Il buon cuore - Anno XII, n. 27 - 5 luglio 1913/Religione

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Educazione ed Istruzione Beneficenza

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Vangelo dell’8a domenica dopo Pentecoste

Testo del Vangelo.

In quel tempo andavano accostandosi a Gesù dei pubblicani e dei peccatori per udirlo. E i Farisei e gli Scribi ne mormoravano dicendo: Costui si addomestica coi peccatori, e mangia con essi. Ed egli propose loro questa parabola, e disse: Chi è tra di voi che avendo cento pecore, e avendone smarrita una, non lasci nel deserto le altre novantanove, e non vada a cercare quella che si è smarrita, fino a tanto che la trovi! E trovatala se la pone sulle spalle allegramente e tornato a casa chiama gli amici e i vicini dicendo loro: Rallegratévi meco, perchè ho trovato la mia pecorella che si è smarrita? Vi dico, che nello stesso modo si farà più festa in cielo per un peccatore che fa penitenza che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. Ovvero qual’è quella donna, la quale avendo dieci dramme, perdutane una, non accenda la lucerna e non iscopi la casa, e non cerchi diligentemente fino a che l’abbia trovata? E trovatala, chiama le amiche e le vicine dicendo: Rallegratevi meco, perchè ho trovata la dramma perduta. Così vi dico, faranno festa gli angeli di Dio per un peccatore che faccia penitenza. SI LUCA,

cap. 1 4.

Pensieri. Occorre qui richiamare una circostanza di tempo e di luogo. Non tanto tempo prima — in occasione della festività della Dedicazione del tempio -- Gesù s’era manifestamente proclamato Dio in Gerusalemme colla conseguente risultanza che gli ebrei cercarono — come un bestemmiatore — di lapidarlo. Gesù s’era sottratto alla città incredula ed infedele e s’era portato — precisamente in questo tempo lo troviamo — sulle sponde del Giordano nella Perea dove aveva ricevuto solenne testimonianza da Giovanni Battista, e dove — col ricordo di tale testi [p. 211 modifica]monianza — intendeva richiamare il popolo alla prima fede, quel popolo che — nonostante gli armeggi dei nemici di lui — lo seguiva ovunque Gesù si recasse. Ecco come e dove si trova Gesù, quando pronuncia questa splendida tra le belle parabole del Vangelo. Esaminiamo quel popolo, e di chi si componesse. L’avevano seguìto i curiosi, che si muovono per ogni più futile motivo, per la novità di conoscere quell’uomo capace di sfidare l’ira del popolo e dei potenti di Gerusalemme: lo seguivano dei disgraziati convinti dei disordini della vita paSsata, col desiderio di emendare in un battesimo migliore di quello del Battista la propria vita: lo seguivano i nemici suoi implacabili ed ostinati di coglierlo in fallo, in contradizione per rovinarlo innanzi al popolo e tradurlo al Sinedrio. E’ a questa classe di cattivi, scribi e farisei, che Cristo racconta la parabola della pecora perduta e della dramma smarrita. Ma che intese Gesù? Rimproverare i difetti di quei cattivi -- l’amor del proprio interesse, la nessuna corrispondenza alla azione della grazia divina, la rigorosità e durezza da pastori mercenarii — e mostrare come la vera santità è accompagnata dalla sollecitudine nel cercare i peccatori, dalla gentilezza e dolcezza nel ricercarli al loro ritorno dal peccato, e da un sentimento di gioia nel vedere nella loro conversione una vittoria gloriosa della grazia divina. • •

