Il buon cuore - Anno XII, n. 46 - 15 novembre 1913/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 46 - 15 novembre 1913 Religione

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Lettere dall’Inghilterra

LA CACCIA



Ricorderete, senza dubbio, quelle stampe caratteristiche che, per oltre un secolo, attraversando la Manica, hanno invaso il Continente e che si vedono ancora su le pareti di qualche vecchia casa di campagna o di qualche salotto provinciale. Sopra il verde chiaro dei prati sullo sfondo delle colline a curve eguali, si staccano, quasi in rilievo, i cavalli oscuri, gli abiti rossi dei cavalieri, le mute dei cani macchiati In un angolo del quadro si profila una siepe scheletrica, ma non un albero rompe la monotonia del paesaggio. I cavalli, impazienti del salto, hanno le forme snelle e pure dei loro consanguinei che, alla stessa epoca, popolavano altre stampe inspirate ai primi trionfi inglesi nelle gare ippiche. È la solita scena di caccia che si incontra in ogni volume delle edizioni «Tauchnitz» tra una dissertazione religiosa e filosofica sul pesimismo o il racconto della perplessità di due fidanzati che::cn mostrano alcun desiderio importuno d’affrettare la conclusione del libro. I romanzi che acompagnano nelle lunghe peregrinazioni le giovani e le vecchie zitelle inglesi, ricorrono volontieri alla solita scena venatoria, perché ne conoscono da molto tempo l’effetto su l’animo delle lettrici e speciamente su l’animo di quelle che debbono accontentarsi delle soddisfazioni della fantasia. La caccia inglese è ancor oggi la stessa caccia delle stampe e dei romanzi. Il verde del paesaggio, anche dopo la fugace canicola, è tenero e intenso: ha la fallace freschezza di un volto che non porti traccie di roventi passioni nè di grandi dolori. Le comitive equestri attraversano al galoppo le ampie praterie, superano al salto le magre siepi e i modesti rigagnoli, con gli abiti e le foggie, lievemente ringiovanite, dei secoli scorsi.

Il comune mortale che, con la debita licenza e col fucile ad armacollo, esca a girovagare per le campagne pieno di micidiali propositi, lasciandosi guidare a caso dal sentiero e dal cane, è ignoto in Inghilterra; i cittadini devoti di S. Uberto che, alla domenica, o, per meglio dire, nel pomeriggio del sabato, vogliano concedersi qualche modesto sfogo venatorio, sono costretti ad appigliarsi alle tranquille innocue... canne da pesca.

La ragione principale di questa come di molte altre cose in Inghilterra, è puramente politica. Se qualche pacifico borghese, che non possiede nè castelli nè parchi, nè ha modo di farvisi invitare, si duole di non poter emulare le glorie di Nembrod, deve prendersela anzitutto con la storia patria. Se l’Inghilterra avesse avuto una buona rivoluzione, a quest’ora anche la caccia sarebbe libero patrimonio di ogni onesto cittadino.

Vi fu, è vero, anche in Inghilterra una rivoluzione che fece persino cadere su di una piazza pubblica molto tempo prima che in Francia, una testa regale; ma Crowell seppe dirigerla in modo che il buon pubblico potè e può ancora oggi considerare come una specie di rivoluzione bizantina. Le onde, che da oltre un secolo hanno sconvolto l’Europa, si sono infrante impotenti contro gli scogli del tradizionalismo britannico. I maggioraschi e i diritti di primogenitura vi si ergono tuttora come incrollabili rocche: la terra non vi è sminuzzata dalle divisioni ereditarie e la selvaggina erra, a sua volta, liberamente per entro i grandi fondi gentilizi, sicura di non cadere sotto gli ignobili colpi del primo venuto; essa è, per cosi, dire, immunizzata legalmente contro il terrore democratico.

