Il buon cuore - Anno XII, n. 41 - 11 ottobre 1913/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 41 - 11 ottobre 1913 Religione

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Per colei che tutti amiamo



Ignoro quanti fra i miei lettori facciano delle concesioni allo spirito romantico. Per mio conto non è senza compiacimenti che me ne sento immune; non già perchè le fantasmagorie romantiche manchino di fascino, ma per il fatto, appunto, che da esse emana uria suggestione sottile contro la quale bisogna reagire. Opino che il neo-romanticismo costituisce un disordine intellettuale e che occorre mettere la nostra ragione in tutta la sua efficenza difensiva per fare argine agli entusiasmi malefici che esso può produrre. Leggo con molto piacere il San Giorgio, che è una rivista interessante, compilata da scrittori di talento, ma leggendola mi auguro che essa rimanga vana di risultati e sterile di adepti, per la maggior salute dello spirito nazionale che occorre educare alla disciplina del sentimento, libero dalla malsana emotività romantica, e regolato da quel senso di ordine, di armonia e di equilibrio che è retaggio del classicismo.

Tinto ciò può sembrare un po’ complicato, un po’ solenne, come premessa alle semplici considerazioni di questo articolo che mi vien suggerito dalla notizia (pubblicata giorni addietro) che a Venezia i gondolieri si sono riuniti per preparare la costituzione di una cooperativa per un servizio di canotti automobili destinati in tempo più o meno breve a sostituire le gondole. Ma tant’è: occorre indulgere alle facezie dei pochi che registrando la notizia nei loro giornali l’hanno postillata con molta compiacenza, ridendo a quattro ganasce «dei romantici, degli artisti, degli esteti», che non capiscono niente al progresso (anzi: al Progresso — con la maiuscola); sono nemici della modernità, hanno un’anima antiquata e sono in conclusione dei buoni a nulla.


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La luna pallida, la laguna ardente e la loggetta del Sansovino interessano moltissimo romantici, esteti ed artisti; ma si può mediocremente intendersi di arte, aborrire dall’esterismo, respingere le tentazioni romantiche, e nondimeno ribellarsi alla deplorevole iniziativa dei gondolieri di Venezia, augurando cordialmente che il fallimento della loro «Cooperativa canotti automobili» non tardi troppo.. Nè occorre esser passati da Eugenio Giovani-letti a far provvista di neo-romanticismo per insorgere contro questa minaciata scomparsa della gondola: colei che tutti amiamo! È in essa l’anima di una intera città — unica al mondo, il simbolo di tutto un passato, la sintesi di tutto un poema, un poema che ha soggiogato i popoli. C’è il Leone, lo so; e l’incomparabile vedetta del Campanile — «com’era, dove era» — ; e il Ponte dei Sospiri... ma nulla e nessuno quanto la gondola ha mai ripetuto, con tanta suggestione, con tanta evidenza, con tanto amore, alle più lontane genti, la poesia e la gloria di Venezia. Ardente; luminosa ed appassionata, che diverrebbe essa il giorno in cui le sue gondole, i suoi canali ed il suo cielo non si confondessero più nell’armonico quadro della loro comune bellezza? Nessuna città - dopo Roma condensa in sé, quanto Venezia, in tutti i particolari della sua esistenza tradizionale, in tutti gli aspetti della sua fisionomia, quel senso della terra patrum mercè il quale la natura si presenta a noi sotto un aspetto famigliare e caro; quadro meraviglioso in cui ogni particolare acquista un significato ed un simbolo, in cui è l’impronta di coloro che furono prima dì noi, e che non dovremmo toccare; poichè — come scrisse Barrès — ogni atto che smentisca la nostra terra ed i nostri morti è una menzogna che si isterilisce.