La parabola — dopo le spiegazioni sopra date — è evidentissima. L’uomo di cui si dice è il nostro supremo pastore Gesù Cristo, che avrebbe supplito ai pastori indegni e mercenarii di prima per verificare il detto profetico: egli le pascerà e sarà veramente egli il pastore: le cento pecore sono e rappresentano il grande gregge della umanità, che Cristo deve pascere e guidare: le novantanove sono i giusti, e l’una, che si perde, è il peccatore. Proporzione consolante, che ci dice ed assicura il trionfo della sua grande ed infinita misericordia sulla giustizia: la pecora perduta, ritrovata e collocata sulle spalle del pastore oh! quanto commovente ne dice e riflette le cure, le sollecitudini, i sacrifici del pastore buono, del vero pastore Gesù Cristo. La colloca sulle sue spalle: non solo la rintraccia giù nella valle, sul dosso del monte, di dentro ai valichi più arditi, ma ci salva sollevandoci da tutti, riparati da lui, portati in salute dalla sua grazia divina. E dice Gesù ai farisei — indegni sacerdoti — dice ai suoi ministri l’obbligo del disinteresse, dice ai genitori — sacerdoti famigliari — lo scopo della loro vita, la loro missione. Abbandona le novantanove per... cercare l’una perduta! Come adunque giustificare, tranquillizzare la propria coscienza, quando s’isterilisce il ministe

ro per una anima -- non novantanove! - già sicura, già nell’ovile, mentre vanno perdute le altre tutte? Come giustificarsi di perdere il gregge per difendere sè, i proprii diritti, i comodi della propria posizione, i divertimenti ed i vantaggi proprii? Sacerdoti, genitori, Gesù lascia e rincorre quell’una che si perde, che va traviata, che è ribelle... Gesù se la pone sulle spalle, nè mostra alla pecora ritrovata collera alcuna o risentimento personale od amarezza. Ecco l’azione di Cristo sul peccatore: la sua azione divina. Col rimorso, la disgrazia desta l’addormentato, lo eccita innanzi al pericolo, l’abbraccia pentito e lo consola quando addolora. E noi imponiamo il nostro io; vogliamo spuntare, vincere noi, il nostro capriccio, glorificare il -nostro amor proprio. Da qui nasce il nostro poco sacrificio nella ricerca, la nostra irritabilità e nervosismo quando s’attarda la resipiscenza o conversione del prodigo e del peccatore, la nostra durezza quando ritorna per avere sollievo e perdono. Siamo il pastore buono, o non forse il mercenario? Ci rallegriamo del ritorno a Dio, alla fede, alla virtù, o non piuttosto del ritorno a noi, al nostro utile, al nostro interesse? B. R.

ITALICA GENS 11 Segretariato Centrale di New York durante• l’asti-in o 1902 La nostra Istituzione ha superato ormai il periodo transitorio di formazione ed è entrata nella:sua fase di vita permanente. Non cstante le sue lacune ed i suoi difetti, comuni del resto a tutte le opere nuove che non poggiano sugli ammaestramenti dell’esperienza, si può tuttavia affermare che il nostro ufficio riposa ormai su solide basi e tiene un posto importante tra le opere coloniali a servizio della nostra emigrazione. La sua notorietà s’è andata allargando spontaneamente, senza il rullo del tamburo, quale conseguenza naturale del lavoro efficace e perseverante, quanto silenzioso, da esso compiuto in questo secondo anno di vita. In resoconti precedenti abbiamo parlato di difficoltà, ostilità o indifferenza che abbiamo trovato sul nostro cammino; ma abbiamo anche detto che a noi gli, ostacoli non solo non fanno paura, ma ci riescono di stimolo a maggior lena, anzi ci sono arra di successo, sia pure a lunga scadenza. Strenue cvsilenter è il nostro motto di azione; i nostri benefattori ed amici siano sereni e fidenti: a suo tempo [p. 212 modifica]vedranno i frutti di quest’albero che cresce lento sì come la quercia, ma altrettanto resistente alla bufera. Nei primi mesi di sua vita questa Italica Gens, a New York fu creduta da alcuni una nuova stella filante nel burrascoso cielo coloniale, che avrebbe tutt’al più sollecitato la curiosità del pubblico italiano, ma che ben presto sarebbe scomparsa nel naufragio aereo delle utopie; da altri fu guardata con discreta diffidenza come una usurpatrice di allori non conquistati; moltissimi non se ne curarono affatto. Ora invece i primi ed i secondi hanno modificato la loro opinione, perchè quelli e questi si sono convinti Che noi abbiamo un solo scopo ed un solo movente, quello di far del bene al nostro emigrato, concorrendo con le altre lodevoli istituzioni coloniali, a rialzarlo dall’abbandono in cui s’è trovato finora e dirigerlo a migliori destini. Anche il numero degli indifferenti va diminuendo man mano che noi allarghiamo la nostra sfera di azione. Dobbiamo però dire che l’interessamento e la simpatia verso l’opera nostra ci viene più dagli americani che dagli italiani; sempre per quel mai abbastanza deplorato individualismo latino e specialmente italiano, che reagisce allo spirito di associazione e vuol far da sè quando ne è capace, oppure diffida degli altri quando non può far da sè. L’anglo-sassone, il tedesco intuisce naturalmente i benefici dell’associazione e si sobbarca volentieri agli inevitabili pesi, sacrificando volentieri le sue vedute individuali quando il bene comune lo richiede, almeno per sentimento di disciplina e per l’utile comune che ne deriva. L’italiano invece vuole far trionfare sempre e dovunque le sue vedute, non è capace di cedere alle vedute altrui, si ritira subito se non è ascoltato, magari brontolando in segreto e con dispetto contro l’umana ingiustizia. Nelle colonie italiane molte belle opere potrebbero fiorire se cessasse questo miserabile egoismo; invece assistiamo a spettacoli spesso indecenti, di guerre e di lotte puramente di distruzione, perchè dell’opera tale o dell’ospedale tal’altro non si è potuto far tutti presidenti, o l’iniziativa è partita da un gruppo piuttosto che da un altro. A New York delle colonie minuscole di altre nazionalità han saputo unirsi e farsi rispettare, dando vita ad opere di grande efficacia; per esempio la colonia francese, che è una delle meno numerose, ha saputo e potuto metter su un’ospedale che è ammirato da tutti.. I nostri invece, che pure sommano oltre il mezzo milione, non sono riusciti ancora a concordarsi

