Il buon cuore - Anno XIII, n. 25 - 20 giugno 1914/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 25 - 20 giugno 1914 Religione

[p. 193 modifica]Educazione ed Istruzione


Il pettegolezzo nella letteratura.


Un galantuomo che in vita abbia avuto la fortuna, o — se più vi pare — la disgrazia, di farsi notare da un gruppo più o meno esteso di persone, non è padrone di!andarsene all’altro mondo senza le commemorazioni e, quel che è peggio, senza la pubblicazione di tutti i suoi scritti postumi. La frase, un po’ altisonante, nasconde quasi sempre un vilissimo intento di speculare con le carte di quegli che non è più approfittando del nome che egli lasciò. Così, alla morte dei più, o meno noti letterati nostri, segue sempre per opera di quello o di questo editore, una serie di volumi intesi a gettare in pasto del pubblico ansioso di pettegolezzo, con le poche carte rimaste veramente inedite per il sopraggiungere di colei che tronca ogni lavoro, anche le moltissime che il galantuomo defunto non avrebbe, da vivo, fatto vedere ad alcuno e che si sarebbe ben guardato dal desiderare che anche dopo la sua morte, venissero comunicate ad estranei. E fra queste ultime, naturalmente, vi sempre un numero Considerevole di lettere scritte o ricevute. Per poco non Si pubblicano anche i conti del salumiere o del macellaio, le lettere del padron di casa che reclamò l’affitto più volte arretrato, i protesti cambiari, le citazioni del sarto.

La scusa a queste pettegole indiscrezioni irriverenti è sempre una sola: bisogna penetrare quanto più si può nell’anima dello scrittore scomparso, allo scopo di meglio comprendere e più equamente valutare lo spirito informatore delle sue opere. Il che, in ultima analisi,

equivale al sostenere che per comprendere bene la «Divina Commedia» o «I Promessi Sposi» è proprio indispensabile sapere quanti erano ed a quanto ammontavano i debiti di padre Dante e di chi era veramente figlio Alessandro Manzoni. Cito questi due casi, perchè son proprio gli ultimi verificatisi nel campo del Pettegolezzo applicato alla letteratura.

Avviene cosi, non infrequentemente, di ritrovare sul tavolo di lavoro epistolari di letterati recentemente defunti e, magari, di vederseli accompagnati da raccomandazioni e richiami intesi a persuadervi che senza di essi, il mondo non avrebbe più potuto decentemente tirare avanti, il sole non avrebbe più avuto tutto il suo splendore e la letteratura patria avrebbe continuato a rimanere contaminata da quella tal lacuna che tutti i libri, prima di nascere, son destinati a riempire.

Io ne ho qui due oggi di questi volumi e, per quanto riconosca che alcune buone ragioni accampino a favore della loro pubblicazione, mi avvedo che la demolizione di questa cattiva usanza da me tentata più sopra, potrebbe stare benissimo anche per loro. Meno forse per le lettere di Gaspero Barbera, più per quelle di Giosuè Carducci.

Delle prime, recentemente pubblicate dai figli del celebre editore, non tutto è inutile e anche il superfluo è molte volte interessante. Il libro stanca forse un poco, specie là dove per necessità di cose il Barbera è costretto a parlare di affari o a dar relazione di quanto egli ha fatto, or qui or là, durante tutta una giornata di lavoro, interessa invece moltissimo in quella piccola parte riservata alla corrispondenza coi diversi scrittori maggiormente in voga in quel periodo di tempo che vide il rivolgimento nazionale — dal ’41 al ’79. — Questa è, senza forse, la parte meno inutile dell’epistolario; quella che può dare notizie intorno a diversi autori e opere di quel tempo. Anche interessante, ma soltanto per un certo suo lato di curiosità e soltanto in qualche sua parte è il gruppo delle lettere familiari, nelle quali quali più chiara si manifesta la figura morale di quell’uomo laborioso e onesto, che ai figli, col pane ed il vestito non disdegnava di dare ottimi consigli ed ottimi esempi di virtù, di probità e di vita cristiana.

