Il buon cuore - Anno XII, n. 47 - 22 novembre 1913/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 47 - 22 novembre 1913 Religione

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Sui margini della storia

Il primo fondatore dei Monti di Pietà


Continuazione del numero 46.



Parecchie città si contesero il primato della fondazione. Ancona pretese l’erezione del Monte nel 1454, ma la bolla che si allega in proposito parla di un’altra istituzione: Ascoli Piceno invece sostenne la fondazione del Monte Pio nel 1450, ma nessun documento lo dimostra, mentre Luzzi Lodovico primo Monte di Pietà) tentò di rivendicarne il primato alla città di Orvieto, ma con esito infelice, poichè l’erezione ebbe luogo nel 1463. Ormai è indiscutibile che il primo Monte di Pietà fu eretto a Perugia nel 1642. Oltre l’assoluta mancanza di documenti per ammettere una data anteriore al 1462 per altre fondazioni, abbiamo la prova diretta del Consilium Collegi Perusini del 1464, nel quale leggiamo: «In qual Monte giustamente si dice Monte Perugino, essendo stato eretto per primo nella città di Perugia, ed è a guisa di candelabro lucente da imitarsi da tutti i popoli». E lo conferma l’iscrizione scolpita sul palazzo del Monte Pio: Hic mons pietatis prima in orbe fuit.

Ma chi si è messo per primo a quest’opera di beneficenza? Bernardino Busti, autore del Defensorium Montis Pietatis. scritto nel 1497 per le esortazioni del B. Bernardino da Feltre e in un momento di opposizione violenta contro l’insigne opera, narra come il B. Michele Carcano da Milano venne chiamato da Terra Santa a Perugia, perchè la liberasse dalla voragine insaziabile degli ebrei. Il B. Michele predicò infatti con successo così mirabile, che la città cessò i privilegi concessi agli ebrei in favore dell’usura, e decretò, come fece, l’erezione del Monte di Pietà. Realmente il Carcano nel 1460 era partito per visitare la Terra Santa, come si ha dagli autografi di lui e dalle lettere di Alessandro Castiglioni, segreta rio ducale, indirizzate alla duchessa Bianca Maria P. Michele era già in fama di grandissimo oratore in tutta l’Italia. Nato a Milano entro i confini della parrocchia di San Tomaso in Terra Mara dal famoso Donato Carcano, ricordato negli Annali milanesi come capitano e difensore della libertà durante la effimera repubblica ambrosiana, giovane ancora si era precinto dell’umile capestro nel patrio convento di Sant’Angelo dei Frati Minori. Nel 1453 incominciarono i suoi successi oratorii, talchè la duchessa Bianca Maria lo voleva in Milano, per consolazione di tutta la città, nel 1458 si fece ammirare a Siena, a Roma, dove Pio II gli ingiunse di predicare a Mantova la famosa crociata. Lo stesso duca Francesco Sforza, come riferisce il Giulini, si valse dell’opera di lui per la concentrazione di tutti i piccoli ospedali della città. Gli storici del tempo ad una voce lo celebrarono come uno dei più fervidi predicatori che facilmente muoveva al pianto la immensa udienza che lo ascoltava, ed il P. Bernardino da Feltre lo proclamò un redivivo San Paolo e tromba di Gesù Cristo.

