Il buon cuore - Anno XII, n. 34 - 23 agosto 1913/Religione

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Vangelo della domenica 15a dopo Pentecoste

Testo del Vangelo.

E avvenne che di poi Egli andava ad una città chiamata Naim; e andarono seco i suoi discepoli, -e una gran turba di popolo. E quando Ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre; e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara e la toccò. (E qUelli che la portavano si fermarono). Ed Egli disse: Giovinetto, dico a te, levati. E il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed Egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore, e glorificavano Dio dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo. S. LUCA, cap. 7.

Pensieri. Vediamo anche in questo fatto miracoloso, con cui Gesù restituisce vivo alla desolata vedova di Naim il figlio già in procinto d’essere tumulato, più che un insegnamento pratico di vita, una — dirò quasi lezione dogmatica. E qui ci pare opportuno rilevare questo: Non consiste la vita cristiana nel solo dovere, tradotto in azione pratica; non consiste — contro i pragmatisti in un codice regolatore di vita morale unicamente, ma la vita cristiana, se si esplica e manifesta in un Codice morale, ci deriva tuttavia da un complesso di verità, che dobbiamo conoscere e credere con tutta fede e convinzione: giacchè, se diciamo che è pur vero che Gesù non ci ha data coi suoi dogmi un sistema filosofico, ne ha legata mai la sua fede a nessuna umana filosofia, diciamo tuttavia, che non consiste e non si esaurisce nemmeno in un arido catalogo od articoli di vita pratica. Nel primo caso saremmo degli acchiappa nuvole, come tanti dilettanti di coltura religiosa, nel secondo non saremmo altro che delle vittime del più stupido convenzionalismo. Per questo Gesù quasi ci mostra come si esplichi e si manifesti quell’azione divina, che noi diciamo la grazia, forza strana, che ci rende capaci del cielo, vivificando quelle azioni, che senza di essa sarebbero inutili e morte, come nel caso del Vangelo, dove la

voce di Gesù richiama a vita vera colui, che del vivente aveva solo la forma, ed era morto.

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Cosa è la grazia? La risposta è difficilissima. I più forti ingegni teologici ci si sono perduti nella prova di dircene la definizione e la natura. Meglio la si sente che non la si dica. Nella prova, nel pericolo, nell’urto fra la legge dello spirito e quella delle membra, fra le passioni e l’anima ci pare d’andarne travolti e rovesciati quando un’aiuto un pensiero, una mozione, soave ci solleva, ci conforta e ci dà vittoria. Ecco la grazia! Createmi cento casi ín cui la natura umana.sia per cadere vinta e sopraffatta, quante volte la vedrete vincitrice, tutte le volte attribuite la vittoria alla... grazia. E qualcosa che scende dal cielo, che s’aggiunge alla nostra debolezza, con cui noi ci armiamo a superare le infinite difficoltà della vita cristiana. Osserviamo come essa operi nel Vangelo. Gesù si commuove alla vista del solo dolore di quella vedova. La scena è pietosa, ma nessuno sa di Gesù, nessuno ve lo prega, nessuno di lui si interessa. Come va che altre volte vuol essere pregato, e qui invece è subito preso da misericordia? L’Evangelista ci tace assolutamente le circostanze: fu lo sguardo di quella desolata, una muta sì, ma efficacissima preghiera? Fu forse la grande sincerità del dolore? Fu un’altra causa, che non so rilevare? Dante, il poeta della teologia, disse che la grazia di Dio liberamente al nostro domandare precorre. Sappiamo adunque che opera meraviglie, come e per quali misteriose vie essa operi non sappiamo.