Delle lettere dirette a Felice Le Monnier, principale prima e rivale poi del Barbera, metterebbe conto di [p. 194 modifica]parlare più a lungo. Esse, cosi come sono, tengono il pasto di un ottimo manuale per l’insegnamento dei modi e degli accorgimenti e dell’attività necessari a farsi strada nel mondo. Son pagine che, lette, non si dimenticano e, rilette, si apprezzano sempre più per la copia delle notizie e per la quantità dei preziosi insegnamenti che da esse si possano ritrarre.

E allora, chiederà a questo punto il lettore, perchè avete detto tanto male in principio per la pubblicazione delle carte inedite e degli epistolari? Ma il rispondere non è difficile quando in un caso come questo, si è costretti ad esprimere la più dolorosa delle meraviglie per la stampa, non delle lettere del Barbera; ma di quelle di Giosuè Carducci. Ho sott’occhio il volume secondo di questa raccolta e, dopo averlo letto dalla prima all’ultima parola, indarno cerco di indovinare non solo il perchè della pubblicazione; ma anche i criteri ai quali i compilatori si informarono nella cernita delle carte da accogliervi. Perchè, oso dirlo chiaramente e non m’importa essere solo in quest’opera di onesta sincerità, il volume non aggiunge nulla ai meriti letterari ’del Carducci; ma lo sminuisce come uomo anche di fronte agli stessi suoi amici ed ammiratori. E’ un poco l’effetto che, nell’animo di un lettore imparziale, producono le lettere dello Zola. Questi grandi letterati, visti attraverso i loro pensieri di ogni giorno, sorpresi nei loro affetti più intimi, appaiono miseri miseri miseri, piccini piccini. E’ raro che il tono d’una lettera si elevi dal solito discorso: "Ho scritto la tal cosa, che mi frutterà tanto». Oppure: «Per la tal’altra cosa che sto scrivendo, non potreste farmi un anticipo?» O anche: «Vi scriverò cosi e cosi se mi darete questa somma che mi necessita subito.» Questa è l’impressione fondamentale che lasciano le lettere dirette dallo Zola ad amici e ad editori. Ma l’impressione lasciata da quelle dirette dal Carducci alla famiglia è peggiore. Il motivo predominante è il denaro sotto forma di prestito (?). Egli chiede non infrequentemente alla moglie: «Non avresti da mandarmi un 20 o 30 lire, che poi me ne manderesti meno alla fine del mese?» E se la moglie manda meno, allora, tra.il serio ed il faceto, son temporali grossi: "Ho ricevuto l’ultima tua col vaglia 30 lire! Ti scottava a mandarmene di più?»

Alberto Dallolio, il quale ha fatto la scelta delle lettere e vi ha preposto una bella prefazione, osserva in proposito che questa specie di conto corrente tra la moglie ed il marito mostra quanto il Carducci «fosse scrupoloso ed austero in fatto di denaro».

