Il buon cuore - Anno XII, n. 39 - 27 settembre 1913/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 39 - 27 settembre 1913 Religione

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Per il palazzo Farnese a Piacenza


Mistificazioni medioevali e brividi romantici - Amore della Storia - Il Museo Gazzola - Salviamo Palazzo Farnese! Dovere di ospitalità! - Archivi al macero - Piacenza e Parma - Le offerte del R. Commissario.

Continuazione del numero 38.



Nella quale pure son già non poche cose pregevolissime: Abbiamo detto degli arazzi, basta ricordare ancora l’Antonello da Messina e il Botticeili. Oggi il pittore Ghittoni, — che con tanto affettuoso amore è il conservatore della Pinacoteca — è obbligato ad occuparsi quasi esclusivamente dell’Istituto di Belle Arti che è nella stessa casa e che con tanto libero spirito e tanta efficacia di risultati egli dirige. Ma domani, a Palazzo Farnese il fascino e la grandiosità dell’ambiente non solo permetteranno ma anche chiederanno al direttore una attività efficacissima.

Ricordava anche il conte Barattieri la collezione di gessi dovuta al conte Lodovico Marazzani Visconti e al Prof. cav. Guidotti, e la necessità urgente di arricchirla con calchi di cose locali che devono essere così almeno conservate, se inesorabili cause continuano a distruggerle.

«Il fregio bellissimo del Palazzo Scotti di Fombio, che va sformandosi per l’azione degli agenti atmosferici, e le stupende terrecotte del Palazzo Landi da S. Lorenzo dovrebbero da soli bastare a farci non desiderare ma attenuare al più presto questo Museo di calchi». E anche questo museo ― che invece che di calchi potrebbe forse domani essere di fotosculture (riparleremo distesamente di questo mezzo di riproduzione che finalmente sta per entrare davvero, con l’organizzazione di una nuova società milanese, nell’attività pratica) — sarebbe di non poca importanza per il nuovo museo di Palazzo Farnese.

Il conte Barattieri ricordava anche il Museo del Risorgimento e la Biblioteca comunale e il Medagliere che avrebbe potuto entrare, insieme con le collezioni Gazzola di quadri, arazzi, miniature e gessi, e maioliche, e vetri, in Palazzo Farnese. Uscendone così anche un beneficio per l’Istituto tecnico al quale sarebbe restato quel maggiore spazio di sviluppo di cui già allora necessitava.

Ma c’era poi una questione che doveva bastare ad attuare questa iniziativa: la necessità di salvare Palazzo Farnese!

Tutte le città rivendicano alla vita migliore i loro monumenti d’arte. Piacenza ha ancora una caserma in PalazzO Farnese e nella Cittadella.

Le autorità militari hanno rispettato quanto hanno potuto: ma tutto quello che resta ancora non serve altro che a più farci sentire il desiderio che non avvengano più rovine.

Ma che c’è di più. Oltre una questione del Museo, ed una questione di Palazzo Farnese, c’è, a Piacenza, una questione, tutta a sè, della caserma. I soldati — notava il conte Barattieri — sono ora in locali inadatti ed antiigienici: locali che sarebbero ottimi per un Museo ma che intanto sono pessimi per una caserma. Ed è molto semplice dovere di onestà e di decoro cittadino provvedere i soldati di un edificio nuovo ed adatto. Nel 1909 il conte Barattieri ricordava ai suoi concittadini la loro riconoscenza per quello che avevano fatto i soldati due anni prima durante l’inondazione: oggi, a far amare i soldati, ci sono anche gli entusiasmi rinnovati per la nostra guerra. Allora riconoscenza ed entusiasmo non devono essere parole vane, ma devono concretarsi nell’attuar presto questo vecchio dovere indiscutibile di [p. 306 modifica]ospitalità. Tutti, anche se non amano i quadri e disprezzano la,cultura, devono aiutare a far uscire i soldati da Palazzo Farnese. Non vi potranno entrare, poi, altro che istituti di coltura. Nè il conte Barattieri si accontentava del progetto nelle sue linee generali, ma ne dettagliava anche il finanziamento. Prevedeva le spese, e calcolava le entrate. Ministero della guerra e ministero della pubblica istruzione, Comune e privati avrebbero dovuto variamente concorrere ad attuare questa iniziativa che non chiedeva, semplicemente, il trasporto di un Museo, ma interessava in un complesso movimento quasi tutti gli istituti cittadini. • •

