Il buon cuore - Anno XII, n. 35 - 30 agosto 1913/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 35 - 30 agosto 1913 Religione

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La signora di La Fayette



Malfatto e senza grazia, coi capelli rossi, gli occhi grigi a fior di testa, la faccia smorta senza espressione, i modi freddi, La Fayette era, tuttavia, un ammaliatore. Egli possedeva tutte le qualità che attirano e incatenano: la bontà, il valore, opinioni cavalleresche e disinteressate; i suoi stessi difetti — la noncuranza e la leggerezza, la mancanza di discernimento, una crudelità un po’ sciocca — non riuscivano ad alienargli le simpatie.

Sua moglie lo adorava: lo amava «cristianamente, mondanamente, passionatamente».

Un’altra si sarebbe addolorata di trovarsi unita a questo girella politico, ubbriaco di popolarità ed insaziabile di gloriuzza. Nata Noailles, imparentata alle famiglie più nobili e realiste di Francia, la signora di La Fayette avrebbe potuto, senza che alcuno vi trovasse a ridire, giudicare severamente suo marito che, gentiluomo, si era perdutamente lanciato nelle avventure rivoluzionarie, prendendo- le parti del popolo contro la Corte; avrebbe potuto soffrire delle compromissioni che le imponeva e delle sue dimestichezze plebee. Ma gli perdonava tutto: la scappata d’America dopo qualche settimana di matrimonio, le sue lunghe fughe, i suoi sogni di fama di cui ella temeva fortemente le conseguenze, le sue stesse numerose e clamorose infedeltà. La poveretta si gloriava di averne la miglior parte, poiché era sua moglie, e le bastava che egli avesse la bontà di amarla. Benché gli fosse superiore per il giudizio ed odiasse la rivoluzione, ch’egli, invege piaggiava, era, fin dal primo giorno, diventata a fayettista i con tutta l’anima. Lasciavasi convincere dalle idee di questo fanciullone malgrado le loro sconcertanti contraddizioni, accettava i suoi voleri, anche quando le riuscivano dolorosi e gli obbediva con vivissima gioia, avendogli consacrato una tenerezza esaltata ed inalterabile.