Non lo nego; affermo solo che queste lettere non mi sembra sarebbe stato opportuno pubblicare e cosi di tant’altre, ove incorre troppo frequentemente un altro motivo: il bere ed il mangiare, il bere specialmente: affermo che a molti dei lettori la prima idea che potrebbe venire dalla lettura del volume potrebbe benissimo essere quella di avere a che fare con un uomo spendaccione e gran mangiatore e gran bevitore. E, allora, sta bene mettere nella sua vera luce il poeta defunto; ma con quale opportunità e quanto vantaggio si chiama il pubblico per fargli sapere che, coi buoni versi, il morto apprezzava anche moltissimo il vino buono? Quale maggior chiarezza di interpretazione dell’opera carducciana in versi ed in prosa, può derivare dal sapere che il Carducci, il giorno tale dell’anno tale, scrisse a casa per bussare a quattrini, o per chiedere se era arrivato del vino, o per informare che aveva mangiato a crepapelle il giorno prima? Mi limito ad esprimere questo dubbio, il quale, secondo me, allarga la questione della pubblicazione delle lettere intime e la risolve in senso negativo. Giudichi, del resto, il lettore. Senza contare che, in questa parte di scritture carducciane, è lamentabilissima perchè più evidente e stonata la mancanza assoluta di una qualsiasi precocupazione superiore, e questo tanto più nei riguardi anche dell’educazionida impartirsi ai bambini. «Baciali per me -- scrive Iglla moglie da Ravenna — e dì che sian buoni; altrimenti lo dirò a Dante vecchio •e grande, che li metterà in castigo nel limbo.» Francamente, quel buon vecchio di Dante, rimbambito parecchio, messo a far da bidello di un asilo infantile, è una figurazione cosi grottesca che il saperla opera del Carducci lascia un senso di indefinibile disgusto. Anche la lettera, commoventissima per la sincerità straziante con la quale è scritta, alla figliola Bice che ha veduto improvvisamente la peggiore delle sventure abbattersi sulla sua giovane casa, è spaventosamente vuota, ’desolatamente vuota di ogni pensiero che richiami ad una speranza superiore, ultra terrena.

«Mia cara figlia — scrive quel padre angosciatissimo — le braccia paterne ti saranno sempre aperte; per rifugio a piangere, se nan per conforto. E i tuoi figli saranno miei figli. Ecco quel che ti posso dire.» E nienealtro!

Quanto diverso in questo da Gaspero Barbera! 11 quale, particolarmente nelle lettere alla famiglia, oltre a dar consigli di saggezza, d’onestà, di lavoro, ’dimostrandosi preoccupato della educazione dei figliuoli, non trova inutile di far sapere che — lontano di casa — prima di coricarsi ha dette le sue «solite» brevi orazioni, particolare che avrebbe anche potuto restare nella penna, senza che per questo i figli avessero neppure lontanamente potuto sospettare che, lontano di casa, il loro padre avesse potuto far diverso di quel che a casa faceva.

Naturalmente non ho la pretesa, ridicola e assurda del resto, che anche il Carducci dovesse pensarla cosi. No! Se avesse scritto in tal modo nelle lettere e avesse poi dimostrato, come fece, quella sua grande mancanza di fede negli scritti pubblicati dal vivo, la sua figura sarebbe rimasta contaminata da una macchia vergognosa e incancellabile di finzione balorda e indecorosa. Il confronto, se pur è tale, mi è venuto spontaneo, provocato dalla lettura consecutiva dei due volumi.

I quali non aggiungono nulla alla fama dei due uomini a cui le lettere appartennero; anzi, ’l’ultimo, toglie di molto a quella di Giosuè Carducci.

Napoleone, in veste da camera, nell’atto di comandare un’armata; Giuseppe Verdi, in camicia, mentre dirige un’orchestra, sono figure buffe e pazzesche.

E il leggere le lettere di un poeta fa un poco lo stesso effetto; è la visione di un uomo che legge dei versi calzando le pantofole e con ’in testa il berretto da notte.

A. Pozzi. [p. 195 modifica]Ciò che rimane della prigionia di Pio VII.

LA LEGGE DELLE GUARENTIGIE.