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A quali condizioni essa opera? Brevemente lo si può desumere dallo stesso Vangelo. Nota l’Evangelista che allorchè Cristo s’avvicinò alla bara quegli uomini che reggevano il feretro sostarono, anzi lo deposero ai suoi piedi. Avrebbero potuto risparmiarsi la fatica della sosta e del nuovo sovracaricarsi se non avessero conosciuto Gesù. Allora opera la grazia divina quando noi — liberi dal complesso dei nostri pregiudizi — sappiamo non sfuggire a Dio, a Gesù: di loro non abbiamo paura. Non abbiamo paura della nostra conversione, di lasciare le occasioni, i peccati di prima, gli amori di prima. [p. 269 modifica]Sostano innanzi a Gesù e lo lasciano libero di fare e dire quel ch’Egli vuole. Oh ì fermiamoci, arrestiamoci sulla via che ne conduce a morte, a rovina col peccato... Sostiamo innanzi a Gesù, alla sua Chiesa, ai suoi ministri... Lasciamo che essi compiano tutto, tutto il loro dovere, anche quando ci impongono lotta e sacrificio. La grazia di Dio, inevitabilmente, isoavemente, saprà strapparci ai lacci di morte per darci la vita vera, la vita dell’eternità. B. R.

Cosmopoli d’arte

Della buona educazione nel gusto letterario italiano qualcuno se ne occupa ancora, e da buoni consigli, tenendosi in mano la storia ammonitrice. Siamo adunque riconoscenti a Giuseppe. Finzi, il’quale se ne viene avanti con una nuova crestomazia e con un discorsetto che potrebbe anche significare una tiratina d’orecchi. In fatto di crestomazie il Finzi se n’è già radunate nella sua bibliotega un po’ per tutti i gusti: ha le novelle degli autori classici e le novelle degli autori moderni, quella macchiavellica che tutto succhia dallo scaltro storico e quella auto, biografica che fa fare una esposizione di autoritratti dai singoli scrittori; e poi di qua •e di là delle crestomazie ci sono i vocabolari, i dizionari, i trattati stillistici, i saggi e gli studi: insomma tutto il bagaglio di un professore laborioso e che ha fiducia nelle belle lettere. Anche questo nuovo volume ch’egli ci presenta è una raccolta fatta dal professore e dedicata agli studenti delle scuole ’medie superiori, ma di scuola questa volta c’è poco, per fortuna, nel libro e lo possiamo consigliare perciò in genere alle persone colte, affinchè accrescano la propria cultura. L’autore raduna sotto il titolo di Lyra nordica (S. Lattes C., editori, Torino, 1913), quasi settecento cinquanta pagine fitte fitte, nelle quali si affacciano a cantare tutti i migliori vati d’oltr’alpe di razza teutonica, ’abbigliati alla meglio con abito italiano. E tutto queSto cicaleccio ha un coordinamento ed uno scopo: vuole farci un po’ levare gli occhi per vedere come si pensi e come si scriva al di là dei monti, aprirci così ad una visione cosmopolita del beli-) lirico. Il cosmopolitismo in arte veramente non è una novita; è l’influenza dell’una nazione sull’altra è sempre esistita su questo punto perciò il raccoglitore sonda una porta aperta. Se di una cosa possiamo lamentarci anzi in Italia ai -dì nostri è per l’appunto la mancanza di un’arte che continui la tradizione nazionale. Perchè i giubettini dei.poetini e dei poetoni degli scodellatori di prosa ciarlante nelle gazzette