P. Corna parlando, nel suo volume, di Paldzz.o Farnese, augura nuovamente che vi ritorni quella vita di coltura della quale è degno. E accenna, altrove, a un’altra questione pure importantissima: la costituzione di un archivio cittadino. Mi diceva appunto in, questi giorni alcuni episodi della sua esperienza di studioso. Ma è inutile ripeterli: son le solite tristezze. Son le solite famiglie antiche che libano le vecchie scansie dell’archivio famigliare da ammassi di carte non mai lette, e le vendon a dieci centesimi al chilo: e lo studioso, al quale forse fino a ieri si era negato dai padri gelosi il permesso di veder queste carte, deve correre ora dal tabaccaio e dallo stracciaio a ricomperare quel che può ritrovare della vendita fatta dai figli. Non par possibile, a chi non ha consuetudine di questi studi, tanta inconsapevolezza; e pure son fatti di ogni giorno e di ogni città. Anche degli impiegati dell’Ospedale Maggiore di Milano qualche anno fa mandavano al macero una intera raccolta di grida e proclamazioni, che risaliva fino al secolo decimoquinto! Ma almeno in tutte le città c’è sempre qualche Archivio piccolo o grande che qualcosa riesce a salvare. A Piacenza non c’è nulla. A Piacenza appunto ora c’è più d’un archivio privato che sta per dissolversi; potremo dirne i nomi: e lo studioso con ansia sta vigile a temere dove tanta ricchezza di documenti si disperderà. Basterebbe che l’iniziativa cominciasse ad attuarsi, perchè immediatamente si componesse un Archivio copiosissimo, con documenti preziosi, d’ogni istante, di vita cittadina, dal Medio-Evo ad oggi. La questione, nella sua immediata urgenza, deve essere trattata e risolta in Piacenza, per sè. Ma dopo che sia risolta, non potrà non essere di grande giovamento a tutte le questioni che stanno attorno a Palazzo Farnese.: perchè anche questo Archivio cittadino potrebbe trovare degna sede in questo palazzo ampio e magnifico. • •

