTTI.

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Il dramma sacro nel teatro odierno I "Misteri della Messa„ del Calderon A Basilea, la domenica in «Albis», il Circolo giovanile della parrocchia cattolica di Santa Maria (che conta circa 12,000 fedeli e sotto la direzione del sacerdote Weber coadiuvato da quattro vicari è divenuta un focolare ardente di vita e d’azione) ha portato sulle scene, in onore dei fanciulli della prima comunione, il grandioso «Auto» del Calderon. «I Misteri della Messa». E’ la prima comparsa pubblica, in Isvizzera, dell’opera del grande drammaturgo spagnuolo, che dopo duecentocinquanfanni si afferma piena di tanta evidenza e sana modernità da immediatamente conquistare le folle. La folla basilese ne fu talmente presa che a voce di popolo ne domafidò la ripetizione la quale ha avuto luogo domenica scorsa, nel grandioso salone del «Borromaum»; ma «I Misteri della Messa» che aprirono il memorando Congresso eucaristico internazionale di Vienna, hanno già percorso trionfalmente varie città della Germania: Colonia, Dusseldorf, Treviri, Saarbriicken, Wiirzburg. Ratibor e Beuthen, grazie l’iniziativa e l’opera della Società di Calderon (a Calderonis Gesellschaft»), costituitasi fra i cattolici tedeschi allo scopo di riconquistare ai drammi sacri ed anche ai drammi profani del maggior ge [p. 227 modifica]nio poetico che la Spagna vanti — genio eminentemente cristiano — le grandi scene dell’epoca nostra. Impresa nobilissima che fa parte del programma di applicazione del motto storico di Pio X «Instaurare omnia in Christo». Anche al teatro ha da rivolgersi tale missione: al teatro che tanta parte è dell’attività intellettuale dei tempi presenti e che nella vita dei popoli viene prendendo un posto sempre più preponderante. La Società di Calderon, tedesca, dà a questo riguardo un esempio che giova sperare non andrà perduto nei paesi latini. Io ricordo il tentativo di molti anni fa in Italia, e precisamente in Milano, a favore del teatro pubblico onesto; un tentativo che non ebbe, disgraziatamente,. tutto quell’appoggio che doveva incontrare e sul quale si faceva assegnamento. Ma quello che allora non riuscì potrebbe riuscire oggi: potrebbe riuscire domani. La Società di Calderon dimostra con l’opera sua che tale riuscita non è un mito.

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Mette conto conoscere un po’ da vicino questo dramma meraviglioso, che è la glorificazione del Sacrificio dell’Altaí-e e che dovunque venne rappresentato ha lasciato una impressione profonda, della quale io trovo traccia anche in quanto ora scrivono i giornali protestanti e liberali di Basilea — l’Atene svizzera. Un breve prologo. Sul proscenio appare l’Ignoranza che si lagna della sua insufficienza nelle cose religiose e prega calorosamente le si rechi aiuto. Compare la Saggezza inviata da Dio ad illuminarla e scioglierne i dubbi. L’Ignoranza chiede le si spieghi il Mistero della Santa Messa ch’è solito frequentare. Qui si leva il sipario. Ecco Adamo. Curvo sotto il peso della colpa si prostra ed invoca da Dio misericordia e grazia. La Saggezza che insieme coll’Ignoranza rimane sul proscenio, in disparte, spiega questo fatto come il principio e il «Canfiteor» della Messa. Partito Adamo s’avanza Mosè, maestoso; l’accompagnano angeli recanti le tavole della legge e l’arca dell’alleanza. Mosè prega fervidamente il Signore perchè mandi il Messia e perchè tragga gli uomini dal •buio dell’errore allo splendore della luce. La Saggezza segnala in ciò l’Introito e il «Kyrie». Un coro di fanciulli ha fino a qui cantato melodie flebili; adesso risuona gioioso, intonato da Giovann Battista, il «Gloria»: Iddio ha accolto le suppliche del’genere umano ed invia il suo Figlio unigenito, Gesù Cristo. Allo scoppio del Gloria s’alza un sipario che nasconde il fondo della scena: •ecco Cristo circondato da angeli e dagli apostoli, quasi in gloria sull’altare che domina il palco. Gli squilli ed i canti festosi del «Gloria» hanno riscosso, spaventati, `l’ebraismo ed il gentilesimo, che accorrono per contrastare. a Cristo. I) primo chiama in aiuto il suo campione Saulo. Con calma maestosa il Salvatore IN un cenno all’apostolo Giovanni che in santo entusiasmo conferma la divinità del Cristo. Saulo n’è talmente eccitato che snuda la spada e si lancia contro