e gonfia nei romanzi sono tutti ritagliati sopra modelli d’oltralpe, e per ogni libro novello che si presenta in vetrina si potrebbe fare una ricerca di plagi all’estero mortificante anzichenò per la genialità italiana. E’ ben vero che l’imitazione e i pregi si fanno di seconda mano, perchè il colpo riesca più sicuro: ma ciò non toglie che la letteratura italiana non viva di scrocco, e che questo sistema sia per lo meno poco encomiabile dal punto di vista del nazionalism,‘ trionfante! Del resto, a farlo apposta, mai nel corso della letteratura italiana abbiamo avuto come nel periodo nostro il fatto che autori di fama indiscussa come Giosuè Carducci abbiano creduto di raccogliere, fra l’opera ’letteraria propria delle traduzioni da poeti stranieri è appunto di razza teutonica; mentre lo Zanella prima e il Pascoli poi furono traduttori ammirati; e Gabriele D’Annunzio va anche al solito al di là di ogni cosa ordinaria: non solo traduce, mi si fa egli stesso uno scrittore straniero. Dunque la tiratina d’orecchi per la mancanza di una visione •cosmopolitica in arte non va agli.scrittori. Il Finzi ha tuttavia ragióne quanto rileva la differenza dell’anima poetica latina da quella teutonica. Gli -scrittori di razza latina «hanno in grado straordinario, meraviglioso, la facoltà- della soggettivazione, ma scarsa quella dell’oggettivazione: parlano il linguaggio dell’operosa immaginativa accesa dalle cose, non lasciano che le cose stesse parlino nei loro,„versi il. In sostanza (almeno fino.a cent’anni addietro e restando naturalmente sulle generali) per i poeti nostri le cose erano il pretesto, erano le scarpe d’avviso per sbrigliare la fantasia dietro un pensiero galoppante verso l’etereo ideale; mentre la poesia nordica è più costantemente vincolata alle cose e materiata di loro direttamente. Però (e il Finzi nota la evoluzione ma non l’esagerazione) ai nostri dì siamo caduti in un difetto opposto: i nostri versaiuoli sdraiatisi sulle cose, non si curarono quasi più di cavarne il succo poetico, ma s•Y`accontentarono di farne dei cataloghi assolutamente privi di interesse. Il paesaggio divenne una pigrizia, servì per dar ombra e frescura a molti sonnecchiamenti di noiosi parolai, e la poesia non ha mai prosperato in modo tanto seccante. La tiratina di orecchi, se non va dunque agli scrittori, deve andare ai lettori: ai quali si fa un po’ colpa di non essere sufficientemente eruditi di ciò che riguarda la letteratura estera. Anche qui insorgiamo per un momento in difesa dei lettori... che non leggono. Perchè per leggere della poesia è necessario avere prima di tutto sotto gli occhi della poesia; e per gustare se abbiamo poesia autentica è necessario anche avere prima di tutto sotto gli occhi della poesia autentica. Ma la poesia tradotta può davvero chiamarsi poesia autentica? Qualche volta sì; ma questo qualche volta è un eufemismo per dire: rarissime volte. La verità, bisogna dirla tutta. La poesia tradotta mi dà la impressione di una bot [p. 270 modifica]tiglia di vino vecchio lasciata a mezzo e senza tappo per qualche giorno. Potrà aver forza ancora, ma non ha più profumo. Perchè la poesia non è solo il pensiero e non è solo forma ma è l’una e l’altra cosa insieme. Ora novecentonovantanove volte su mille il traduttore è traditore, non per imperizia ma per impossibilità materiale di riuscir a tradurre quel complesso di cose che è la espressione artistica. Se per scrivere poesia bisogna essere poeti vuol dire che bisogna avere non solo attitudini speciali, ma ancora vivere quel momento speciàle di commozione artistica che è il momento creativo, avere davanti agli occhi quella visione netta e speciale di cose che í versi debbono rispecchiare, e.insieme avere quelle determinate condizioni di ricchezza verbale e di sensibilità a sfumature verbali che éoncòrrono a creare l’opera d’arte. Nel traduttore tutto questo affatto manca; l’arte si riduce a gioco meccanico, e l’effetto è un po’ come la riproduzione di un canto in un disco di grammofono: si capisce sì e no, all’incirca il suono ma non gli si accompagna l’anima. E’ uno sciupìo. E quando pure le parole fossero identiche, é quando la rispondenza del pensiero fosse esatta non potremmo immaginare neppure allora che la traduzione riproduca l’originale. La poesia è fatta anche di cose quasi indicibili, tanto sono delicatezze di suoni. Per esempio, pensate che s’abbia a tradurre. il divino del pian silenzio verde. Non sarebbe tradotto alla lettera e con pensiero e con forma identica, se si scrivesse:

verde il silenzio divino del piano? Ma la poesia dove si trova più in questo brutto versaccio? Rinunciamo però a studiare la poesia nelle traduzioni, anche se queste sono, come il raccoglitore ci avverte, le migliori traduzioni italiane. Per fortuna oramai si provvede in proposito con un mezzo molto migliore, per agevolare la- conoscenza delle letterature straniere: si f,,nno studiare le ’lingue. Ecco un modo pratico e preCiso. Tuttavia ho detto fin dal principio che bisogna avere della riconoscenza per Giuseppe Finzi e che la sua raccolta di traduzioni può tornare utile. Rileggendo infatti questa crestomazia di autori inglesi e tedeschi noi possiamo venire a conoscenza dei soggetti trattati da molti artisti stranieri, i quali non ci sono famigliari, e così ci educhiamo al desiderio di gustarli nella veste originale, che deve ag. giungere al pensiero il profumo della grazia e la vivacità della suggestione. E anche per un’altra parte questa crestomazia potrà tornare utile all’erudizione nostra: e cioè per rintracciare appunto la origine di una quantità di fonti alle quali attinsero gli scrittori nostri. Noi dobbiamo infatti riconoscere quello a cui accennammo già più sopra: che le letterature teutoniche ebbero un largo influsso sopra la letteratura moderna ita