Chi può negare, orbene, che la gondola si trovi incastonata nella stessa natura della laguna, e non, sia parte inscindibile della «terra» veneziana? [p. 322 modifica]Ci parrebbe, quasi, di veder morire Venezia medesima, il giorno in cui dai suoi canali essa sparisse; e un po’ dell’incantesimo del suolo d’Italia svanirebbe per sempre... Eccoci lontani dalle visioni sentimentali e dalle concezioni romantiche, alle quali non c’è, in verità, bisogno di ricorrere per difendere la gondola da coloro che la vorrebbero sommersa per sempre: basta appellarsene ai diritti dello spirito tradizionale, substrato necessario alla vitalità nazionale ncl quale debbono rimanere avvolte e protette anche le cose in apparenza più umili e più semplici, qu-ndo esse siano parte integrante del retaggio di bellezza del nostro paese.

Rammenterò sempre il sorriso fatto di ironia appena larvata e di sdegno represso col quale tre anni fa a Bruges, la nobile damigella van Hamme de Stampaertshoncke, superiore degnissima di quel Bèguinage, si compiaceva narrare alla nostra comitiva di giornalisti torinesi che a Bruges si progettava di impiantare i tram elettrici e di metter su immensi empori di novità proprio in quella meravigliosa Place du Bourg che è tutta un trionfo ed una gioia di architettura e di arte gotica. C’era in quel sorriso la visione netta e sconfortante dell’irreparabile disastro che simile modernismo edilizio avrebbe costituito per la vetusta e gloriosa città fiamminga. In verità, che ne sarebbe di Bruges, di Bruges-laMorte, il giorno in cui i tozzi e variopinti carrozzoni tramviari turbassero la pace assoluta, la melanconia di una dolcezza senza fine del suo Lac d’Amour silente e fiorito? Oh! fascino senza pari della città tutta raccolta nel prestigio del suo passato, deserta di uomini, popolata di marmi, di tele, di guglie, di cappelle e di palazzi che sono tesori e ripetono al visitatore attonito la gloria senza ritorno del Medio Evo e lo splendore dell’arte fiamminga, per quale aberrazione la gente del nostro tempo potrebbe contaminare tanto splendore, e mettere in opera il piccone demolitore, onde far largo a qualche gigantesco e mostruoso antro mercantile? Seppi più tardi che il pericolo era stato scongiurato: l’ingranaggio affaristico nel quale Burges-laMorte rischiava di rimanere impigliata si era fermato, in seguito alla rivolta dell’immensa maggioranza dell’opinione pubblica. Meglio così! Ma io credo che se un giorno dovesse veramente perpetrarsi la minacciata profanazione della meravigliosa città fiamminga, fin Carlo il Temerario ne fremerebbe di sdegno nel suo sarcofago della Cattedrale, e insorgerebbe, con la spada che sa l’antico valore, a mozzare le teste dei novelli barbari. t Ah! sì, andate a dire tutto ciò ai maniaci del fatalismo progressista, se volete, farli ridere di compasiione e sentirvi dare dell’oscurantista — in voce tre mula — . Eppure, spesso, il ridicolo e l’assurdo sono dalla loro. Non più tardi di cinque anni fa, ad esempio, misero la Svizzera a soqquadro per influenzare il governo e strappargli la concessione di una ferrovia che salisse il Cervino sino alla vetta! Anche allora era in ballo il progresso ineluttabile, il quale esigeva assolutamente per il benessere umano e per il trionfo della civiltà, che il colosso alpino venisse deformato, raschiato, vivisezionato, e regalato per giunta di un berretto da notte — ossia di una immensa gabbia di vetro — sul cocuzzolo, per dar agio, a chi non potesse farlo con le proprie gambe, di andare a veder le novità che ’ci sono a quattromila metri e più. Si capisce subito quale immenso vantaggio l’umanità ed il progresso avrebbero ricavato dal fatto che, ogni anno, quelche centinaia di turisti annoiati e blasés e alcune dozzine di cagnolini per bene, t vessero potuto sedersi a colazione nella suddetta gabbia di vetro, e far scattare i loro Kodak nel punto dove, or sono quasi cinquant’anni, si svolse l’orribile catastrofe della prima ascensione. Lo si -capì così bene, che il Consiglio Federale svizzero (nel quale gli esteti sono piuttosto rari...) malgrado tutte le pressioni degli interessati rispose picche, negò cioè la concessione per la ferrovia, e si ebbe le congratulazioni di quanti opinano che il progresso. per esser veramente tale, non deve esautorarsi nel grottesco. Modernizzato a quel modo il Cervino avrebbe perduto per sempre la sua fisionomia; ed il solitario re delle Alpi che è per gli Svizzeri un obelisco glorioso, nel quale sta inciso il simbolo e la sintesi delle bellezze e della indipendenza della. Patria,’ si sarebbe mutato in un albero di cuccagna per Tartarin. Si tratti, insomma, delle meraviglie gotiche della Fiandra, della cuspide nevosa del Cervino, o della gondola veneziana, la quistione va prospettata sotto un aspetto essenziale: quello dell’intangibilità di tutto il patrimonio di cose belle che furono testimoni maggiori della grandezza, dello splendore degli avi; in cui essi molto trasfusero della loro anima, affinchè costringendoci alla visione perenne del passato, potessimo — guidati dall’antica saggezza — non abbandonare la via del bene nè disperderci per i sentieri del brutto. Non mi illudo al punto di credere che un simile ragionamento sia suscettibile di convincere molto i gondolieri di Venezia, supposto che essi mi facciano il grande onore di leggere queste righe... Ma credo, peraltro, che nella regina dell’Adriatico, l’onorata corporazione non abbia ancora rubato il mestiere al Consiglio dei Dieci; che i suoi deliberati, cioè, non siano ancora inoppugnabili ed inappellabili. In verità, se havvi un caso in cui l’intervento di chi è investito delle responsabilità inerenti alla tutela del patrimonio intellettuale e materiale di una città che — come Venezia -- molto si alimenta del suo passato e delle sue tradizioni, sarebbe desiderabile e giustificato, questo caso è proprio il nostro. Chi possiede tali responsabilità non dovrebbe permettere — mi sembra — che il deliberato di una corporazione di onesti ma non.infallibili popolani tolga a poco [p. 323 modifica]a poco e per sempre a Venezia la sua più bella se non più preziosa caratteristica, rivoluzioni la vita locale, snaturi la stessa fisionomia della città rendendola più o meno irriconoscibile; e tutto ciò perchè il mestiere di lavoratore del remo, a quanto dicono, non rende più come un tempo! Verranno per tutti, non ne dubitino i gondolieri, giorni migliori, poichè i veri amici del progresso sono instancabili. L’abolii zione della gondola non è che il principio di un, ricco programma: non più tardi dell’altro giorno, infatti, un quotidiano rimetteva sul tappeto, con alquanta compiacenza, il progetto di quel mostro di genialità che voleva coprire il Canal Grande e trasformarlo incorso modernissimo, con relativi tramways, automobili, e pedoni schiacciati, guaribili in trenta giorni. Il giornale per conto suo aggiungeva che la concezione di codesto edile futurista potrà un giorno venir presa in seria considerazione dai tecnici, sempre a in nome dell’ineluttabile progresso»...