Con la testimonianza del Busti va congiunto l’atto ufficiale, steso nel 1462 da Jacopo Vannucci, allora vescovo di Perugia, quando venne fondato il Monte di Pietà a Perugia. In questo atto, rinvenuto tra gli oggetti lasciati dal B. da Feltre nel patrio convento, appare che Ermolao, vescovo di Verona, governatore di Perugia chiamò a sue spese da lontani paesi (Terra Santa) il facondissimo e l’eruditissimo P. Michele (Carcano) da Milano, perchè muovesse la città ad abolire i privilegi degli ebrei. Il Carcano andò a Perugia, indusse la città non solo a cessare i privilegi concessi agli ebrei, ma anche ad erigere il Monte di Pietà. L’identico racconto ci vien narrato dal B. Marco da Montegallo dei Minori nel Trattato sull’usura e [p. 370 modifica]sui Monti di Pietà, composto nel 1846. Anche le Cronache ed i Diari perugini del tempo ripetono la mede sima cosa. Nè poteva essere diversamente. Negli Annali Decemvirali di Perugia, che si conservano in quella civica biblioteca, da noi consultati in proposito, nella seduta del 4 aprile 1642, si legge: «Il Magistrato indotto dalle predicazioni tenute in questi giorni dal ferventissimo e dottissimo predicatore Fr. Michele da Milano dell’Ordine dei frati Minori, il quale con molte ragioni ed autorità dimostrò doversi cessare i privilegi contro gli ebrei in favore dell’usura, delibera di annullarli n. Era necessario prima di venire all’erezione del Monte Pio, togliere innanzi tutto l’impedimento che più ne contrastava la foridazione. Nel 1913 dello stesso mese ed anno il magistrato di Perugia ed i quaranta Camerlenghi delle Arti (Ann. Decemv.), mossi ancora dai consigli e. dalle esortazioni del P. Michele da Milano, decretarono l’erezione del Monte di Pietà per dare in prestito ai poveri quella quantità di danaro che fosse loro opportuno sopra il pegno che vi portavano, e a tal uopo determinarono di stabilire il capitale di 3000 fiorini, che servisse esclusivamente per questo scopo. Di più stabilirono alcune norme, che si possono dire il compendio dello statuto del Monte di Pietà. Ora domandiamo: Quale palle ha avuto il B. Carcano nella fondazione del Monte di Pietà? Lo Scalvanti (Mons Pietatis di Perugia) ed il prof. Adamo Rossi (La piazza del sopramuro di Perugia) negano al frate milanese il merito di aver dato esplicite norme ed il vero disegno statutario del MOnte di Pietà. Pio. Ma gli sono contrari il B. Marco da Montegallo, il Busti e le determinazioni del Magistrato di Perugia, dalle quali, abbiamo già il piano dello statuto, fatto dietro i consigli e le esortazioni del B. Michele. Gli è vero che, secondo lo Scalvanti, non è nomina., to quando i Priori e Camerlenghi" si adunano per la seconda volta, e nel 15 per l’ultima volta, e nel 20 quando i Priori eleggono io Camerlenghi, e nel 22 per la nomina del cassiere, e nel 28 aprile quando il Magistrato delibera più ampiamente sulla forma e nel modo di reggere e governare il Monte: ma chi può dubitare, che il B. Carcano non obbia dati suggerimenti anche nelle ultime determinazioni, quando si dice espressamente nella se iuta del 13 aprile, che per «-le saluberrime esortazioni e consigli» del B. Michele da Milano «si intenda essere necessario... fare un prestito ossia erigere un M’onte per opera della comunità di Perugia»? La comunità di Perugia, che fu persuasa dalle ferventi predicazioni dell’apostolo di Dio, avrà agito da sè nel compimento dell’opera senza punto curare chi ne aveva dato l’impulso? Ovvero il B. Michele avrà lasciato a metà l’opera sua che sorgeva sì gloriosamente, dopo le sue esortazioni e consigli? E’ naturale, notiamo con AnselmoAnsilmi, che le deliberazioni speciali per dar forma e vita ad una istituzione spettano a coloro, che debbono deliberare della medesima. Ma il B. Michele da Milano fu solo od ebbe con sè altri francescani — ed il primato della grande isti tuzione è da attribuirsi a lui ovvero anche ad altri francescani? I documenti citati l’attribuiscono a lui soltanto: di altri francescani tacciono assolutamente. Difatti è il P. Michele che viene invitato da lontani paesi per questo scopo a predicare a Perugia, è lui che mette a nudo le ingiustizie dell’usura, lui che perora la causa del povero, lui che consiglia il modo di dare il colpo di grazia ai contratti usurai, e la città rievoca i privilegi, lui che. espone il modo di sovvenire il povero con la fondazione della Cassa mutuo soccorso, ossia del Monte di Pietà, ed il Magistrato, seguendo i suoi consigli, formula lo statuto. Il Manassei l’attribuisce al suo antenato, B. Barnaba Manassei da Terni, portato forse dall’eccessivo amore del sangue, ma gli sono contrari i documenti citati, i quali neppur lo nominano. L’Holzapfel segue il Walding, il quale attribuisce al B. Barnaba da Terni la fondazione del Monte di Pietà di Perugia «Insigne illud opus... primus omnium iste (Barnabas) excogitavit n. Ma il Wadding si è fatto un concetto chiaro della storia della fondazione dei Mon’ti di Pietà? L’Holzapfel direbbe di no, escludendo af fatto la falsificazione delle fonti, alle quali attinse il celebre annalista dei frati minori, fonti che per" non cita. Una prova che farebbe intervenire altri francescani, è la testimonianza del Busti, il quale accennando a Barnaba da Terni e ad Antonio da Todi lascierebbe supporre che essi vi prendessero parte. E difatti, come spiegare, che Ermolao invita il P. Michele da Terra Santa a predicare nella città di Perugia, senza ammettere l’intervento dei francescani’ Tuttavia i documenti riguardanti la fondazione del Monte di Pietà di Perugia, non parlano nè dell’uno nè dell’altro. Dal paleotipo della Biblioteca di Bologna, stampato senza data e senza indicazione di luogo, ma certamente dopo il 1486, appare, che nel 46.2 fu eretto il prime Monte di Pietà a Perugia per autorità di Ermolau, per la predicazione di Fr. Michele da Milano e per istanza di Fr. Giacomo delle Marche. Ma questo non toglie il merito esclusivo del B. Carcano. Ermola.0 avrebbe bensì il merito di aver chiamato il B. Carcano, ma è chiaro che fu questi a muovere la città e a revocare i privilegi in favore dell’usura ed a contrapporvi la fondazione del Ifont.’ di Pietà. Riguardo all’intervento, ossia istanza di Fr. Giacomo delle Marche, certamente non si può fis sare nel 1462, quando fu eretto il Monte, sia perciì.: i documenti non fanno menzione alcuna di lui, sia perchè il Cosiglio del Monte di Pietà di Perugia, composto dal Baglioni per istanza del frate marchigiano, si deve datare dopo che fu eretto il- Monte. Difatti il consiglio in parola è la soluzione di un dubbio sul Monte di Pietà, che naturalmente suppone già esistente.

