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IL BUON CUORE 269


Sostano innanzi a Gesù e lo lasciano libero di fare e dire quel ch’Egli vuole. Oh ì fermiamoci, arrestiamoci sulla via che ne conduce a morte, a rovina col peccato... Sostiamo innanzi a Gesù, alla sua Chiesa, ai suoi ministri... Lasciamo che essi compiano tutto, tutto il loro dovere, anche quando ci impongono lotta e sacrificio. La grazia di Dio, inevitabilmente, isoavemente, saprà strapparci ai lacci di morte per darci la vita vera, la vita dell’eternità. B. R.

Cosmopoli d’arte

Della buona educazione nel gusto letterario italiano qualcuno se ne occupa ancora, e da buoni consigli, tenendosi in mano la storia ammonitrice. Siamo adunque riconoscenti a Giuseppe. Finzi, il’quale se ne viene avanti con una nuova crestomazia e con un discorsetto che potrebbe anche significare una tiratina d’orecchi. In fatto di crestomazie il Finzi se n’è già radunate nella sua bibliotega un po’ per tutti i gusti: ha le novelle degli autori classici e le novelle degli autori moderni, quella macchiavellica che tutto succhia dallo scaltro storico e quella auto, biografica che fa fare una esposizione di autoritratti dai singoli scrittori; e poi di qua •e di là delle crestomazie ci sono i vocabolari, i dizionari, i trattati stillistici, i saggi e gli studi: insomma tutto il bagaglio di un professore laborioso e che ha fiducia nelle belle lettere. Anche questo nuovo volume ch’egli ci presenta è una raccolta fatta dal professore e dedicata agli studenti delle scuole ’medie superiori, ma di scuola questa volta c’è poco, per fortuna, nel libro e lo possiamo consigliare perciò in genere alle persone colte, affinchè accrescano la propria cultura. L’autore raduna sotto il titolo di Lyra nordica (S. Lattes C., editori, Torino, 1913), quasi settecento cinquanta pagine fitte fitte, nelle quali si affacciano a cantare tutti i migliori vati d’oltr’alpe di razza teutonica, ’abbigliati alla meglio con abito italiano. E tutto queSto cicaleccio ha un coordinamento ed uno scopo: vuole farci un po’ levare gli occhi per vedere come si pensi e come si scriva al di là dei monti, aprirci così ad una visione cosmopolita del beli-) lirico. Il cosmopolitismo in arte veramente non è una novita; è l’influenza dell’una nazione sull’altra è sempre esistita su questo punto perciò il raccoglitore sonda una porta aperta. Se di una cosa possiamo lamentarci anzi in Italia ai -dì nostri è per l’appunto la mancanza di un’arte che continui la tradizione nazionale. Perchè i giubettini dei.poetini e dei poetoni degli scodellatori di prosa ciarlante nelle gazzette

e gonfia nei romanzi sono tutti ritagliati sopra modelli d’oltralpe, e per ogni libro novello che si presenta in vetrina si potrebbe fare una ricerca di plagi all’estero mortificante anzichenò per la genialità italiana. E’ ben vero che l’imitazione e i pregi si fanno di seconda mano, perchè il colpo riesca più sicuro: ma ciò non toglie che la letteratura italiana non viva di scrocco, e che questo sistema sia per lo meno poco encomiabile dal punto di vista del nazionalism,‘ trionfante! Del resto, a farlo apposta, mai nel corso della letteratura italiana abbiamo avuto come nel periodo nostro il fatto che autori di fama indiscussa come Giosuè Carducci abbiano creduto di raccogliere, fra l’opera ’letteraria propria delle traduzioni da poeti stranieri è appunto di razza teutonica; mentre lo Zanella prima e il Pascoli poi furono traduttori ammirati; e Gabriele D’Annunzio va anche al solito al di là di ogni cosa ordinaria: non solo traduce, mi si fa egli stesso uno scrittore straniero. Dunque la tiratina d’orecchi per la mancanza di una visione •cosmopolitica in arte non va agli.scrittori. Il Finzi ha tuttavia ragióne quanto rileva la differenza dell’anima poetica latina da quella teutonica. Gli -scrittori di razza latina «hanno in grado straordinario, meraviglioso, la facoltà- della soggettivazione, ma scarsa quella dell’oggettivazione: parlano il linguaggio dell’operosa immaginativa accesa dalle cose, non lasciano che le cose stesse parlino nei loro,„versi il. In sostanza (almeno fino.a cent’anni addietro e restando naturalmente sulle generali) per i poeti nostri le cose erano il pretesto, erano le scarpe d’avviso per sbrigliare la fantasia dietro un pensiero galoppante verso l’etereo ideale; mentre la poesia nordica è più costantemente vincolata alle cose e materiata di loro direttamente. Però (e il Finzi nota la evoluzione ma non l’esagerazione) ai nostri dì siamo caduti in un difetto opposto: i nostri versaiuoli sdraiatisi sulle cose, non si curarono quasi più di cavarne il succo poetico, ma s•Y`accontentarono di farne dei cataloghi assolutamente privi di interesse. Il paesaggio divenne una pigrizia, servì per dar ombra e frescura a molti sonnecchiamenti di noiosi parolai, e la poesia non ha mai prosperato in modo tanto seccante. La tiratina di orecchi, se non va dunque agli scrittori, deve andare ai lettori: ai quali si fa un po’ colpa di non essere sufficientemente eruditi di ciò che riguarda la letteratura estera. Anche qui insorgiamo per un momento in difesa dei lettori... che non leggono. Perchè per leggere della poesia è necessario avere prima di tutto sotto gli occhi della poesia; e per gustare se abbiamo poesia autentica è necessario anche avere prima di tutto sotto gli occhi della poesia autentica. Ma la poesia tradotta può davvero chiamarsi poesia autentica? Qualche volta sì; ma questo qualche volta è un eufemismo per dire: rarissime volte. La verità, bisogna dirla tutta. La poesia tradotta mi dà la impressione di una bot