nè per un ospedale (non ostante larghi sussidi del patrio Governo) che dia serio affidamento di esistenza e che abbia carattere nazionale, nè per un ospizio per i vecchi, nè per un istituto di correzione pei fanciulli discoli, pei quali bisogna sempre dipendere dalle-istituzioni americane. E’ chiaro che in un simile ambiente è estremamente difficile organizzare una istituzione qualsiasi che possa contare sul favore della colonia nostra. Noi facciamo quel poco di bene che la generosità dei nostri benefattori d’Italia ci permette di fare; purtroppo finora in America nessuno ci ha dato la mano: nessuno ci ha portato il contributo di un centesimo. Tutte le spese dei nostri uffici di New York e di Chicago, ed in parte quelle del nuovo ufficio di New Or(eans, furono sostenute esclusivamente dalla carità patria, cioè dai benefattori della Italica Gens in Italia. Le pratiche espletate dal nostro ufficio di New York durante l’anno 1912, che si -possano controllare nei nostri registri, ammontano a diverse migliaia e consistettero principalmente in collocamento al lavoro, in assistenza per infortunio, per sbarco, per rimpatrio, per l’ammissione gratuita di connazionali all’Ospedale ed altri Istituti, in assistenza legale, ricerca di persone, di documenti, nel provvedere vitto ed alloggio ad emigranti, ecc. La corrispondenza che dovette sbrigare l’ufficio fu numerosissima. Come già facevamo notare nella nostra relazione dell’anno scorso (v. Bollettino marzo-aprile 1912), l’attività d’un Segretariato gratuito a New York presenta notevoli difficoltà, specialmente per quanto riguarda il collocamento al lavoro, la ricerca di persone e le pratiche legali per indennizzi d’infortunio. Oui è difficile in particolar modo trovare occupazione alle persone che, magari dotate di certa istruzione, cercano un posto od un impiego: costoro spesso vengono a trovarsi qui in condizioni difficilissime. Per avventurarsi in America occorre generalmente buona salute, e la padronanza di qualche mestiere manuale determinato. La legge che regola l’ammissione degli emigranti negli Stati Uniti è già discretamente severa e fa già da potente ventilabro soffiando via le paglie, respingendo cioè tutti i difettosi di costituzione fisica; e, se talvolta pare inumana nel separare parenti ed amici che arrivano assieme o sono aspettati, non si può tuttavia negare che, tutto sommato, fa anche del bene sia a quelli respinti che a quelli ammessi. E’ già approvata dal Parlamento e dal Senato, [p. 213 modifica]e fra poco forse sarà firmata anche dal Presidente, con qualche variante però, una nuova legge sulla immigrazione che colpirà certo fortemente gli italiani perchè escluderà chiunque non sappia leggere e non sia provvisto di regolare passaporto, se è uso del Governo del suo paese di rilasciarli ai cittadini che emigrano (i). La seconda parte di questa legge non contiene un nuovo torto agli italiani, perchè in pratica quasi tutti i paesi d’Europa lo pretendono di già e da molti anni. Quanto alla clausola di saper leggere è certo una novità nella legislazione sugli stranieri ed è anche certo che è un colpo diretto specialmente agli italiani. E’ un bene od un male? Le opinioni sono divise nello stesso campo americano e tutti hanno un po’ di ragione secondo l’aspetto sotto cui si considera la questione. Certo che il chiudere le porte agli analfabeti priverà il paese di un’armata di vigorosi lavoratori, di quegli eroi che ora in maggioranza maneggiano il piccone nelle miniere, nelle gallerie, sulle ferrovie, nelle strade. Ma non si può tuttavia negare che un analfabeta in questo paese di intensissima vita commreciale e politica, troppo facilmente va soggetto a rimaner vittima di frodi e d’inganni di ogni genere. Io dirò francamente che questa legge può far del bene; a parte l’argomento etico, che l’istruzione è sempre veicolo di civiltà e di elevamento morale ed intellettuale, vi è un’altra ragione d’ordine nazionale, ed è che fra i bollettini di statistica non figureranno certamente più quei 70.046 italiani entrati nell’anno scorso (giugno 1911[-giugno 1[912) su 189 mila e 95o ammessi, che non sapevano nè leggere nè scrivere.