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Il 31 gennaio del 1875 partiva da un paesello del Trentino, per recarsi alla Casa delle Missioni africane di Lione, un giovane ventenne, Federico Delfiore. Accetato, incorporato in quella famiglia di sacerdoti eroi della carità cristiana come fratello catechista, dopo circa dieci mesi di talquale noviziato, riceveva il simbolo, crocefisso del missionario, e l’8 dicembre 1875 s’imbarcava a Marsiglia per la missione del Bernin nel Dahomey, il vastissimo regno dell’Africa occidentale sotto la zona torrida. Giunto a Porto-Novo, vi restò oltre un anno per apprendere la lingua di quei popoli; e solo la metà del giugno 1877 si internava nel centro del Dahomey con un Padre che indi a poco a poco lo lasciava solo a preparare la strada, benché con promessa di presto ritorno. Ma la scarsità di persona le era tanta che Federico Delfiore non ebbe che poco prima della morte i tanto sospirati padri, cioè dopo tre anni di improbo lavoro per dissodare, egli il primo pioniere di civiltà evangelica, quelle barbari vergini terre colpite da duplice maledizione: quella comune a tutte le altre, e quella speciale fulminata contro Cam e suoi discendenti. Il fondatore della «missione di S. Giuseppe» è semplicemente un eroe, e tal figura da non poterla abbastanza ammirare e per le cose che fece su quel campo così novo per lui e così fecondo di difficoltà che avrebbe disanimato qualunque altro meno energico di lui; nonchè per il valore che conferirono alla scelta di cotal carriera un complesso di circostanze che hanno dell’incredibile. — Figlio di nessuno, o piuttosto un trovatello, un esposto, con padre e madre viventi, ma invisibili, irreperibili, malgrado tutti i tentativi per ritrovarli, sapevasi però amato da loro, anzi proietto, anzi clandestinamente regalato di forti somme di denaro; anzi già aperta una splendida carriera nell’esercito austriaco. Ebbene, la decisione definitiva di farsi missionario la prese appunto in qiiest’ultimo periodo di rosee prospettive, esasperato di vedersi nel più completo isolamento nel mondo, sempre deluso nella sua brama di trovare finalmente la creatura veneranda e soave, cui chiamare col santo nome di madre; e un padre da abbracciare, baciare in un impeto di intenso affetto, almeno una volta in vita e poi morire colla loro immagine incancellabile nel cuore. Non.1i potè trovare, ma li aveva’ intravveduti. Lo aveva dato alla luce una povera vittima della seduzione; era il seduttore, uno di quei tanti gallonati dell’esercito di qualunque paese. Tuttavia, abbastanza galàntuoino quest’ultimo di abbandonare bensì al suo destino la fragile creatura cui rapì irreparabilmente l’onore, sdebitandosi con un po’ di danaro, non