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Voi ci garantite, dunque, che il progresso è veramente ineluttabile, incoercibile ed insindacabile? E allora facciamo presto... Senza perder tempo non ritardiamo la raccolta delle spazzature edilizie di Piazza delle Erbe a Verona; trasformiamo Trinità de’ Monti in una pratica stazione per dirigibili, e quotiamoci per un ristorante moderno (arte e gastronomia) sotto la Galleria degli Uffizi. Un bel cinematografo all’aria aperta non guasterebbe nulla sul tempio di Apollo a Pompei; e non vedo perchè non illumineremmo un po’ l’oscurantismo di Assisi con delle colossali e ben disposte réclanzes luminose. Volendo, si potrebbe farla finita con la torre di Pisa, che francamente ha fatto abbastanza parlar di sè, e sostituirla con un po’ di torre tiffel illuminata a giorno. E il Castello di Milano, quel vecchio rudere di Castello Sforzesco, non sarebbe elegante e vantaggioso tramutarlo in una Casa delle Scimmie, per il maggior godimento del mondo piccino sì, ma evoluto, che va al Parco? In quanto al Campanile di S. Marco si potrebbe benissimo, con moderna iniziativa, trasformarne la Cella in un refrigerante teatrino estivo. Scommetto che, grazie al progresso ineluttabile, nel biglietto di ingresso sarebbe compresa la salita coll’ascensore... bANI ~Vi *1‘• 1,04/1 ikieg• •402.4 Ivo/ N.1.3 ’*41‘45,hok• betli P1,ArTotrilZWY*7•-W-A)**7*-Aiii.l.7•1A-iiii"Yri~.*74

