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IL BUON CUORE 307


ticoli e le proteste si moltiplicavano: e nè in Piacenza nè fuori nessuno mai non si commosse, e non si fece mai nulla. Così nel gennaio di quest’anno l’architetto A. Yettorelli dolorosamente annunciava nella Rassegna d’Arte: a per questa incuria contro cui non avvi parola di sufficiente asprezza, il Sant’Agostino del Pordenone è a metà perduto: l’umidore ha intaccate le mani, la barba fluente del santo, ha fatto avvizzire le carni prima così floride dei putti che stanno attorno al dottore della Chiesa. Anche la Natività della Vergine, altro affresco del Pordenone, è in condizioni tristi, il S. Giorgio di Bernardino Gatti è pure in rovina e va scomparendo senza speranza di ricupero». Ma questo non è ancor tutto: l’acqua trapela dagli zoccoli, dalle basi, e in certe giornate allaga il pavimento marmoso... E il tetto della chiesa a è fatto di travi corrose, di legnami fradici... e sulla volta pesano cumuli di rottami e incominciano gli stillicidi delle acque! D. Il mese dopo il R. Commissario di Piacenza offre trecento lire. Ed era l’unica offerta! In marzo Corrado. Ricci e Cavenaghi vanno ad esaminare la rovina. E il restauro si decide subito su queste basi: il Governo interverrà per non meno di quarantamila lire per la durata di venti anni. Altre offerte fanno sicure le ottantamila lire necessarie al restauro. E non è questo il solo restauro che questa visita di Corrado Ricci abbia deciso. E’ uno slancio improvviso che ricorda le centinaia di migliaia di lire date in,pochi anni per il restauro del Duomo. Il momento, dunque, sembra favorevole a porre ancora una volta la questione di Palazzo Farnese e a risolverla per il vantaggio dell’arte e per il decoro della città. Raffaello Giolli.

Sul limitare della luce Le ultime clarisse napoletane

Idealità sovrumane e misteriose di sogno, leggende claustrali, ignote e silenziose storie di sacrifizi: coine un profumo sottile e dolce di tempi lontani, tutto ciò par che ancor oggi si espanda nell’aria dagli alti muri merlati, dalle altane e dai belvederi del monastero di Santa Chiara, nel cuore della vecchia Napoli medioevale. Velato di solitudine e di silenzio, mentre intorno ad esso la vita pone il suo turbine perenne, e si agita in mille fervori diversi, alti, nobili, mediocri, volgari, l’antico glorioso monastero francescano, cui vigilano d’accanto la gran chiesa solenne e. la tozza quadrata massa del cam

panile quattrocentesco, ci ispira, sol che fisiamo i suoi impenetrabili muri nei quali per lunghi secoli si effuse il profumo di mille anime muliebri chiuse alle umane passioni e alle umane miserie, la profonda invincibile tristezza delle cose consacrate alla fine. Sorse molti secoli fa, in quel trecento luminoso di arte e di fede, quando l’ideale di Francesco di Assisi si espandeva come una gran fiamma raggiante in ogni angolo d’Italia, quando il Cantico di Frate Sole pareva risonasse, nei suoi versetti benedicenti, come un novello evangelio di amore e di fraternità umana, a tutte le anime avide di pace e di bene... Era triste, pur nel fasto della Corte napoletana, la regina Sancia di Maiorca, la buona e pia regina non amata dal suo augusto marito Roberto d’Angiò: e nelle sue melanconie le sorrideva, forse, l’imagine di Chiara d’Assisi, di colei che il Santo umbro aveva conquistato al suo ideale e che nel chiostro di San Damiano aveva iniziato quel Second’Ordine che splende fra le glorie più pure e più grandi dell’epopea francescana. E volle, insieme con Re Roberto, che anche a Napoli sorgesse, ’in quella parte della città che si diceva a extra-hortos» presso le mura e la porta cumana, un monastero di Clarisse, ove trovar, fra le bianche sorelle, nelle ore di più intensa tristezza, quella serena profonda pace che nessun’altra cosa del mondo aveva potuto, a lei regina, donare. La dolorosa consorte del sovrano angioino non volle, però, soltanto fondare il dolce asilo francescano per tutte le ignote sorelle che, afflitte al pari di lei, bramassero il silenzio d’una cella e la dolcezza della preghiera per l’oblio delle cose umane e 14 quiete dello spirito; non volle soltanto riccamente dotarlo perchè nessuna preoccupazione turbasse il sogno delle Clarisse; ma volle altresì che quel refugio consolatore avesse chiara e forte la sua impronta, in ogni tempo: e ne scrisse ella stessa le Costituzioni. E sempre che la nostralgia di un più sereno ambiente batteva alle porte della sua anima, lungi dalle fastose. cerimonie di Corte, dai balli, dalle caccie, dai tornei, Sancia regina veniva a rifugiarsi in quel chiostro, e vi indossava con gioia- l’abito di Clarissa, e serviva le monache alla mensa, con umil.tà, come l’ultima delle converse. •• Soave chiostro consolatore! Passò il tempo, inesorabile fiume che non si arresta mai: e re Roberto, incanutito dagli anni, abbattuto dalla perdita del suo unico figliuolo, sentì anch’egli, al fianco della mite, afflitta consorte, il fascino del Santo umbro, sì che sí fece Terziario, e in quest’abito volle essere sepolto nella chiesa di Santa Chiara. Ancor oggi, rivestito del nero bigello, cinto del rude cordiglio, lo si vede nell’angolo del vasto tempio, dormire l’eterno sonno, disteso sul ’suo sarcofago, fra le altre tombe dei figliuoli e nipoti.