Questa legge che dai liberali è frequentemente chiamata «monumento di sapienza italiana» non ha origini italiane, ma franeesi: non sorse, come i più dicono, dalla mente di Cavour, ma da quella di Napoleone; il quale era bensì nato di sangue nostro e in terra nostra, ma di fronte a Pio VII agì per l’Impero francese ed a questo, non al regno italico, annesse gli Stati romani. Certo, il concetto da cui mosse Napoleone nell’inventare le sue guarentigie fu diverso da quello con cui i liberali italiani ne copiarono più tardi le principali disposizioni. Napoleone non si disinteressava degli atti della Santa Sede; dava anzi loro il massimo peso "anche quando ostentava di disprezzarli. Gran parte delle sue violenze contro Pio VII nacquero appunto dal pretendere che questi fossero fatti a modo suo. Quindi nelle guarentigie da lui escogitate non ci poteva essere quella parte che nelle italiane intese stabilire fino ad un certo punto l’indifferenza dello Stato verso gli uffici spirituali del Papa, e quindi promise ad essi una tal quale libertà di movimento all’interno. Dal lato quindi delle relazioni fra la Chiesa e lo Stato la legislazione napoleonica e quella italiana non potevano rassomigliarsi. La prima esagerava le antiche restrizioni giurisdizionaliste; la seconda applicava in qualche misura i metodi separatisti. Ma nella parte principale, nella posizione fatta al Sommo Pontefice per cercare di compensarlo delle prerogative assicurategli un tempo dal potere temporale, la legge italiana è strettamente pedissequa delle disposizioni stabilite da Napoleone. Esaminiamo la cosa punto per punto. L’art. 3. della Legge italiana dice: «Il Governo italiano rende al Sommo Pontefice, nel territorio del Regno, gli onori, sovrani». Ora le istruzioni mandate nel 1809 dal gabinetto imperiale al principe Borghese governatore del Piemonte da questo trasmesse al prefetto del dipartimento di Montenotte, sotto la cui giurisdizione era Savona, ossia la città ove Pio VII era stato pur allora relegato, dicevano all’art. 4.o — e notate che si trattava del papa in istato di relegazione: — «Comparendo Sua Santità, sia in pubblico, sia in privato, la truppa dovrà rendergli gli onori come a sovrano». Le guarentigie italiane agli articoli 4.o e 5.o assegnano alla Santa Sede una dotazione di 3.225.000 lire, esentandola da imposta, e conferiscono al Papa il godimento dei palazzi «Vaticano» e «Lateranense» e della " Villa di Castel Gandolfo». Anche di ciò l’origine è napoleonica. Fin dal 7 maggio 1809 l’imperatore, proclamando dal campo di Vienna l’annessione di Roma all’Impero decretava all’art. 5: «La rendita del Papa sarà di due milioni, liberi da ogni imposizione». Questo assegno era ripetuto all’art. 16 del Senato-Consulto 17 febbraio 1810; veniva confermata nelle istruzione date il 25 aprile 1811 da Napoleone ai tre Vescovi che egli inviava a Savona da Pio VII per trattare d’un nuovo Concordato. Era anzi accresciuto di altri quattro milioni annui per le spese della Corte,