Veramente, a rigor di termini, non si potrebbe [p. 362 modifica]neppur chiamar la selvaggina perchè il più delle volte, è «preparata» con tanta cura che si avrebbe quasi il diritto di ritenerla addomesticata. I fagiani e le pernici che popolano queste boscaglie non hanno mai provato le gioie e i terrori del nido appiattató tra le forre: sono semplici prodotti di uova importate e fatte covare da bipedi molto meno nobili. La caccia classica, tipicamente indigena, è ancora la caccia al a grouse» (Lagopus scotiens) che ha luogo appunto in questo periodo dell’anno. _ Gl’inglesi (che lo possono) hanno, come è noto, vari modi di passare le vacanze estive. Taluni Si spingono in Isvizzera a godersi la vista dei ghiacciai e gli strenui piaceri dell’alpinismo, altri frequentano le spiaggie francesi o le stazioni d’acque tedesche, altri più semplicemente si recano a far visita ai loro amici in campagna. Ma uno dei modi più caratteristici nell’alta società è quello di recarsi alla caccia del grouse. Le altre selvaggine (per cui la caccia si inizia più tardi) si possono trovare in tutte, o quasi, le campagne del Regno Unito; ma il grouse esiste solo nella Scozia e nel Nord dell’Inghilterra e del Paese di Galles, ed abita essenzialmente nei così detti moozs: vaste estensioni di terreni montuosi incolti e per lo più incoltivabili, coperti di eriche color rosa-violaceo. Tali terreni privilegiati hanno un valore commerciale considerevole: vengono affidati per un mese’ o due, nella stagione di caccia, a prezzi quasi favolosi. Un piccolo moog sul quale si ammassino un duecento paia di uccelli, (i gruses si contano sempre a paia o graces si paga -da 200 a 300 sterline! Quelli più vasti costano, naturalmente, assai più e salgono sino a parecchie migliaia di sterline. L’aristocrazia terriera scozzese Possiede molti beni nelle Highlands e ne ricava un profitto magnifico solo affittandoli in parte durante il periodo di caccia. Terreni deserti ed inospiti, senza un palmo di coltivazione, vengono, in tal modo, ad essere una fonte d’income delle più vantaggiose. Pochi mantengono i moors in proprietà per cacciarvi privatamente: si tratta di lusso riservato ai sovrani della ricchezza terriera. L’inglese, del resto, non caccia mai solo. E ciò rende la funzione alquanto complicata. Bisogna far gli inviti giudiziosamente, in modo da non avere né troppi ne pochi tiratori, essendo il numero egli uccelli che si possono uccidere stabilito nel contratto d’affitto, tanto che si tiene conto esatto di ogni volatile ucciso. Vi è poi una nota di color locale, caratteristica. I cacciatori, originari o meno, delle Highlands vestono tutti il tradizionale costume scòzzese che consiste in una giacca corta di velluto nero con bottoni d’argento, a gilet» nero aperto e il classico a kilt D: una sorta di gonnella che arrivi al ginocchio, di color vario a seconda dei varii clans o tribù territoriali, con una borsa di pelo bianco di capra, appesa sul davanti. Le calze lunghe di lana lasciano scoperti solo i gi nocchi e su la spalla sinistra è appeso una specie di mantello o plaid di colore simile ala kilt». Questo costume, salvo lievi mutamenti, era una volta generale nelle Highlands. Venne proibito dopo la rivoluzione del 1745, quando gli Highlanders combatterono dalla parte del Pretendente. Ora è risorto per iniziativa di alcuni lords, cultori delle tradizioni locali, e il suo uso ricevette, anni or sono la consa crazione ufficiale da parte dello stesso re Edoardo, che volle indossare durante le pubbliche cerimonie quando fu a visitare il paese, ospite di lord Rosebery. Ma ciò riguarda, naturalmente, la sola caccia al grouse. Per le altre la varietà delle mode e dei modi è infinita, benchè, in fondo, la scena sia quasi sempre la stessa. Generalmente, la caccia si fa a battuta e con un complesso di norme che le tolgono a priori ogni -attrattiva di avventura. Si riduce, in ’sostanza, a una specie di tiro... al piccione, con una qualità meno comune di vittime predestinate. L’ospite padrone concede sempre i migliori posti agli invitati, ma chi, fra questi, non sappia mostrarsi buon tiratore, può quasi esser certo di non ricevere più altri inviti. Un doppietto quotidiano non basta: i tiratori esperti sogliono sempre fare un doppio doppietto, ossia abbattere almeno quattro volatili di un solo storno, tirando quattro colpi consecutivi. Bisogna però notare che, in quasi tutte le partite, ogni cacciatore è seguito da un servo che ricarica e. porge lestamente i fucili di ricambio. Ad ogni modo, quando le vittime non sommano a centinaie,. la caccia è considerata un insuccesso e l’ospite suole generalmente chiederne venia agli invitati, ripromettendosi la rivincita per il gorno appresso. In quanto alle varazioni sentimentali dei cuori femminili su la strage degli innocenti volatili, ne sono pieni solo i romanzi di Tauchnitz. La realtà è ben diversa... Comunque, le stragi condotte con tanto accanimento non tardano a spopolare i parchi e le foreste, ed è perciò che la stagione di caccia non può durare, in ogni castello, che poche settimane. I grandi signori a cui la più o meno avita fortuna concede il lusso di avere parecchi castelli, passano, con un nuovo corteo di invitati, dall’uno all’altro. Senza un largo numero di inviti la caccia non ha alcuna attrattiva: le brigate non si prefiggono certo di godersi in pace la libertà delle campagne inglesi o delle montagne scozzezi. L’etichetta venatoria impone anzi un fasto che la stessa metropoli non esige. Ogni castellano si dà cura di superare il vicino. In certi romiti castelli scozzesi impiantano persino, durante l’epoca della caccia, uffici telegrafici provvisorii, perchè gli ospiti abbiano a trovarvi tutto il confori che loro offre abitualmente il club cittadino. Le partite s’iniziano, generalmente, verso le otto del mattino per terminare verso le cinque o le sei di sera, intrammezzate, beninteso dal classico lunch all’aria aperta. Alle otto, padroni ed ospiti si riuniscono nel castello per il pranzo e qui la scena è ben poco [p. 363 modifica]dissimile da quella abituale nei palazzi di Londra. Anche nelle più remote e deserte regioni delle Hinglands le mense vengono imbandite col massimo sfarzo, tutte adorne di fiori e di suppellettili preziose. Gli uomini vestono il frak di rigore con cravatta bianca, e le dame, in décolleté, sfoggiano toillettes e gioielli non meno che nel colmo della season londinese. E’ perciò che la stagione delle caccie, in Inghilterra non porta solo la strage fra i volatili e i rosicchianti delle grandi tenute, ma anche, e forse più nei bilanci domestici. Vi sono, per esempio, famiglie dal blasone, non troppo dorati che, per sostenere le spese della stagione venatoria (cui sarebbe delitto di lesa dignità rinunziare) si ’sottopongono, durante l’anno, ad economie inverosimili. Quella, più comun.consiste nel passar l’inverno sul Continente e, di pre ferenza, in Italia... E poi si parli ancora del caro-viveri nel nostro beato paese! Rodolfo Rampoldi.