Giovanni; una voce risuona: «Saulo, perchè mi perseguiti?» e l’aggressore cade a terra ed alla sua volta riconosce che Gesù è figlio di Dio; Saulo si chiama quindi innanzi Paolo, ed a piè del Redentore prende a scrivere l’epistola agli Ebrei che annuncia ad alta voce mentre Giovanni legge agli uditori intenti l’ammirabile suo Vangelo: «E in principio era il Verbo....». Con parole soavi ma recise il Salvatore ricorda che non basta udire e vedere; l’Evangelio esige la fede vivente; e Giovanni e Paolo in uno splendido dialogo recitano il Credo. Ciò produce nel gentilesimo un cambiamento totale: esso si converte al cristianesimo. Il giudaismo invece permane indurito e per credere alla divinità di Cristo pretende segni e miracoli. Gesù prende vino dalle anfore delle nozze di Cana ed acqua dalle onde del Giordano. Il vino puro è un simbolo della divinità; l’acqua rappresenta l’umanità. E come l’acqua commista col vino ne prende il colore e l’odore così l’umanità viene innalzata alla divinità. Poi il Salvatore offre al suo padre celeste il calice in espiazione del peccato dell’uman genere: è l’Offertorio. All’«Osanna» del «Sanctus» Gesù si ritrae insieme con gli apostoli e con gli angeli. La Saggezza spiega all’Ignoranza che il corteo solenne raffigura l’ingresso di Gesù Cristo in Gerusalemme. A questo punto la scena muta. Un uragano ottenebra l’orizzonte. Atterrito, il giudaismo scende a precipizio dal Calvario e narra, in preda a rimorsi ’cocenti, la passione di Nostro Signo’re. La Saggezza frammischia alla narrazione le sue spiegazioni. Alle singole parti della Passione corrisponde una parte della Messa dalla transustanziazione fino alla comunione. Tuttavia il giudaismo persiste nella sua durezza di cuore; e vi persiste anche all’apparizione del Risorto. Ma con sguardo profetico Giovanni l’Evangelista annuncia che anche per il giudaismo verrà l’ora in cui aprirà gli occhi. A quel modo che il Messale, sul finir della Messa, viene rimosso dal lato del Vangelo così anche negli estremi giorni del mondo tornerà ai giudei la Grazia. E nel giudizio universale il Salvatore sentenzierà sui vivi e sui morti «lor impartendo l’ultima benedizione ed insieme l’ultima maledizione». L’«Auto» si chiude con un magnifico quadro vivente e con un maestoso coro unisono.

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«Si scrive e parla molto attualmente — dice il «Va.terland» di Lucerna (il principale quotidiano cattolico della,Sv,i,zzera)— del «Parsifal» del Wagner, ma in esso si guarda più alla musica che alla sostanza. I «Misteri della Messa» sono una glorificazione assai più profondamente concepita del Sacrificio del Nuovo TeStamento e sommamente degna di essere portata sulle nostre scene, specialmente negli Istituti e nei Collegi». Il giornale lucernese rileva poi come attori di professione che insieme non siano anche animati da sinceri sentimenti religiosi non possono darne una rappresentazione efficace. Prova l’esecuzione di Colonia dove quella Compagnia teatrale non diede i «Misteri della Messa» che una [p. 228 modifica]sola volta, mentre quel’«Gesellenverein o già li rappresentò sette volte e sempre con teatro rigurgitante di spettatori.

«I Misteri della Messa» vengono dati in Germania, èd in Isvizzera nella traduzione fattane l’anno 1906 da Riccardo von Kralik, il celebre scrittore e poeta cristiano viennese. L’attenzione sugli «Autos» sacri del Calderon venne però richiamata già nel 1829 dal vescovo-principe di Breslavia cardinale Diepenbrock e dodici d’essi (ne esi stono settantrè) furono tradotti dal poeta von Eichendorff; il merito di averli fatti conoscere tutti al pubblico tedesco spetta al canonico di Breslavia dottor Lorinser (1882-1887). Un’appendice letteraria della «Germania» di Berlino, dello scorso marzo, ricondando come anche valenti critici protestanti rendano omaggio al sommo valore letterario ed artistico degli «Autos»• citava integralmente il giudizio datone nella sua classica storia della letteratura spagnuola (in tre volumi dal conte von Schack, che io credo di dover qui tradurre: «La posterità non può a meno di condividere per questi lavori poetici l’ammirazione del secolo XVII, se appena ha sufficiente abnegazione ii trasportarsi dall’ambiente intellettuale presente così diverso, nella concezione mondiale da cui tutto questo genere di drammi è sorto. Essi ci avvolgono come in un regno di meraviglie. Innanzi a noi si apre un tempio nella cui costruzione, come nel tempio del Gral di Titurel, ha preso figura simbolica il Verbo eterno. Nell’entrarvi ci venta incontro come un soffio di spiriti dell’eternità e sotto quelle volte sublimi una aurora continua riflette lo splendore della divinità. Nel suo centro spicca e domina, come il centro d’ogni essere e di ogni storia la croce sulla quale lo stesso Spirito infinito volle sacrificarsi in infinito omaggio, per l’umanità. A piè del nobile simbolo sta il poeta come gerofante e profeta ed indica le figure alle pareti e il linguaggio muto dei viticci e dei fiori che si arrampicano sulle colonne ed i suoni che squillanti piovono dall’alto. L’anima del Calderon volta in preghiera al cielo sembra aver concentrato tutte le sue forze in un sol punto ardente, per dare negli «Autos» il massimo che quelle fossero in grado di produrre. G. D’ELEDA