fece così col figlio del suo peccato. Istinto irresistibile di natura non del tutto traviata, e anche un resto di senso d’onore inculcatogli alla scuola militare, lo spinsero a far molto di più per lui. Sì, Federico Delfiore aveva intravveduto gli autori dei suoi giorni, li conoscevano anche i vicini di casa della casa ospitale in cui venne raccolto, bimbo appena nato, da poveri, ma" onesti e virtuosi contadini: Un giorno un suo coetaneo, in uno sfogo di bassa vendetta, gli aveva lanciato in volto, sferzante come una scudisciata, l’epiteto: «bastardo». Per un cuore sensibile e delicato questo era troppo; tutto gli persuadeva che bisognava sottrarsi al disonore, cercando una terra lontana che ignornasse tante vergogne, e, meno ingiusta della civile Europa, non facesse scontare a un innocente la colpa di un miserabile seduttore, nonchè delle persone sulle quali versare i tesori di affettuosità che non poteva accordare alle creature a lui più vicine per natura. Religiosissimo poi come egli era, non tardò a posare il suo pensiero eroico sulle missioni africane. Il giorno in cui diede l’estremo saluto alla patria, e baldo e intrepido ne varcò i confini per sempre, il ceruleo suo occhio, tutto un riflesso dell’azzurro del nostro bel cielo, sfavillava di luce; la bionda capigliatura faceva l’effetto d’un bimbo dorato che cingesse di gloria il bel volto tutto insublimato di celesti ideali. Il passo era fermo, coraggioso, quale si addice ai campioni delle cause più nobili. Nel 1877, come già dicemmo, Federico Delfiore, a sua richiesta si interna solo nell’Africa tenebrosa e d’uno sguardo misura tutta l’ampiezza sconfinata di quel campo d’azione apostolica: ’milioni di nefino all’ultimo grado e sedenti nelle gri tenebre di morte religiosa che reclamano una mano fraterna per redimerli. Egli, semplicemente laico, soltanto catechista, cosa poteva fare in bene di tanti idolatri? Nulla e tutto. Sorretto da una fede incrollabile in Dio del quale ha in mano non dubbi pegni di vocazione e di favore, si accinge all’opera di abbattere le prime barriere del regno di Satana; le barriere cedono e si sfasciano. Col pretesto di farla da medico -- e veramente ha non poche cognizioni di sanitario e di farmacista -n’approfitta per introdursi presso gli idolatri; si fa rispettare, impone sensi di simpatia, di fiducia; parla del regno di Gesù Cristo; amministra il battesimo a bambini e adulti moribondi; apre scuola di catechismo, apre una cappella. In tre anni di indicibili stenti, si af ferma come un apostolo, e conduce la messe trovata appena biancheggiante, a piena maturità, pronta ad introdurvi i sacerdoti che verranno in tempo a prenderne la consegna prima che egli muoia. In questo triennio di apostolato ebbe egli pure le ore grige di scoramento, e il demone della tristezza lo assalì per abbatterne il coraggio e la costanza. Il cuore gonfio di passione, e l’occhio nuotante nelle lacrime, tradirono più’volie l’interna letta fra il risentimento d’un uomo che sente ancora il [p. 372 modifica]fuoco delle passioini, e l’umiltà del cristiano, e la carità dell’apostolo. Era una tentazione fugace. Più violenta si fece quando suo padre si decise a dargli il suo nome, legittimando in faccia alla società e, col nome, l’immensa sua sostanza. Aveva brigato presso il console austriaco residente a Porto-Novo per il richiamo di Federico in Europa. Che farà il ìíostro eroe? Null’altro che l’ultimo passo nella ascensioine alla vera gloria: rinunciare alle troppo tarde offerte d’un padre ravveduto e persuaso del suo dovere; e tener fede a Dio ed ai poveri negri, ai quali erasi irrevocabilmente consacrato. Restò sul campo delle sue fatiche apostoliche, sotto un clima- micidiale; sperduto in un paese sconosciuto, seminato di pericoli e ’di insidie incredibili per parte della natura e degli uomini; tra gli orrori delle guerre, di malattie epidemiche che facevano strage di vite umane. Af franto, invecchiato, quasi irriconoscibile, a 25 anni, ma tutto ardore di carità per Cristo e le anime da lui redente, spegnevasi tra le braccia dei suoi poveri negri il 3 maggio 1879. Queste vicende che paiono romanzesche, ma pure realmente accadute e da pochi anni intrecciate ad una profusioine di notizie storiche, geografiche, scientifiche sul passato ed il presente del centro dell’Africa, su quei selvaggi costumi, sulla schiavitù e le condizioni miserrime dal lato non solo religioso-civile e sociale, ma anche dal puro lato umanitario, le racconta in un magnifico volume dal titolo messo da noi in capo a questo articolo, Roberto Tonolli, che poi cedette a vantaggio delle Missioni africane della Congregazione del Sacro Cuore di Verona, presso la qual casa è pure vendibile per la cifra di tre lire di nostra moneta. Per me il minor merito che a tal libro riconoscerei, sarebbe quello di poter competere per tesi umanitaria, col celebre volume — La Capanna dello zio Tom — se le cose nostre fossero valutate come quelle di ordine puramente terreno; tale e il quadro veristico terribile della schiavitù africana, senza confronto peggiore di quella d’America, combattuta dal libro suddetto. Non parlo dei pregi intimi e proprii dell’argomento principale la redenzione d’un popolo da tutti abbandonato e da Dio in modo supremamente onorifico riserbato al nostro secolo, a noi, alle nostre iniziative entusiastiche di ministero sacro, alle nostre offerte, alle nostre preghiere. Quale impresa da far trasalire i più generosi; quale magnifica arena ove giostrare in favore dei più delicati e vitali interessi di Dio e dei nostri simili così dimenticati; qual gloria.