Io sono andato apposta óra a Piacenza, per sape re con precisione quali ostacoli si siano opposti, nel 19o9, ai propositi del conte Barattieri. La consueta indifferenza della gente, che lascia. cadere tutti i problemi di coltura come se non fossero della loro vita più intima e non decidessero di tanto della loro fortuna: e poi una folla di piccole sciocchezze. Una delle quali, per esempio, è che Palazzo Farnese non è nel centro: come se a Piacenza le distanze contassero, e Palazzo Gazzola fosse proprio nel mezzo della piazza dei bei cavalli. La ragione è questa: che oggi Piacenza può ricordare, quando la vanità cittadina lo chiede, di avere un Museo, e può dimenticarsene facilmente appena ci sia qualche cosa da fare. Domani, invece, con Palazzo Farnese sede di istituti di coltura, ci vorrebbe anche una vita vivace e degna, di coltura. Ebbene: se ci vorrà uno sforzo di pensiero a liberarsi dal presente facile ozio intellettuale, se ci sarà una s mma maggiore di precauzioni, non è detta che debbano essere pensieri e preoccupazioni dannose. Anzi: l’attività del pensiero è sempre feconda: e non si deve mai temere di compiere una cosa solo perchè dopo compiuta bisognerà pensare sul serio a conservarla tenerla viva. Guardino, i piacentini, a Parma. Oggi si lamentano che ormai tutte le opere d’arte e le cose interessanti per la loro città siano deftnitivaménte accentrate a Panna: in Pinacoteca, in Museo, in Archivio. E si fermano in una cascante rassegnazione. Ma se i quadri che sono alla Pinacoteca di Parma dovessero anche restare tutti là, i piacentini dovrebbero avere la conoscenza di quanto ancora e sempre sono ricchi: di quanto ancora e sempre hanno virtù e valori da attivare e far conoscere. E’ questo riconoscere gli altrui primati • è inutile dannoso accettare sudditanze schiavistiche. E quali organi attivi di vita intellettuale hannD oggi i piacentini per ricreare la loro storia? La Pinacoteca a Parma... l’Archivio a Parma... Così io credo che l’iniziativa del conte Barattieri più che ostacoli deliberati e opposizioni ferme, sia caduta allora per un momento di fiacchezza spirituale, che non era solo a Piacenza. E oggi che le al tre città rinnovano i loro monumenti in un’onda di amore attivo, riordinano le loro pinacoteche o nuovamente le costituiscono: anche Piacenza deve e può fare questo. Nel tgoo era posto innanzi ai piacentini l’esempio solo del Castello e dei Musei di Milano: oggi ci son Brescia e Viterbo, Prato e Urbino, dieci e dieci città che diversamente hanno compiuto o stanno compiendo questo. E c’è anche un esempio in Piacenza stessa. Da moltissimi anni gli af freschi del Pordenone in Santa Maria di Campagna continuano a rovinarsi per l’umidità che dal terreno pervade le pareti della chiesa e rode i dipinti. Il Testi chiedeva provvedimenti: P. Corna pubblicava un volume sulla chiesa e sui dipinti pregevolissimi che lo ornano, per richiamare l’attenzione degli studiosi e delle autorità: gli ar [p. 307 modifica]ticoli e le proteste si moltiplicavano: e nè in Piacenza nè fuori nessuno mai non si commosse, e non si fece mai nulla. Così nel gennaio di quest’anno l’architetto A. Yettorelli dolorosamente annunciava nella Rassegna d’Arte: a per questa incuria contro cui non avvi parola di sufficiente asprezza, il Sant’Agostino del Pordenone è a metà perduto: l’umidore ha intaccate le mani, la barba fluente del santo, ha fatto avvizzire le carni prima così floride dei putti che stanno attorno al dottore della Chiesa. Anche la Natività della Vergine, altro affresco del Pordenone, è in condizioni tristi, il S. Giorgio di Bernardino Gatti è pure in rovina e va scomparendo senza speranza di ricupero». Ma questo non è ancor tutto: l’acqua trapela dagli zoccoli, dalle basi, e in certe giornate allaga il pavimento marmoso... E il tetto della chiesa a è fatto di travi corrose, di legnami fradici... e sulla volta pesano cumuli di rottami e incominciano gli stillicidi delle acque! D. Il mese dopo il R. Commissario di Piacenza offre trecento lire. Ed era l’unica offerta! In marzo Corrado. Ricci e Cavenaghi vanno ad esaminare la rovina. E il restauro si decide subito su queste basi: il Governo interverrà per non meno di quarantamila lire per la durata di venti anni. Altre offerte fanno sicure le ottantamila lire necessarie al restauro. E non è questo il solo restauro che questa visita di Corrado Ricci abbia deciso. E’ uno slancio improvviso che ricorda le centinaia di migliaia di lire date in,pochi anni per il restauro del Duomo. Il momento, dunque, sembra favorevole a porre ancora una volta la questione di Palazzo Farnese e a risolverla per il vantaggio dell’arte e per il decoro della città. Raffaello Giolli.

Sul limitare della luce Le ultime clarisse napoletane

Idealità sovrumane e misteriose di sogno, leggende claustrali, ignote e silenziose storie di sacrifizi: coine un profumo sottile e dolce di tempi lontani, tutto ciò par che ancor oggi si espanda nell’aria dagli alti muri merlati, dalle altane e dai belvederi del monastero di Santa Chiara, nel cuore della vecchia Napoli medioevale. Velato di solitudine e di silenzio, mentre intorno ad esso la vita pone il suo turbine perenne, e si agita in mille fervori diversi, alti, nobili, mediocri, volgari, l’antico glorioso monastero francescano, cui vigilano d’accanto la gran chiesa solenne e. la tozza quadrata massa del cam