Per la rinascita di una grande opera Vi è una pagina nella storia di Venezia che è ad un tempo gloria della città adriatica, d’Italia, e della. Fede; v’è una data che segna il trionfo della civiltà occidentale súlla barbarie orientale collegantesi ancora, con.l’inscindibile celato vincolo delle cause remote agli effetti lontani alle vicende della Turchia odierna; la data della battaglia di Lepanto.

E c’è a Venezia, o Meglio c’era, e tornerà ad esserci, una di quelle mirabili consecuzioni che talora l’arte, quando assurge alla più nobile espressione, fa di un grande avvenimento religioso o storico-: la cappella del rosario nen’chiesa dei SS. Giovanni Paolo. Abbiamo detto che questa meravigliosa sanzione dell’arte appartiene al passato; abbiamo anche osato affermare che apparterrà all’avvenire, benchè non più negli originari aspetti meravigliosi. Fra questo ieri di gloria e questo domani di speranza c’è una triste parentesi di desolazione e di rovina, perchè la celebre cappella fu, come è noto, distrutta da un vorace incendio, donde solo da breve tempo si è tentato di far risorgere quasi a novella vita gli sparsi frammenti. Ma riepiloghiamo con ordine le vicende dell’insigne monumento. Mentre nel 1571 il santo Pontefice Pio V a rendere grazie alla memoranda vittoria aggiungeva alle litanie Lauretane la invocazione a Auxilium Christianorum» e sanzionava l’anniversaria festività di Santa Maria delle Vittorie denominata poi del SS. Rosario, da un altro lato la Repubblica di Venezia decretava ogni anno «e per l’appunto il 7 ottobre solennità di S. Marco Pontefice e di S. Giustina, nel quale si è avuta così grande vittoria... che il serenissimo principe e la Signoria dovessero andar nella Chiesa di S. Marco et far processione solenne fino alla Chiesa. di S. Giustina ove li abbia da andar Sua Serenità per rendere gratie a Sua Divina Maestà di tanta gratia che ne ha concessa n. E si coniava la moneta della scritta a Memor ero tui Justina Virgo» e sulla grande porta dell’arsenale si collocava la statua di S. Gittstina scolpita dal Campagna, e sul mastio del forte di S. Andrea di Lido si perpetuava un’iscrizione, e per di più a ciò vegliando là pietà dei cristiani, i confratelli della Compagnia della Beata Vergine, promossero nel 1576 nascimento della cappella detta appunto del Rosario, Alesandro Vittoria ne fu l’architetto, vi aggiunse stupende opere scultorie, cui nobili fatture associarono il Corona e il Campagna e il Bonazza; e più tardi vennero i magnifici intagli del rustolon; e con i marmi concorsero le pitture fra le quali talune assai mirabili, quali quelle di Jacopo di Domenico Robusti detto il Tintoretto, di Palma il giovane, del Bassano e di Andrea Vicentino. in tutto — se bene i cronisti raccontarono e il Ber-. tolini riferisce nel suo secondo libro su Venezia — quarantacinque opere pittoriche di altissimo pregio; onde la meravigliosa cappella, oltre che un monumento di fede fu una consacrazione delle memorie delle glorie civili dello Stato.,E tale rimase per secoli, che Venezia aveva decorato in essa e per essa, con tutte le Malie della sua florida arte vivida di colori e solenne di forme, una delle sue più mirabili pagine di storia. Ma correndo l’anno’ 1867 e precisamente il i6 dí agosto, un incendio vorace compì dal pavimento al soffitto tale opera di distruzione che’ ne rimase alterato sin l’aspetto generale architettonico del santua [p. 324 modifica]rio. Infatti diroccando il tetto sconnesso e in parte abbattè i muri perimetrali, rovinò il pavimento, disperse i dossali preziosi, devastò le statue e le colonne stesse ai lati del presbiterio e della tribuna. Per di più le macerie si allagarono, finchè non fu sgombro il luogo e rassodata la muratura. Con tutto il resto erano miseramente periti un capolavoro del Tiziano e un dipinto del Giambellino che erano stati provvisoriamente posti nella cappella. Di fronte all’imperversare di una tale forza distruttrice che poteva dirsi nella sua avida cecità addirittura satanica sarebbe stata follia opporre la più lontana pretesa di poter far risorgere la cappella tale quale era. Non molti anni innanzi è vero un altro incendio altrettanto disastroso aveva distrutto quasi interamente una basilica romana, che pur andava meravigliosamente risorgendo nella bianca eleganza della sua multipla schiera di colonne: ma ciò che rendeva preclara la cappella veneta, eran sopratutto le ornamentazioni e i fini dettagli d’arte per i quali scomparsi da secoli gli artefici meravigliosi che li avevan foggiati non vi era speranza di rinascita. Tuttava come per il S. Paolo di Onorio si era detto Risorga! così per la cappella del Rosario passato appena lo sgomento, il terrore, il dolore della prima ora tragica, la voce della fede e della speranza timidamente da prima, poi sempre più alta e più chiara, ripetè la fatidica parola: Risorga! Risorga!