nel nuovo progetto fatto presentare al Papa in Fontainebleau per mezzo del Vescovo Duvoisin; ma di questi ultimi non si tenne calcolo in quella bozza di concordato che parimenti in Fontainebleau Pio VII per momentanea debolezza firmò il 19 gennaio 1813 e subito ritrattò. In esso le disposizioni intorno alla dote presero la forma seguente: «III. — I dominii, o beni stabili, che il Santo Padre possedeva e che non sono alienati, saranno esenti da ogni specie di imposizione. Saranno amministrati dai suoi agenti, o incaricati d’affari. Quelli che si trovassero alienati, saranno rimpiazzati fino alla somma di due milioni di franchi di rendita». Quanto ai palazzi, finchè Napoleone non trascinò il Papa fuori di Roma o quando pensò di farvelo un giorno ritornare, pure spoglio della sovranità temporale, i suoi decreti e le sue istruzioni dànno come presupposto il godimento dei palazzi e ville pontificie. Quando poi credette, o ne fece finta che il Papa si sarebbe rassegnato a risiedere in Avignone, le istruzioni del Duvoisin sulla dimora pontificia furono le seguenti: «2.o — S. M. l’imperatore e Re dona un palazzo del valore di 100 mila scudi a S. Santità. Tutte le manutenzioni necessarie saranno fatte a spese del goveno.... «3.o — S. M. l’Imperatore farà trasportare a sue spese in Avignone gli archivi della Dateria romana già esistenti in Francia, Penitenziaria, Cancelleria, ecc.». La legge italiana agli art. 7 e 8. dice: " Nessun ufficiale della pubblica autorità od agente della forza pubblica può, per esercitare atti del proprio ufficio, introdursi nei palazzi e luoghi di abituale residenza o temporaria dimora del Sommo Pontefice»... «E’ vietato di procedere a visite, perquisizioni o sequestri di carte, documenti, libri o registri negli Uffizi e Congregazioni pontificie rivestiti di attribuzioni meramente spirituali». Queste stesse disposizioni si leggono nel decreto d’annessione del 1809 all’articolo 6: "Le proprietà e palagi del S. Padre non saranno sottomessi a veruna.... giurisdizione e visita, e godranno d’immunità speciali». La legge italiana all’art. 11 stabilisce: «Gli inviati dei governi esteri presso Sua Santità godono nel regno di tutte le prerogative ed immunità che spettano agli agenti diplomatici secondo il diritto internazionale... Agli inviati di Sua Santità presso i Governi esteri, sono assicurate, nel territorio del regno, le prerogative ed imnuinità d’uso, secondo lo stesso diritto, nel recarsi al luogo di loro missione e nel ritornare». Anche questa norma è presa da precedenti napoleonici. Le istruzioni del 1811 dicono: «La potenze saranno libere di mantenere presso di lui incaricati o residenti, ornati di quelle immunità che sono acconsentite dal diritto pubblico agli agenti diplomati». In quelle del 1813 si dice: «Il Papa manderà alle Corti cattoliche i suoi Nunzi e ne riceverà rispettivamente i ministri». Finalmente nella bozza di concordato all’art. 2 si legge: «Gli ambasciatori, ministri, incaricati •d’affari delle Potenze presso il Santo Padre, e gli ambasciatori, ministri e incaricati d’affari che il Papa potesse avere presso le Potenze estere, godranno delle immunità e privilegi dei quali godono i membri del corpo diplomatico». [p. 196 modifica]Finalmente le guarentigie italiane dicono all’art. 12: " Il Sommo Pontefice corrisponde liberamente coll’episcopato e con tutto il mondo cattolico, senza veruna ingerenza del Governo italiano». Ugualmente Napoleone nelle istruzioni del 1811 diceva: «Il Papa avrà la libertà di comunicare con le chiese straniere». Come si vede, la legge delle guarentigie italiana, nella parte concernente le prerogative pontificie è stata dettata da Napoleone. Quanto, negli schemi successivi, della repubblica romana, di Cavour e di Ricasoli, ci sia stato di imitazione voluta e consapevole dal modello napoleonico, e quanto invece di coincidenza casuale, sarebbe troppo lungo l’indagare. Certo, che grimitatori dell’Imperatore si guardarono sempre dal confessare donde avessero preso la loro ispirazione. Nella stessa Camera italiana in Firenze nel 1871, se ne fece scarsissimo cenno. Primo a dirne qualche cosa fu Crispi, il quale nella seduta del 3 febbraio osservò al Governo e alla Commissione parlamentare dei quali era oppositore: «Napoleone I può essere invocato da voi e forse lo avete studiato quando redigeste il presente progetto di legge». Egli si serviva dell’esempio napoleonico nell’unico punto in cui il progetto italiano era o sembrava più largo verso il Papa che non le disposizioni imperiali. Combattendo l’art. 1.o del progetto, che poi per l’Italia divenne legge: «La persona del Sommo Pontefice è sacra ed inviolabile». Crispi diceva: «Napo leone non concesse la inviolabilità al Pontefice Romano. Leggete il decreto del 17 maggio 1809 ed il celebre concordato di Fontainebleau del 25 gennaio 1813 e nell’uno e nell’altro troverete che si concedono al Papa tutte le guarentigie; e, gli si fa una dotazione a un dipresso come quella che gli fate voi, gli si decreta l’immuni,tà nei luoghi dove egli risiedeva, ma non gli si accorda la inviolabilità e conseguentemente la irresponsabilità delle sue azioni». i Rattazzi confermava questa interpretazione degli atti napoleonici dicendo soltanto che si capiva Napoleone volesse il Papa non inviolabile perchè intendeva ingerirsi delle cose spirituali, mentre l’Italia che non vuole ingerirsene, gli deve l’inviolabilità. Ma entrambi i deputati negavan troppo facilmente che Napoleone avesse concesso l’inviolabilità Nel decreto del 1809 •era implicita. L’immunità promessa ai palazzi ove il Papa avrebbe abitato; la esenzione loro da ogni giurisdizione •e visita veniva di fatto a’ costituire l’inviolabilità; poichè come può essere violata la libertà personale d’alcuno quando chi avrebbe da violarla, ossia l’autorità civile, non ha il diritto di metter piede nei luoghi ove egli abita? Era parimenti implicita nella bozza di concordato del 1813 nell’articolo in cui era detto: " Sua Santità eserciterà il Pontificato in Francia e nel Regno d’Italia nell’istessa maniera e con le medesime forme, che i suoi predecessori». Con questo articolo la qualità li persona sacra e inviolabile era nel Papa riconosciuta, poichè si veniva a continuare giuridicamente la condizione storica e tradizionale in cui Napoleone aveva trovato il Papa, in quanto Capo della Chiesa. Ad ogni modo si capisce perchè così poco nella discussione parlamentare di Firenze si parlasse di Napoleo ne. La poca notizia che si aveva allora di alcuna delle