panile quattrocentesco, ci ispira, sol che fisiamo i suoi impenetrabili muri nei quali per lunghi secoli si effuse il profumo di mille anime muliebri chiuse alle umane passioni e alle umane miserie, la profonda invincibile tristezza delle cose consacrate alla fine. Sorse molti secoli fa, in quel trecento luminoso di arte e di fede, quando l’ideale di Francesco di Assisi si espandeva come una gran fiamma raggiante in ogni angolo d’Italia, quando il Cantico di Frate Sole pareva risonasse, nei suoi versetti benedicenti, come un novello evangelio di amore e di fraternità umana, a tutte le anime avide di pace e di bene... Era triste, pur nel fasto della Corte napoletana, la regina Sancia di Maiorca, la buona e pia regina non amata dal suo augusto marito Roberto d’Angiò: e nelle sue melanconie le sorrideva, forse, l’imagine di Chiara d’Assisi, di colei che il Santo umbro aveva conquistato al suo ideale e che nel chiostro di San Damiano aveva iniziato quel Second’Ordine che splende fra le glorie più pure e più grandi dell’epopea francescana. E volle, insieme con Re Roberto, che anche a Napoli sorgesse, ’in quella parte della città che si diceva a extra-hortos» presso le mura e la porta cumana, un monastero di Clarisse, ove trovar, fra le bianche sorelle, nelle ore di più intensa tristezza, quella serena profonda pace che nessun’altra cosa del mondo aveva potuto, a lei regina, donare. La dolorosa consorte del sovrano angioino non volle, però, soltanto fondare il dolce asilo francescano per tutte le ignote sorelle che, afflitte al pari di lei, bramassero il silenzio d’una cella e la dolcezza della preghiera per l’oblio delle cose umane e 14 quiete dello spirito; non volle soltanto riccamente dotarlo perchè nessuna preoccupazione turbasse il sogno delle Clarisse; ma volle altresì che quel refugio consolatore avesse chiara e forte la sua impronta, in ogni tempo: e ne scrisse ella stessa le Costituzioni. E sempre che la nostralgia di un più sereno ambiente batteva alle porte della sua anima, lungi dalle fastose. cerimonie di Corte, dai balli, dalle caccie, dai tornei, Sancia regina veniva a rifugiarsi in quel chiostro, e vi indossava con gioia- l’abito di Clarissa, e serviva le monache alla mensa, con umil.tà, come l’ultima delle converse. •• Soave chiostro consolatore! Passò il tempo, inesorabile fiume che non si arresta mai: e re Roberto, incanutito dagli anni, abbattuto dalla perdita del suo unico figliuolo, sentì anch’egli, al fianco della mite, afflitta consorte, il fascino del Santo umbro, sì che sí fece Terziario, e in quest’abito volle essere sepolto nella chiesa di Santa Chiara. Ancor oggi, rivestito del nero bigello, cinto del rude cordiglio, lo si vede nell’angolo del vasto tempio, dormire l’eterno sonno, disteso sul ’suo sarcofago, fra le altre tombe dei figliuoli e nipoti. [p. 308 modifica]La chiesa era sorta all’ombra del monastero in semplicità davvero francescana, con un tetto di grandi travi di legno scoperte: pittori e scultori vennero poi di Toscana e l’adornarono di storie in’, rilievo e di affreschi giotteschi. Ma, alcuni secoli più tardi, il barocco doveva invadere e distruggere quella grande e bella semplicità: e le sue linee pure, il suo dolce stile, fatto pel riposo degli occhi e dell’anima, dovevano venir distrutti, brutalmente, dagli stucchi, dagli ori, dalle pitture manierate. a ma non sì che vi rimanessero affatto soffocate le espressioni, e direi quasi le proteste, della ingenua arte del trecento». Il bianco chiostro, accanto alla gran chiesa, fiori di sempre più fervida e silenziosa vita nell’austera clausura che faceva frangere alla sua porta le vanità, le passioni, gli odi, le brame terrene: sempre più larghe schiere di donne abbandonavano gli agi e lo splendore delle loro aristocratiche case, chiamate dalla luminosa regola ad una nuova vita di preghiera e d’estasi, rischiarata dalla beltà di un grande divino ideale. Il monastero seppe conservare, nel tempo, l’impronta che la piccola bianca mano di Sancia regina aveva indelebilmente posta nella regola di fondazione: e vide, nelle sue candide celle, aumentare il numero delle religiose, appartenenti quasi tutte alla più pura nobiltà napoletana, e da cento salire poi a duecento, sin che con pubblico istrumento fu stabilito che non sí potesse oltrepassare tale numero. Si seguirono sovrani, governatori, vicerè, in Napoli medioevale, e tutti furono larghi di privilegi e di donazioni a quel ’monastero del quale la cura spirituale era affidata, secondo gli strumenti di fondazione, ai Frati Minori. E nel 1735 Carlo III di Borbone riconosceva e confermava tutto ciò che per Santa Chiara avevano fatto e dispostb i suoi predecessori. Sul dolce refugio di tante anime femminili vigilava, così, nel rapido volgere dei secoli, invisibile ma assidua, l’ombra pietosa di Sancia. La ricca gemmata corona che un dì aveva cinto la fronte della malinconica regina poneva ancora il suo riflesso su quel chiostro solenne e austero. La primitiva semplicità era quasi scomparsa: una pompa regale prendeva talvolta, nelle grandi occasioni, il sopravvento sulle pie, uguali, umili abitudini delle suore. L’origine del monastero, il nome della fondatrice, e poi i privilegi, le donazioni, la nobiltà di coloro che vi si eran rinchiuse, facevano sì che la badessa di Santa Chiara godesse, talvolta, di onori regali; nelle funzioni solenni essa aveva infatti, uso di insegne che solo ai sovrani competono: la corona, il suggello, i manti preziosi. Nel giorno consacrato alla Santa, il dodici di agosto, a un battaglione di soldati, dopo avere ascoltato la santa messa, come Ei usava nei regni cristiani, recavasi alla spaziosa porteria del monastero; ed ivi la badessa, adagiata sopra una sedia dorata sulla soglia della porta maggiore, fiancheggiata da due converse, che in ricchi vassoi tenevano la corona e il suggello, riceveva a vista di un popolo festante, gli onori militari. Il