e.. E’ storia recente. Per salvare dalla distruzione totale la cappella fu dapprima raccolto denaro, che servì soltanto a difendere dalla furia delle acque ciò che era stato oltraggiato dalla fiamma, poi a render solenne il voto di una più degna e ampia opera di restaurazione, nel 1871 le società cattoliche di Venezia fecero murare accanto al desolato santuario una lapide consacrante la promessa di riedificare il pristino monumento. Ma il desiderio rimase per niolti anni infecondo, fino a che nel 1897 il cardinale patriarca Giuseppe Sarto, ora esaltato alla cattedra di S. Pietro, mentre si svolgeva in Venezia il Congresso Eucaristico propose, e la proposta divenne unanime deliberazione, di devolvere a beneficio dei restauri della lacrimata cappella i cospicui residui del florido bilancio del Congresso stesso. Qualche anno ancora -- così è detto nella relazione dettata intorno alla storia dei restauri dal segretario del comitato effettivo, prof. Rambaldi — qualche anno ancora e nel 19o8, dopo che Pompeo Molmenti, a suggello del suo bel libro sull’eroe di Lepanto aveva augurato il compimento del lungo sogno dì fede e di arte, Venezia presso «le nere macerie della cappella, costruita in rendimento di grazie per la vittoria» proctirava alle ossa di Sebastiano Venie «, decoro di monumento e rinnovato culto di onore». Senonchè per collocare la statua del Venier fu necessario togliere la lapide del 1871, if che sarebbe apparso come una menomazione del dolce voto fatto per il restauro, se il conte Pellegrini nel discorso inaugurale per il dlscoprimento dell’effigie del gran

Doge rimpiangendo lo scempio della cappella non avesse aggiunto: «Possa almeno aspettarsi quel giorno in cui restaurato quel che è possibile di restauro ci sia dato ammirarvi le poche reliquie tra gli splendori del culto». Ascoltavano queste parole la Regina Madre, il cardinale patriarca Aristide Cavailari, il principe Tommaso di ’Savoia plaudenti con il popolo tutto. L’ardore per ogni forma di bellezza e di decoro civile, la fierezza della divozione in quell’ora di solenni riti, diedero fausti auspici al voto rinnovellato. Anche un pio frate ascoltava umilmente, il frate cui è affidato il monumento insigne, padre Giocondo Pio Lorgna. Egli accolse la.nuova orazione nel fervido cuore come un nuovo ed alto dovere del suo ministero di sacerdote e di religioso della regola di S. Domenico. Ed il semplice frate diede al nuovo proposito la pura fiamma della carità.