fonti, citate da noí, quelle s’intende non legislative e pubbliche; anzi, il non conoscersi punto le istruzioni dell’8 febbraio 1813, scoperte recentemente dal Padre Ilario Rinieri il quale per primo notò genericamente l’identità fondamentale tra le guarentigie italiane e quelle francesi; tutte queste ragioni furono tuttavia secondarie. La ragione vera di un tal silenzio fu il discredito che il richiamo del nome di Napoleone avrebbe apportato alla legge che pur si formulava sulle tracce sue. Il governo italiano voleva con le proprie guarentigie assicurare il mondo intorno alla libertà e dignità che esso avrebbe lasciato al Papa, dopo averlo temporalmente spogliato. Ora, come si sarebbe potuto prendere sul serio una tale assicurazione quando si fosse confessato un cosi disastroso precedente: io aver cioè dovuto quel disegno di legge al più famoso violatore moderno della libertà e dignità pontificia; l’immunità dei palazzi apostolici sancita nel 1809 essere stata seguita dalla aggressione ed incarcerazione di Pio VII nello stesso suo palazzo, fino allora dichiarato immune; le altre garanzie date nel 1813 essere state smentite dalla continuazione della prigionia a Fontainebleau? Ma se •anche tutto ciò fu allora taciuto, i fatti rimanevano interi. Essi vengono a confermare ciò che noi abbiamo sempre sostenuto: che cioè in quell’essersi l’Italia fermata alla soglia del Vaticano senza oltrepassarla, e nell’essersi quindi rispettata la libertà personale del Sommo Pontefice; in quelle altre parziali libertà che egli di fatto continuò ad avere, la legge delle guarentigie non fu che la mosca del cocchio. Qual merito può assegnarsi ad essa, quando identiche disposizioni produssero a Pio VII, non libertà e dignità, ma incarceramento e lunghissima relegazione? Tutt’altre cause che le leggi resero in molti punti diversa l’occupazione italiana da quella francese. FILIPPO CRISPULTI