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Quanto alle ricerche di persone facciamo nuovamente notare che per rintracciarle occorre mandarci sempre l’ultimo indirizzo dato od almeno la busta per vederne il timbro postale, specialmente quando scrivono: Box N. N., il che significa ordinariamente che la località non ha portalettere e quindi i destinatari devono andarla a ritirare all’ufficio postale, casella X. Per gli infortuni sul lavoro osserviamo che molti vanno prima a farsi gabellare da avvocati senza lau(a) Come è noto questo progetto di legge è stato respinto, cosicchè attualmente l’accesso negli Stati Uniti agli stranieri anal• fabeti non è proibito da nessuna legge. N. d. R.

rea (è così facile in America ottenere un diploma di consigliere legale), ordinariamente giudici i quali tengono in ufficio un qualche scritturale italiano perchè faccia da avvocato italiano, cioè interprete azzeccagarbugli. Quando i disgraziati clienti hanno aspettato dei lunghissimi mesi, allora si ricordano che c’è un Consolato o l’Italica Gens, e vengono perchè facciamo far loro giustizia. Ma ben poco si può fare in tali casi, perchè il famoso avvocato ha tutt’al più fatta iscrivere la causa a ruolo e lascia che il mondo giri tranquillamente col cliente in aspettativa. Le cause di liquidazione ui indennizzi sono una babilonia dove chi ne capisce è bravo. Date le povere leggi che ci sono in proposito, è estremamente difficile e lungo fare un processo che ottenga qualche benefizio pel danneggiato. Il Consolato con la sua Sezione Legale fa quel che può, ma non si può pretendere da esso nè che inventi le leggi, nè che comandi a bacchetta il ruolo delle ’cause; quindi, i lamenti• che noi riceviamo per certe lungaggini di cause affidate ad. esso, ci paiono infondati. Noi diamo schiarimenti ed informazioni che sono alla portata delle nostre cognizioni e della nostra esperienza e ci serviamo parimenti dei consigli e delle istruzioni che il nostro amico, l’egregio avvocato Lorenzo Ullo, ci fornisce gratuitamente all’occorrenza. (Continua).