Una simile passione per un simile uomo, quasi sempre assente e intento unicamente a conservare ed accrescere la sua abbastanza fosca rinomanza, avrebbe dovuto, sembra, condurre la nobile donna alle peggiori disillusioni. Niente affatto, scrive P. Lenotre, che traccia il profilo di questa vera dama, servendosi di un recente volume di Raoul Arnaud (Etudes d’histoire révolutionnaire. Sous la Rafale). Niente affatto: essa vi trovò la felicità di tutta la sua vita, fatta, come tutte le esistenze completamente felici, di prove, di sacrificii e di rinuncie. Giacché se era orgogliosa di essere la signora di La Fayette, questo titolo le procurava, però, molti affronti. A tale titolo doveva, infatti, i sarcasmi e l’allontanamento dei borghesi tra i quali era costretta a vivere, i sospetti dei repubblicani più accesi, inquieti per la popolarità di suo marito. Il quale, poi, dagli aiutanti di campo in fuori, non aveva in realtà amici politici, non essendo schiettamente nè costituzionale, nè democratico, ed ancor meno realista; era quasi solo a rappresentare la sua opinione, la quale consisteva nell’essere puramente e semplicemente «fayettista». E quando, obbligato a rassegnare le sue funzioni di comandante delle guardie nazionali, posto alla testa dell’armata del Nord, egli si vide, dopo il rovesciamento della monarchia, sospetto ai soldati e vicino ad essere arrestato come ribelle, commise una sciocchezza suprema: guadagnò la frontiera con tutto il suo stato maggiore ed andò a farsi prendere dagli austriaci nel territorio di Liegi. In Francia si gridò al tradimento: il transfuga fu trattato di malvagio, di disertore e giudicato «il più grande dei delinquenti». Da parte loro i governi stranieri lo consideravano come il responsabile di tutte le catastrofi rivoluzionarie, nè erano disposti a rilasciare il gentiluomo rinnegato che aveva tradito il suo re, sollevato il popolo, [p. 274 modifica]rata la bandiera della rivolta e armata la nazione; si accingevano, anzi, a punirlo severamente. La signora di La Fayette abitava, in quest’epoca, con il figlio Giorgio, dodicenne, e le due figliuolette Anastasia e Virginia,.il suo castello di Chavaniac, nel dipartimento della Alta-Loira. E’ là che venne a colpirla l’improvviso cambiamento d’opinione nei riguardi dell’adorato marito. Il io settembre 1792, Chavaniac viene invaso; si arresta la signora di La Fayette e la si conduce al capoluogo, dove la si imprigiona. Al primo interrogatorio, essa dà prova di tanta fermezza e sangue freddo che ottiene di ritornare al castello sotto giuramento di non allontanarsene. Appena rientrata ne’ suoi dominii, apprende, che suo marito è stato inviato, per Arlon, Luxembourg e Trèves, a Coblentz e consegnato al re di Prussia. Egli è ora internato nella fortezza di Spandau. Decisa a non indietreggiare dinanzi ad alcun passo per salvare colui «che ella ama e venera al di sopra di tutto», si dispera di non essere più in prigione; tenterebe almeno di avadere; è vergognosa di essere libera, ’vincolata per la parola data, e di non poter far uso della sua libertà per volare in soccorso dell’uomo che non ha più al mondo altro appoggio che il suo. Come preferirebbe avere vicino dei carcerieri che tenterebbe di comperare e guadagnare alla causa sua! Ella professa per suo marito un sentimento così appassionato che si abbassa a supplicare in ginocchio il ministro Roland di scioglierla dal giuramento. Ma costui teme di compromettersi e fa rispondere che «vedrà quando le circostanze saranno cambiate» Ridotta all’inazione, scrive; spera che gli americani, i quali debbono tanto a La Fayette, si interesseranno alla sorte del prigioniero. Si rivolge al Governatore Morris, ambasciatore degli Stati Uniti, allo stesso Washington: Morris non può far nulla e Washington non risponde. La signora di La Fayette decide di separarsi dal suo piccolo Giorgio; gli procura un passaporto; con la scorta di un precettore, il fanciullo si imbarcherà per l’Inghilterra dove, forse, potrà raccogliere dei difensori per il padre. Vana speranza: Giorgio è fermato a Bordeaux e non riesce ad eludere le sorveglianze. ’ Il Terrore è venuto. A Chavaniac i giorni- si eternizzano nell’angoscia del domani. In brumaio finalmente i sanculotti si presentano. La signora di La Fayette, nuovamente arrestata, viene condotta a Brioude e imprigionata. Dopo tre mesi arriva l’ordine di tradurla a Parigi: il patibolo la reclama. Alla vigilia della partenza, essa ottiene di rivedere i suoi figli: dimentica de’ suoi stessi pericoli, fa loro solennemente promettere di tutto tentare, se essa muore, per ritrovare il loro padre di cui, da sei mesi, non si hanno notizie. Poi è il lungo viaggio verso la capitale, l’incarcerazione nella prigione di Plessis, via Saint-Jacques, il grande serbatoio dal quale attinge Fouquier-Tinville, sla più vasta e la più popolata di tutte le prigioni dí Europa. Ella ritrova là una sua parente, la signora di Duxas, le