Sui margini della storia

Il primo fondatore dei Monti di Pietà.

Recenti indagini storiche ci hanno messo in grado di dare un piccolo contributo alla storia di Milano, rivendicando ad un cittadino milanese il merito di essere stato il primo fondatore dei Monti di Pietà. Già fin dal settecento il Pellini nella Storia di Perugia, e nei tempi nostri Anselmo Anselmi (Monte di Pietà di Arcevia), Fabretti Ariodante (Nota storica intorno all’origine dei Monti di Pietà in Italia), Lodovico da sse, capp. (Vita del B. Bernardino da Feltre), P. Holzapfel, ofm, (Origine dei Monti di Pietà),e qualche altro scrittore hanno richiamata l’attenzione sul B. Michele Carcano da Milano come iniziatore o per lo meno propagatore dei Monti di Pietà. Ma non hanno messo in chiara evidenza la questione storica, nè hanno dato trionfalmente il merito al grande uomo che per prime, ha speso l’infuocata parola lanciando l’idea, che vide incoronata nell’erezione del primo Monte di Pietà. Tanto è vero, che il ch. P. Corna, ofm., nel suo dotto lavoro: I Fran cescani e il Monte di Pietà di Piacenza, pubblicato nel 1909 nell’Archivium Franciscanum Historicum seguendo il Manassei, Wadding e Holzapfel, ne ha dato il primato a P. Barnaba Manassei da Terni. dell’Ordine dei Minori. Il più fervido e più efficace organizzatore dei Mon ti di Pietà, riconosciuto da tutti gli storici, è senza dubbio il 13. Bernardino da Feltre dei Minori. L’il lustre economista e propagandista delle Banche popolari in Italia, Luigi Luzzatti (Credito e Coopera