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Intanto alla buona causa, specie dopo le accurate indagini tecniche del prof. Naccaro che dimostro possibili certe opere di consolidamento e di restauro, si guadagnavano seguaci di chiara intelligenza e di buona volontà. Sacerdoti ed artisti tecnici provetti e fedeli divoti delle glorie di Venezia, costituirono un comitato effettivo di cui il presidente Pompeo Molmenti, - sotto la protezione di un alto comitato di onore di cui fanno parte il Duca degli Abruzzi, il patriarca di Venezia card. Aristide Cavallari, il prefetto di Venezia Carlo Cataldi, il popolarissimo sindaco conte Filippo Grimani. Pompeo Molmenti gli altri che costituivano e costituiscono tuttora il gruppo numeroso di membri del comitato effettivo, affidarono Io studio dei lavori di restauro a una commissione tecnica: Antonio Dal Zotto, Marco Salvini, direttore della Regia Scuola d’arte applicata; e l’ing. Luigi Marangoni che aveva già dimostrata la sua intuizione di artista, oltrechè l’abilità tecnica nei lavori della chiesa di S. Marco. Il prof. Malagola ed il prof. Naccari offrirono l’amplissimo loro tributo come consultori, per- aver raccolto ricordi storici, e fatto lunghi studi sull’insigne monumento. Primo intento di questa commissione fu di limitare, ma determinare ad un tempo chiaramente il proprio campo di lavoro. Escluso infatti il concetto — così ebbe ad affermare lo stesso Marangoni — di rifare le illustrazioni pittoriche affidandole interamente all’arte contemporanea, escluso quello di ricostruire i dossali, le porte e l’altare sul muro parallelo del transetto, esclusa la ipotesi di una ricostruzione del soffitto, e di tutto insomma che fosse così divorato dal fuoco da non dare più indizio sicuro delle sue forme originarie, si è giustamente circoscritta l’opera restauratrice alla decorazione architettonica dovuta ad Alessandro Vittoria e a Girolamo Campagna; al rifacimento dell’impiantito e della trabeazione.che ricorreva alla sommità delle pareti. Al contrario per quel che riguarda il presbiterio e la tribuna si pensò ad una ricostruzione di tutta quella parte architettonica che il fuoco aveva insi [p. 325 modifica]diato ma non interamente distrutto. Questo programma di lavoro fu sottoposto al Consiglio di Belle Arti che si riservò il giudizio definitivo dopo un saggio dei restauri condotti secondo i criteri esposti dalla commissione. E finalmente, poche settimane or sono, compiuto l’esperimento e approvato dal Consiglio, si deliberò di eseguire i lavori secondo la stessa commissione tecnica si era proposta. E questa è l’ultima vittoria della faticosa e nobile campagna per una estrema opera di salvataggio della storica cappella. La vittoria migliore, perchè si è ormai sicuri che si è sulla buona via, che quanto fin qui si è fatto e si farà, se non potrà ridare tutte le bellezze perdute, non ne tradirà alcuna di quelle richiamate alla vita. Senonchè questi prodromi di rinascita han già costato tutto quello che il comitato poteva disporre per l’opera bella. Pio X, che essendo cardinale aveva destinato alla Cappella del Rosario le undicimila lire di sopravanzo del Congresso Eucaristico, divenuto Pontefice offrì per la stessa causa altre venticinquemila lire. Ed altre somme offrirono altri fervidi fautori dell’importante restauro. Nondimeno la via che deve condurre al coronamento finale dell’iniziale opera di risurrezione è lunga ed aspra. Ma troppo bella è la meta perchè possa venir meno la volontà e l’aiuto di quanti amano la religione, l’arte, la patria. TERESITA GUAZZARONI.