liana. Anche a voler restare a quelli che più strettamente si attennero alla tradizione italica, come il Carducci, la loro derivazione in parte dagli inglesi e dai tedeschi è evidente: fra le liriche del Carducci, difatti, gli spunti confessati e quelli non confessati come raccolti nella flora d’oltr’alpe sono numerosi. Sarebbe stato certo interessante che la scelta degli autori fosse stata più ampia, così da farci trovare anche scrittori precedenti al Goethe e autori contemporanei. La qual cosa si deve ripetere per gli scrittori inglesi, dei quali sono ricordati quasi esclusivamente i romantici dal Gray al Browning, mentre mancano affatto quelli più significativi per novità di ispirazione come il Witmann, quale, se da una parte precorse tutte le audacie dei futuristi nella conquista delle libertà più sfrenate pel ritmo dall’altra ebbe un così profondo sentimento della natura, ed una così personale e vasta visione delle cose, da dare all’opera_ propria un carattere di universalità duratura. Ad ogni modo, conveniamo, che anche così com’è, come raccolta che serva alla cultura, la crestomazia del Finzi è opera buona ed opera intelligente: e speriamo che in Italia siano molti quelli che si occupano ancora di cultura letteraria nei giardini fioriti della poesia.

IL PRIMO CENTENARIO

di Carlo Teodoro Korner

Il giorno 26 agosto sarà celebrato in Germania il primo centenario della morte di Carlo Teodoro Kórner, poeta e soldato, perito nella grande guerra d’indipendenza contro i francesi nel 1813. — Nato ’a Dresda nel 1791, pubblicò giovanissimo liriche e drammi pregevoli, e fu anche direttore del Teatro di Vienna. Ma per difendere l’indipendenza nazionale, lasciò la famiglia, la fidanzata, e la gloria letteraria, e accorse nella schiera dei volontari di Sùtzow. Celebri sono le sue canzoni La Lira e la Spada, animate da fede religiosa e da patrio entusiasmo.

Fu ucciso nel combattimento presso Schwerin il 26 agosto 1813. — A proposito di questa data, molti in Italia crederanno che il Kòrner sia perito nella battaglia di Lipsia il 18 ottobre di quell’anno; perchè l’Ode del Manzoni, molto nota, intitolata Marzo 1821

porta la dedica appunto al Kòrner morto il 18 ottobre sul campo di Lipsia; forse questo errore di epoca sarà stato corretto nelle recenti edizioni delle poesie del Manzoni; ma, fino a pochi anni fa, nessuno l’aveva rettificato. — In questa occasione, offriamo ai lettori un saggio dei versi del Kòrner; il [p. 271 modifica]sonetto, da lui dettato il 1 2 giungno 1813, mentre giaceva in un bosco gravemente ferito — questi versi si trovano tradotti da Giulio Carcano nel Vol. VIII delle Opere complete (Ediz. Cogliati) e sono poco noti, perchè non stampati insieme alle altre poesie.

ADDIO ALLA VITA

(Abschicd von Leben) La piaga ahi! m’arde il sen; trema, s’imbianca Il labbro, batte ognor più lento il core; Dell’estremo mio dì la luce manca: Sia di me qual tu vuoi; son tuo, Signore! Larve dorate erran d’intorno, e stanca La canzon del mio sogno in pianto muore. Fà cor! Fà cori quel che quaggiù m’affranca, Viver deve anche in cielo, immortal, fiore. E quello ch’io cercai, che a me fu santo D’amo, col nome ovver di libertade, Ond’arsi un dì con giovanil desiro, Qual serafino aleggia a me d’accanto;

Ìs vola, or che di morte il gel m’invade, Sulle roride cime il mio sospiro! ICÓRNER

(TRADUZIONE DI GIULIO CARCANO).