zione) ne fa uno splendido panegirico: a I discorsi del B. Bernardino da Feltre per opporre alla marea montante dell’usura la diga dei Monti di Pietà, per costruire queste fortezze sociali del popolo contro i sozzi trafficanti di denaro, per costruire il fondo di riserva con gli stessi criterii moderni per la difesa della legittimità dell’interesse del denaro... paiono freschi e offrono a noi tutti un modello di santa semplicità e di apostolica eloquenza. A contatto col po polo, come tutti i frati Minori facevano sotto l’influenza di San Francesco, il B. Bernardino ne aveva imparato le gioie e i dolori, e aveva compreso che bisognava sin da questa terra trarlo fuori dall’inferno delle privazioni materiali che lo affliggevano. Sotto questo rispetto l’opera di Bernardino precede di cinque secoli l’enciclica: De conditione opificum, e il Monte di Pietà che era la Banca Popolare alla fine del secolo XV, nacque allora con gli stessi entusiasmi verginei, coi quali si iniziarono le nostre istituzoni sociali; egli fu il precursore di Schulze, Delitzch, di Raf feisen e di tutti noi...». Ma quando il B. Bernardino da Feltre scese in campo, già erano stati fondati dai suoi confratelli i Monti di Pietà di Perugia, Orvieto, Gubbio, Foligno, Monterubbiano, Terni Recanati, Macerata, Urbino, Assisi, Pesaro, Cagli. Viterbo, ed a Padova — quando il B. da Feltre era guardiano del convento di San Francesco, nel 1469 -- vide sorgere il Monte di Pietà per opera del B. Michele Carcano da Milano, anzi, come riferisce il P. da Besse, nello stendere gli statuti dei Monti d; Pietà esigeva, comé il B. Michele, il pegno con interesse minimo per sostenere le spese inseparabili dal Monte Pio. Quest’opera sorse gigante nel quattrocento per opporre un forte argine contro l’usura ebrea, che costituiva uno dei mali morali ed economici più esiziali di quel tempo. Gli ebrei erano diventati eccessivamente trafficanti, esigendo nei prestiti perfino il 5o per cento. Non vi era altro mezzo che contrapporre una specie di banca popolare per soccorrere le miserie senza ripetere interessi esorbitanti. Í Monti di -Pietà furono i veri istituti di beneficenza o di prestito che davano ai bisognosi il necessaro contro pegno, a fine di proteggerli dalle spogliazioni degli usurai. Nel medio evo troviamo dei precursori di queste istituzioni, specialmente tra ebrei e lombardi, in quanto che gli tini e gli altri imprestavano su pegno. Ad essi però mancava un carattere essenziale dei Monti di Pietà, il principio, cioè, della beneficenza. Essi non volevano, par carità cristiana al prossimo, procacciare il credito ai loro simili bisognosi, ma dirigevano ogni sforzo ad arricchire sè medesimi. I Frati Minori in forza della loro vita evangelica, essendo a contatto non solo coi dotti e con i grandi signori, ma specialmente col popolo del quale sentivano i lamenti, poterono iniziare la grande istituzione e condurla al suo svolgimento portando la vera risurezzione al popolo gemente sotto la pressione dell’usura. S. Bernardino da Siena, S. Giovanni da Capistrano, S. Giacomo della Marca ed altri frati mi [p. 364 modifica]noni colle loro predicazioni avevano già conquistata la fiducia del popolo italiano e la grande stima de:. potenti signori e dei dotti più celebri. Il campo era già preparato. I loro discepoli già formati da questi grandi pionieri della risurrezione dei popoli, dopo varie discussioni tenute nelle loro assemblee general, stabilirono un unico programma, approvato dai più rinomati giuristi, presi anche dall’Ordine deí Frati Minori. Onde l’erezone dei Monti di Pietà divenne cosa quasi esclusiva dell’Ordine, il quale ne curò e protesse lo sviluppo da meritarsi la solenne approvazione dei romani Pontefici, e del Concilio Lateranese IV. Onde il P. Bernardino Busti con ragione poteva dire agli avversarii dei Monti di Pietà di cessare dal combattere la grande istituzione, inventata e raccomandata dai predicatori dell’Ordine dei Minori. Barion af fermava la stessa cosa, quando scriveva che l’ardore col quale i Minori si occupavano di questa istituzione si spiegava dall’essere questa una creazione propria di loro. E potremmo aggiungere in conferma i documenti degli Archivi dei Monti di Pietà, fondati nella seconda metà del quattrocento e nei primi decenni del secolo XVI. A Milano, per citare un solo esempio, si conserva gelosamente nell’Archivio del Monte di Pietà la patente di fratellanza, che nel 1 2 aprile 1503 il P. Gerolamo Tornielli vicario generale dei Frati Minori, accordava ai deputati del Monte Pio e loro famiglie. Ed il Calvi (Vicende del Monte di Pietà in Milano) non solo dà il merito della fondazione del Monte di Pietà al P. Domenico Poncione ed al P. Colombano dei Minori, ma accenna altresì a qualche piccolo favore conceduto dal Monte Pio ai Minori di Milano. (Continua).