sue vecchie relazioni della Corte, le signore di Rochechouart, di Richelieu, di Barbentane, di Pons; apprende che La Fayette, dopo aver languito nelle prigioni di Spandau e di Magdebourg, è stato inviato al fondo della Slesia e sepolto in una prigione malsana, sorvegliata notte e giorno dalle sentinelle. Essa, allora, non sogna più che di raggiungerlo. Intorno a lei il Terrore falcia: si vive, a Plessis, fra i singhiozzi, gli addii, lo spavento: l’appello quotidiano di quelli che vanno a morire riempie la prigione di grida, di supplicazioni, di rumori sinistri. La madre, la sorella, l’avola della signora di La Fayette sono nel numero delle vittime. Ma essa impone silenzio al suo dolore: non vuole avere che una preoccupazione, quella di suo marito che è solo, senza conforti, così lontano... Dimentica la prigione nella quale essa stessa agonizza per non pensare che a quella dove vive l’amato sposo. E non appena il thermidoro apre le prigioni, non appena è libera, chiede un passaporto, parte per l’Auvergne, raggranella un po’ di denaro, si imbarca a Dunkerque con le due figlie, arriva ad Hambourg, si informa, apprende che La Fayette, ceduto dal re di Prussia all’Austria, trovasi ancora incarcerato ad Olmutz, al fondo della Moravia. Attraversa tutta l’Europa, si ferma a Vienna, sollecita ed ottiene dall’imperatore il favore di rinchiudersi con il detenuto, e nel trasporto della gioia, esultante di realizzare finalmente il pio desiderio che la ossessiona da tre anni e inspira ogni sua azione, raggiunge la melanconica città dove l’attende una nuova prigione. Degli alti muri, uno sportello, dei soldati. Un portinaio brutale fruga le tre donne: poi le spinge in un cortile triste; un corridoio, un altro corridoio ancora. Le serrature stridono, le catene ricadono. Una porta si apre. Sottò la volta bassa di una cella, è seduto un uomo, magro, incurvato, la barba lunga; egli è vestito di tela grigia. E’ La Fayette. Quale abbraccio! Da due anni il generale non sapeva nulla nè della sua famiglia, nè della Francia, e, da prima, rimase muto di stupore. Sotto l’abbraccio di suo moglie e dei suoi figli, riprende i sensi. Ohimè! egli è irriconoscibile: tossisce, la sua schiena è curva, appare vecchissimo. Anche quella è più pallida d’una volta: ha qualche capello grigio. Profondamente commossi, non lasciano di guardarsi. Anastasia, la più anziana delle figliuole, è quasi una donna, ed è bella; Virginia, che i singhiozzi soffocano, è diventata grande ed è graziosa. Frasi interrotte, mille questioni da una parte e dall’altra e poi lunghi racconti. Della rivoluzione agli inizii della quale egli aveva assistito, il prigioniero nulla sapeva. Apprese in qualche ora diciotto mesi di storia, e le stragi, e le guerre, e i nomi delle vittime ed il formidabile scompiglio. Poi, scesa la notte, bisognò allogare i prigionieri. Le due figliuole si coricarono sopra un materasso in una cella vicina: la signora di La Fayette divise la cella con suo marino. Mangiano alla gamella con l’aiuto delle dita, essendo impedito l’u [p. 275 modifica]so delle posate e dei piatti. Ogni rapporto con l’esterno è proibito: le tre donne non hanno chi le serva. Mancano di tutto, di carta, di penne, di inchiostro, di, filo e di aghi. Una delle figliuole si studia di confezionare per suo padre delle calze tagliate nella stoffa di un vecchio abito; le celle sono umide e fredde, il nutrimento ripugnante. A un sif fatto regime la signora di La Fayette soffre senza lamentarsi;la sua carnagione è ingiallita, le sue membra gonfiate. Il medico della prigione, che la- visita, non sa una parola di francese. Esprime in latino la sua inquietudine: occorre che l’ammalata lasci al più presto le prigioni di Olmutz. Essa scrive all’imperatore. In capo a due mesi la risposta arriva: la signora di La Fayette può uscire dalla prigione, ma alla condizione che ella non vi _rientri mai più. Ed ella rifiuta. Per la prima volta nella sua vita suo marito è tutto per lei; egli non ha che essa; è stata necessaria questa comunanza del carcere, conquistato al prezzo di tanti sforzi, per fermare il volubile sposo, ed essa dovrebbe rinunciare a questa felicità tanto desiderata?! No: rimarrà prigioniera con colui che ama più della vita, dovesse soccombere a questa fatale felicità. Ma non vi soccombette affatto. Alla fine il male fu vinto e le prigioni si spalancarono. Il generale messo in libertà, condusse sua moglie e le sue figliuole nell’Holstein, poi, provvisoriamente disingannato dalla politica, andò a stabilirsi non lungi da Parigi, a la Grange, in Bie.. E’ dopo dodici anni di gioie intime e perfette che morì la signora di La Fayette; attaccata da una febbre maligna, sentendo giungere la fine, chiamava suo marito, lo contemplava a lungo e gli diceva: Come siete buono voi, e quanto io vi amo! La vigilia di Natale del 1807, essa’ lo fece chiamare durante il pranzo: gli prese la mano e mormorò in un soffio: Sono tutta per voi! Furono le sue ultime parole. Essa si spense sorridendo per paura che egli potesse non crederla felice.