Chicago e la sua Colonia Italiana Continuazione del numero precedente.

Abbiamo due ospedali o piuttosto un ospedale diviso in due, capace di circa 200 ammalati; ma anche questa istituzione non rappresenta uno sforzo collettivo della colonia, perchè la colonia italiana contribuì alla fondazione ’di questi ospedali in una minima proporzione. Per l’ospedale Cristoforo Colombo ví fu una elargizione di moo dollari e per la succursale di detto ospedale una sottoscrizione di pochi, ammontante alla somma di i L000 dollari. Le suore della madre Cabrini, che sono alla testa di questi ospedali, hanno saputo operare portenti per realizzare le loro opere di carità. Il Governo italiano apprezzando l’opera.delle suore viene loro in aiuto con una generosa sovvenzione annuale, per cui esse sono ín grado di accogliere gratuitamente nel loro ospedale non pochi ammalati italiani.

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Veniamo alle condizioni di lavoro dei nostri connazionali: a 16 anni la legge permette d’impiegarsi.

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Le ragazze trovano facilmente lavoro in fabbriche di guanti, di scarpe, di biancheria, ecc., a condizioni di lavoro e di paga che sono giudicate assolutamente insostenibili dagli americani. I ragazzi riforniscono la falange dei rivenditori di giornali, dei lustrascarpe e dei galoppini in generale. Se veniamo più su, allora troviamo subito tutti gli spazzini municipali, i rivenditori di frutta all’aperto, i manovali per i lavori più pesanti e più sporchi di ogni genere, per arrivare alle grandi fabbriche come la Pullman per i vagoni, la Mc. Cormick per le macchine agricole e la Western Electric per telefoni e materiale elettrico, ecc. Quivi i nostri si presentano giornalmente in fiumana ad assumere i lavori meno intellettuali e peggio retribuiti. Tra la classe privilegiata si possono ancora contare i lavoranti sarti, i barbieri e la falange dei bottegai per la frutta. Non tocchiamo l’argomento dei «banchieri» e neppure quello dei domatori di... scimmie che ancora esistono. Ho detto prima che i commercianti fortunati e professionisti son pochi. A stagione propizia il lavoro c’è per tutti, anzi le richieste di mano d’opera sono continue ed insistenti; ad onta di ciò il guadagno medio per i nostri non si può calcolare in città superiore alla metà di quello per l’operaio comune americano. Ai nostri par già di toccare il cielo col dito se riescono ad avere un lavoro continuo per più di due dollari al giorno; e lavorano di gusto risparmiando sul vitto, sull’affitto, su tutte le cose di prima necessità, compresa l’acqua, e privandosi di tutti i comodi per poter raggranellare qualche piccolo peculio. E’ un fatto incontestato che nell’insieme questa vita si può considerare migliore di quella passata, ma è pure innegabile che in mezzo a tanto benessere, i sacrifici necessari per risparmiare su salari ritenuti meno che sufficienti, finiscono per dar spettacolo veramente poco decoroso. Le nostre masse dotate di tante buone qualità, da superare quelle di tutte le altre masse assieme, hanno disgraziatamente i difetti che più saltano agli occhi. La facile eccitabilità, il non accorgersi che tutti gli altri sono puliti, il non sottomettersi a nessuna disciplina di qualsiasi forma: sono mancanze gravi in paesi dove proprio le qualità opposte sono leggi istintive e alti ideali da perfezionare. Noi oramai maturi al suffragio universale diamo lo spettacolo di non sapere a masse di mo.000 forzare qualche nostro rappresentante tra gli assessori comunali, che tenti di cominciare a difendere gli interessi degli italiani.

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All’istruzione dei nostri immigrati e a tante altre cose, per ora è meglio ch’io taccia, anche per non dilungarmi troppo. Per trattare invece questioni nuove di pronta attuazione, di salvaguardia per la nostra dignità, di guadagno morale e materiale per l’Italia che risorge ora a nuova vita, occorre non perdere di vista lo svolgimento- dei fatti recenti. (Continua).