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IL BUON CUORE 371


" Un Missionario Trentino nell’Africa Tenebrosa „

Il 31 gennaio del 1875 partiva da un paesello del Trentino, per recarsi alla Casa delle Missioni africane di Lione, un giovane ventenne, Federico Delfiore. Accetato, incorporato in quella famiglia di sacerdoti eroi della carità cristiana come fratello catechista, dopo circa dieci mesi di talquale noviziato, riceveva il simbolo, crocefisso del missionario, e l’8 dicembre 1875 s’imbarcava a Marsiglia per la missione del Bernin nel Dahomey, il vastissimo regno dell’Africa occidentale sotto la zona torrida. Giunto a Porto-Novo, vi restò oltre un anno per apprendere la lingua di quei popoli; e solo la metà del giugno 1877 si internava nel centro del Dahomey con un Padre che indi a poco a poco lo lasciava solo a preparare la strada, benché con promessa di presto ritorno. Ma la scarsità di persona le era tanta che Federico Delfiore non ebbe che poco prima della morte i tanto sospirati padri, cioè dopo tre anni di improbo lavoro per dissodare, egli il primo pioniere di civiltà evangelica, quelle barbari vergini terre colpite da duplice maledizione: quella comune a tutte le altre, e quella speciale fulminata contro Cam e suoi discendenti. Il fondatore della «missione di S. Giuseppe» è semplicemente un eroe, e tal figura da non poterla abbastanza ammirare e per le cose che fece su quel campo così novo per lui e così fecondo di difficoltà che avrebbe disanimato qualunque altro meno energico di lui; nonchè per il valore che conferirono alla scelta di cotal carriera un complesso di circostanze che hanno dell’incredibile. — Figlio di nessuno, o piuttosto un trovatello, un esposto, con padre e madre viventi, ma invisibili, irreperibili, malgrado tutti i tentativi per ritrovarli, sapevasi però amato da loro, anzi proietto, anzi clandestinamente regalato di forti somme di denaro; anzi già aperta una splendida carriera nell’esercito austriaco. Ebbene, la decisione definitiva di farsi missionario la prese appunto in qiiest’ultimo periodo di rosee prospettive, esasperato di vedersi nel più completo isolamento nel mondo, sempre deluso nella sua brama di trovare finalmente la creatura veneranda e soave, cui chiamare col santo nome di madre; e un padre da abbracciare, baciare in un impeto di intenso affetto, almeno una volta in vita e poi morire colla loro immagine incancellabile nel cuore. Non.1i potè trovare, ma li aveva’ intravveduti. Lo aveva dato alla luce una povera vittima della seduzione; era il seduttore, uno di quei tanti gallonati dell’esercito di qualunque paese. Tuttavia, abbastanza galàntuoino quest’ultimo di abbandonare bensì al suo destino la fragile creatura cui rapì irreparabilmente l’onore, sdebitandosi con un po’ di danaro, non

fece così col figlio del suo peccato. Istinto irresistibile di natura non del tutto traviata, e anche un resto di senso d’onore inculcatogli alla scuola militare, lo spinsero a far molto di più per lui. Sì, Federico Delfiore aveva intravveduto gli autori dei suoi giorni, li conoscevano anche i vicini di casa della casa ospitale in cui venne raccolto, bimbo appena nato, da poveri, ma" onesti e virtuosi contadini: Un giorno un suo coetaneo, in uno sfogo di bassa vendetta, gli aveva lanciato in volto, sferzante come una scudisciata, l’epiteto: «bastardo». Per un cuore sensibile e delicato questo era troppo; tutto gli persuadeva che bisognava sottrarsi al disonore, cercando una terra lontana che ignornasse tante vergogne, e, meno ingiusta della civile Europa, non facesse scontare a un innocente la colpa di un miserabile seduttore, nonchè delle persone sulle quali versare i tesori di affettuosità che non poteva accordare alle creature a lui più vicine per natura. Religiosissimo poi come egli era, non tardò a posare il suo pensiero eroico sulle missioni africane. Il giorno in cui diede l’estremo saluto alla patria, e baldo e intrepido ne varcò i confini per sempre, il ceruleo suo occhio, tutto un riflesso dell’azzurro del nostro bel cielo, sfavillava di luce; la bionda capigliatura faceva l’effetto d’un bimbo dorato che cingesse di gloria il bel volto tutto insublimato di celesti ideali. Il passo era fermo, coraggioso, quale si addice ai campioni delle cause più nobili. Nel 1877, come già dicemmo, Federico Delfiore, a sua richiesta si interna solo nell’Africa tenebrosa e d’uno sguardo misura tutta l’ampiezza sconfinata di quel campo d’azione apostolica: ’milioni di nefino all’ultimo grado e sedenti nelle gri tenebre di morte religiosa che reclamano una mano fraterna per redimerli. Egli, semplicemente laico, soltanto catechista, cosa poteva fare in bene di tanti idolatri? Nulla e tutto. Sorretto da una fede incrollabile in Dio del quale ha in mano non dubbi pegni di vocazione e di favore, si accinge all’opera di abbattere le prime barriere del regno di Satana; le barriere cedono e si sfasciano. Col pretesto di farla da medico -- e veramente ha non poche cognizioni di sanitario e di farmacista -n’approfitta per introdursi presso gli idolatri; si fa rispettare, impone sensi di simpatia, di fiducia; parla del regno di Gesù Cristo; amministra il battesimo a bambini e adulti moribondi; apre scuola di catechismo, apre una cappella. In tre anni di indicibili stenti, si af ferma come un apostolo, e conduce la messe trovata appena biancheggiante, a piena maturità, pronta ad introdurvi i sacerdoti che verranno in tempo a prenderne la consegna prima che egli muoia. In questo triennio di apostolato ebbe egli pure le ore grige di scoramento, e il demone della tristezza lo assalì per abbatterne il coraggio e la costanza. Il cuore gonfio di passione, e l’occhio nuotante nelle lacrime, tradirono più’volie l’interna letta fra il risentimento d’un uomo che sente ancora il