Rossini e sua madre

Le frasi colle quali Gioachino Rossini parlava di sua madre, sono l’espressione di un amore, di una tenerezza, di una ammirazione senza confine. Anna Guidazini — la madre -- paSsava per essere una delle più belle giovani romagnole. a Io, per istinto — confessa Rossini — anché dalla più tenera infanzia, ero assai sensibile alle attrattive di una bella figura femminile; ma quella di mia madre non potevo cessare dal contemplarla, come assorto in una vera estasi». In questi Ricordi della sua infanzia, raccolti da Edmond Michette, e che La Cronaca Musicale pubblica, Gioachino Rossini ci fa di sua madre un ritratto che è vivo: a Alta, ben proporzionata, la carnagione freschissima, un po’ pallida, di lunghi capelli neri magnifici che spontaneamente si inanellavano, una dentatura irreprensibile, ella [p. 214 modifica]aveva nei suoi tratti una espressione di dolcezza veramente angelica. Allorchè sgranava gli occhi, lo sguardo aveva la fissità della Madonna di S. Sisto di Raffaello: era uno splendore! La palpebra superiore essendo assai larga, si inclinava nello stato normale leggermente sulla pupilla e ciò dava allo sguardo un carattere indefinibile, una specie. di morbidezza orientale». Gioachino, fin da piccolo, la chiamava la sua Santa mamma. Ebbe ’un bell’ammonirlo il parroco che la Santa Madre è la Madonna, e che Essa ’sola può essere chiamata così. Ne fu costernato: il pensiero che non vi era che in cielo una Santa Madre lo contrariava. Volle sapere «se la Santa Madre del Paradiso era più bella di mamma Anna e specialmente la domenica». Oh, la Santa Madre è più bella del sole: nessuna bellezza le può essere paragonata; se tu la potessi vedere, saresti accecato dal suo splendore. Come vorrei andare in Paradiso per vedere se è vero! E se tu diventassi cieco? Andrei cl un medico a farmi guarire. E se tú trovassi la Santa Madre più bella di Mamma Anna? Oh, allora ne avrei tanto dispiacere, che ne piangerei per tutta la vita. «Non andai in Paradiso, non ebbi a piangere e continuai ad ammirare la Santa Mamma». Essa — la madre — era gaia di indole, sempre sorridente e di buon umore. Non conosceva una nota di musica, ma aveva una memoria prodigiosa nel ricordare tutte le canzoni popolari della Romagna. Alla sera, davanti alla casetta di Rbssini, si raccoglievano sua nonna, sua madre, suo padre ed alcuni vicini: erano grandi discussioni di politica. «Ordinariamente, dopo la discussione, mia madre si metteva a cantare, e mio padre l’accompagnava col corno, facendo istintivamente — poiché era poco musicista — un controcanto molto armonioso. Ai primi suoni, provavo un benessere, un rapimento di cui in quell’età non potevo comprendere la ragione. Ciò che ho ricordato è che io mi sentivo come immobilizzato dall’estasi e che, dopo l’ultima nota di quei duetti che mi producevano una sensazione tale che nulla nella mia vita mi ha prodotto alcunchè di simile, mia madre mi portava a dormire, senza che io potessi pronunciare una sola parola». Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’Enciclopedia del Ragazzi.