battaglione sfilava dinanzi a quella regina in cocolla, ed abbassava la bandiera nazionale in segno di reverente sudditanza». Oggi, l’abito della morte impera nel vasto monastero. Tutta la grandezza d’un tempo è scomparsa per sempre. I tocchi della quadrata torre campanaria ancor si diffondono con la loro voce solenne, all’alba, al meriggio, al vespero, sul cielo della vecchia Napoli: ma le schiere di Clarisse che un dì ascoltavano quel suono, che vivevano quasi sul ritmo di quelle campane chiamanti alla preghiera, alla mensa, al riposo, si sono lentamente assottigliate... Santa Chiara, il refugio di Sancia di Maiorca, ha seguito il destino di tanti altri monasteri: è condannato alla fine. Un grande infinito silenzio mortale vigila, ora, su di esso, poichè la vita delle ultime religiose vi si svolge più che mai tacíta-e invisibile. Ombre che vagano rade nell’ampio luogo, esse non fanno rumore, avvolte come sono di solitudine e di tempo. Le ore che vi si svolgono hanno per esse un ritmo queto, uguale, triste. Ne sono rimaste tre o quattro, soltanto, del soave esercito una volta così numeroso! E si sentono quasi sperdute, nella vastità del deserto asilo, ove entrarono in un lontano giorno della loro giovinezza per vivervi una vita di sacrifizio, di preghiera e di amore. Questo grande refugio d’anime si spegne, così, inesorabilmente, in una desolata malinconia. Fervido, un giorno, di vita silente e operosa, profumato di soavi virtù muliebri in ogni sua cella, di umili erbe e di semplici corolle nel suo orto, il monastero francescano sorto come un sogno, seicento anni or sono, pel fermo e dolce volere di una bionda regina, accoglie ora il gelido soffio che spira sulle tombe... E quando, a ogni alba, le campane vicine si scuotono dal loro sonno notturno e riempiono del’loro squillare la chiesa solenne e le celle del convento, esse’ hanno per le poche superstiti un accento di tristezza profonda: i loro tocchi lunghi e sonori si diffondono, intorno, come una voce d’oltre tomba, in cui passano volta a volta lo schianto d’un sogno svanito per sempre, un acuto rimpianto di fede, un umile sospiro di preghiera, di presentimento dell’immanchevole fine vicina... Ma la vita che rugge, infuria, s’agita in un’incessante tormenta intorno al loro refugio, è ancor oggi più che mai lontana dalle vecchissime suore che nella severa inviolata clausura aspéttan l’ora suprema... In limine lucis: e l’intravedono quasi, nell’ombra che a sera si annida nelle loro celle, la luce senza confine che verrà con la morte a coronare la loro esistenza di adorazione e di silenzio... (Continua).

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