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lare più a lungo. Esse, cosi come sono, tengono il pasto di un ottimo manuale per l’insegnamento dei modi e degli accorgimenti e dell’attività necessari a farsi strada nel mondo. Son pagine che, lette, non si dimenticano e, rilette, si apprezzano sempre più per la copia delle notizie e per la quantità dei preziosi insegnamenti che da esse si possano ritrarre.

E allora, chiederà a questo punto il lettore, perchè avete detto tanto male in principio per la pubblicazione delle carte inedite e degli epistolari? Ma il rispondere non è difficile quando in un caso come questo, si è costretti ad esprimere la più dolorosa delle meraviglie per la stampa, non delle lettere del Barbera; ma di quelle di Giosuè Carducci. Ho sott’occhio il volume secondo di questa raccolta e, dopo averlo letto dalla prima all’ultima parola, indarno cerco di indovinare non solo il perchè della pubblicazione; ma anche i criteri ai quali i compilatori si informarono nella cernita delle carte da accogliervi. Perchè, oso dirlo chiaramente e non m’importa essere solo in quest’opera di onesta sincerità, il volume non aggiunge nulla ai meriti letterari ’del Carducci; ma lo sminuisce come uomo anche di fronte agli stessi suoi amici ed ammiratori. E’ un poco l’effetto che, nell’animo di un lettore imparziale, producono le lettere dello Zola. Questi grandi letterati, visti attraverso i loro pensieri di ogni giorno, sorpresi nei loro affetti più intimi, appaiono miseri miseri miseri, piccini piccini. E’ raro che il tono d’una lettera si elevi dal solito discorso: "Ho scritto la tal cosa, che mi frutterà tanto». Oppure: «Per la tal’altra cosa che sto scrivendo, non potreste farmi un anticipo?» O anche: «Vi scriverò cosi e cosi se mi darete questa somma che mi necessita subito.» Questa è l’impressione fondamentale che lasciano le lettere dirette dallo Zola ad amici e ad editori. Ma l’impressione lasciata da quelle dirette dal Carducci alla famiglia è peggiore. Il motivo predominante è il denaro sotto forma di prestito (?). Egli chiede non infrequentemente alla moglie: «Non avresti da mandarmi un 20 o 30 lire, che poi me ne manderesti meno alla fine del mese?» E se la moglie manda meno, allora, tra.il serio ed il faceto, son temporali grossi: "Ho ricevuto l’ultima tua col vaglia 30 lire! Ti scottava a mandarmene di più?»

Alberto Dallolio, il quale ha fatto la scelta delle lettere e vi ha preposto una bella prefazione, osserva in proposito che questa specie di conto corrente tra la moglie ed il marito mostra quanto il Carducci «fosse scrupoloso ed austero in fatto di denaro».

Non lo nego; affermo solo che queste lettere non mi sembra sarebbe stato opportuno pubblicare e cosi di tant’altre, ove incorre troppo frequentemente un altro motivo: il bere ed il mangiare, il bere specialmente: affermo che a molti dei lettori la prima idea che potrebbe venire dalla lettura del volume potrebbe benissimo essere quella di avere a che fare con un uomo spendaccione e gran mangiatore e gran bevitore. E, allora, sta bene mettere nella sua vera luce il poeta defunto; ma con quale opportunità e quanto vantaggio si chiama il pubblico per fargli sapere che, coi buoni versi, il morto apprezzava anche moltissimo il vino buono? Quale maggior chiarezza di interpretazione dell’opera carducciana in versi ed in prosa, può derivare dal sapere che il Carducci, il giorno tale dell’anno tale, scrisse a casa per bussare a quattrini, o per chiedere se era arrivato del vino, o per informare che aveva mangiato a crepapelle il giorno prima? Mi limito ad esprimere questo dubbio, il quale, secondo me, allarga la questione della pubblicazione delle lettere intime e la risolve in senso negativo. Giudichi, del resto, il lettore. Senza contare che, in questa parte di scritture carducciane, è lamentabilissima perchè più evidente e stonata la mancanza assoluta di una qualsiasi precocupazione superiore, e questo tanto più nei riguardi anche dell’educazionida impartirsi ai bambini. «Baciali per me -- scrive Iglla moglie da Ravenna — e dì che sian buoni; altrimenti lo dirò a Dante vecchio •e grande, che li metterà in castigo nel limbo.» Francamente, quel buon vecchio di Dante, rimbambito parecchio, messo a far da bidello di un asilo infantile, è una figurazione cosi grottesca che il saperla opera del Carducci lascia un senso di indefinibile disgusto. Anche la lettera, commoventissima per la sincerità straziante con la quale è scritta, alla figliola Bice che ha veduto improvvisamente la peggiore delle sventure abbattersi sulla sua giovane casa, è spaventosamente vuota, ’desolatamente vuota di ogni pensiero che richiami ad una speranza superiore, ultra terrena.

«Mia cara figlia — scrive quel padre angosciatissimo — le braccia paterne ti saranno sempre aperte; per rifugio a piangere, se nan per conforto. E i tuoi figli saranno miei figli. Ecco quel che ti posso dire.» E nienealtro!

Quanto diverso in questo da Gaspero Barbera! 11 quale, particolarmente nelle lettere alla famiglia, oltre a dar consigli di saggezza, d’onestà, di lavoro, ’dimostrandosi preoccupato della educazione dei figliuoli, non trova inutile di far sapere che — lontano di casa — prima di coricarsi ha dette le sue «solite» brevi orazioni, particolare che avrebbe anche potuto restare nella penna, senza che per questo i figli avessero neppure lontanamente potuto sospettare che, lontano di casa, il loro padre avesse potuto far diverso di quel che a casa faceva.

Naturalmente non ho la pretesa, ridicola e assurda del resto, che anche il Carducci dovesse pensarla cosi. No! Se avesse scritto in tal modo nelle lettere e avesse poi dimostrato, come fece, quella sua grande mancanza di fede negli scritti pubblicati dal vivo, la sua figura sarebbe rimasta contaminata da una macchia vergognosa e incancellabile di finzione balorda e indecorosa. Il confronto, se pur è tale, mi è venuto spontaneo, provocato dalla lettura consecutiva dei due volumi.

I quali non aggiungono nulla alla fama dei due uomini a cui le lettere appartennero; anzi, ’l’ultimo, toglie di molto a quella di Giosuè Carducci.

Napoleone, in veste da camera, nell’atto di comandare un’armata; Giuseppe Verdi, in camicia, mentre dirige un’orchestra, sono figure buffe e pazzesche.

E il leggere le lettere di un poeta fa un poco lo stesso effetto; è la visione di un uomo che legge dei versi calzando le pantofole e con ’in testa il berretto da notte.

A. Pozzi.