GIUSEPPE LONGHI

Improvvisa, quanto dolorosa, ci è pervenuta la notizia della morte di quell’egregio uomo che era il comm. avv. Giuseppe Longhi. La inaspettata, straziante dipartita è avvenuta dopo una operazione chirurgica che non valse a scongiurare la temuta catastrofe. Nobile di mente e di cuore, profondo cultore delle scienze giuridiche e amministrative, dedicò dapprima le sue cognizioni e le sue belle energie a Cantù, dov’era nato il io luglio 1846. Al suo diletto paese nativo occupò per molti anni la carica di sindaco, nonchè quella di presidente dell’amministrazione di quell’ospedale. Pronto sempre per tutti coi migliori obbiettivi, era da tutti amato e stimato per la grande bontà e per una specchiata rettitudine. Rifuggente da ogni forma di favoritismo, era tutto cuore per gli sventurati, pei malati, pei vecchi, pei bambini bisognosi di cure. Pur troppo, nel più bel cammino della sua vita benefica, fu colpito atrocemente, ripetutamente nei più dolci, sacri affetti famigliari: la figlia adorata, sposa e madre felice, gli fu rapita, e il figlio diletto, orgoglio legittimo del cuore paterno, aveva appena conseguito la laurea in legge, quando gli veniva strappato da morbo invincibile. Che fece allora l’avv. Giuseppe Longhi? Non piegò ’sotto l’atroce dolore che pareva dovesse minare la sua esistenza: sostenuto dalla Fede, lottò e vinse, dedicandosi più di prima, con tutto l’ardore di un cuore trafitto e bisognoso di conforto, al bene del paese e alle sue predilette opere di beneficenza. Così fu illuminato Consigliere Provinciale di Cantù e Presidente della Deputazione Provinciale di Como. Più ancora, egli fu apprezzatissimo Vicepresidente dell’Amministrazione dell’Ospedale Maggiore di Milano, e per ventidue anni fu Segretario superiore e ispettore didattico degli Asili di Carità per l’Infanzia. In tutte queste amministrazioni l’avv. Giuseppe Longhi ha lasciato preziosi documenti che proveranno alle generazioni future l’elevatezza della sua mente, la profondità de’ suoi studi e la eccezionale bontà del suo spirito informato sempre ai più nobili ideali. Specialmente le sue relazioni alle assemblee dei benefattori degli Asili per l’Infanzia, dove l’egregio uomo effondeva tutto il suo cuore compre [p. 215 modifica]so del dovere di curare i bambini del popolo, non saranno dimenticate e rimarranno ad attestare la di lui opera preziosa e perseverante a vantaggio della classe lavoratrice, con alta finalità educativa. Le maestre degli Asili rimpiangeranno la perdita del Longhi come la perdita di un padre; i colleghi, gli amici tutti lo ricorderanno sempre con affetto profondo. Pace al caro defunto! E a colei cui fu tanto crudele il distacco doloroso, alla consorte che Seppe di quel cuore leale i nobili sacrifici e i forti affetti, sia lenimento allo strazio il pensarlo nella serenità del riposo, nella felicità del ricongiungimento con le anime dilette che erano ad attenderlo, nel premio certamente già concesso alla di Lui grande bontà. A. M. CORNELIO.

Cantù, 3o. — Funerali. — Oggi tutta questa popolazione ha tributato un solenne plebiscito d’amore al riMpianto comm. avv. Giuseppe Longhi, la cui spoglia, giunta da Milano, è stata portata come in trionfo alla chiesa parrocchiale e alla cappella di famiglia. Da Milano a Como erano convenuti per la mesta cerimonia distinti personaggi: il Prefetto e il Sindaco di Como, l’on. Carcano, i consiglieri provinciali Sangregorio e Sala, i senatori Gavazzi e Amaboldi, gli avvocati Mezzi e T. Castelli per l’Ospedale Maggiore, il comm. ing. Marazzani per gli Asili milanesi di Carità per l’Infanzia con patronesse e con un gruppo di bambini, il conte Crivelli, il comm. Alberto Corbetta, l’architetto Cesa Bianchi, ecc. Sulla fronte della chiesa leggevasi una epigrafe sintetica che compendiava le benemerenze del defunto che alla provincia-, al comune e alla beneficenza dedicò tanta parte della sua vita operosa!e alla famiglia e agli amici un tesoro di affetti e di bontà. Il feretro scompariva sotto una quantità di splendide corone, e parecchie carrozze precedevano il carro funebre con altre corone magnifiche inviate da istituzioni pubbliche e da amici. Innumerevoli le rappresentanze, e tre corpi musicali silenziosi in segno di lutto profondo. Il corteo era interminabile e passò tra due fitte siepi di popolo riverente e commosso. Al cimitero prese prima la parola come amico il comm. Corbetta. Parlarono di poi il Prefetto e il Sindaco di Como, l’avv. Sangregorio per la Deputazione Provinciale, gli avv. Mezzi e T. Castelli per

l’Ospedale Maggiore, il signor A. M. Cornelio per gli Asili milanesi di Carità, il Sindaco e il Presidente dell’Ospedale di Cantù e da ultimo il senatore Arnaboldi. Il cav. ing. Edgardo De Capitani ringraziò tutti colle lagrime agli occhi. Tutta la popolazione ritornò silente e commossa in paese, deplorando la scomparsa repentina di un uomo da tutti amatissimo.