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IL BUON CUORE 211


monianza — intendeva richiamare il popolo alla prima fede, quel popolo che — nonostante gli armeggi dei nemici di lui — lo seguiva ovunque Gesù si recasse. Ecco come e dove si trova Gesù, quando pronuncia questa splendida tra le belle parabole del Vangelo. Esaminiamo quel popolo, e di chi si componesse. L’avevano seguìto i curiosi, che si muovono per ogni più futile motivo, per la novità di conoscere quell’uomo capace di sfidare l’ira del popolo e dei potenti di Gerusalemme: lo seguivano dei disgraziati convinti dei disordini della vita paSsata, col desiderio di emendare in un battesimo migliore di quello del Battista la propria vita: lo seguivano i nemici suoi implacabili ed ostinati di coglierlo in fallo, in contradizione per rovinarlo innanzi al popolo e tradurlo al Sinedrio. E’ a questa classe di cattivi, scribi e farisei, che Cristo racconta la parabola della pecora perduta e della dramma smarrita. Ma che intese Gesù? Rimproverare i difetti di quei cattivi -- l’amor del proprio interesse, la nessuna corrispondenza alla azione della grazia divina, la rigorosità e durezza da pastori mercenarii — e mostrare come la vera santità è accompagnata dalla sollecitudine nel cercare i peccatori, dalla gentilezza e dolcezza nel ricercarli al loro ritorno dal peccato, e da un sentimento di gioia nel vedere nella loro conversione una vittoria gloriosa della grazia divina. • •

La parabola — dopo le spiegazioni sopra date — è evidentissima. L’uomo di cui si dice è il nostro supremo pastore Gesù Cristo, che avrebbe supplito ai pastori indegni e mercenarii di prima per verificare il detto profetico: egli le pascerà e sarà veramente egli il pastore: le cento pecore sono e rappresentano il grande gregge della umanità, che Cristo deve pascere e guidare: le novantanove sono i giusti, e l’una, che si perde, è il peccatore. Proporzione consolante, che ci dice ed assicura il trionfo della sua grande ed infinita misericordia sulla giustizia: la pecora perduta, ritrovata e collocata sulle spalle del pastore oh! quanto commovente ne dice e riflette le cure, le sollecitudini, i sacrifici del pastore buono, del vero pastore Gesù Cristo. La colloca sulle sue spalle: non solo la rintraccia giù nella valle, sul dosso del monte, di dentro ai valichi più arditi, ma ci salva sollevandoci da tutti, riparati da lui, portati in salute dalla sua grazia divina. E dice Gesù ai farisei — indegni sacerdoti — dice ai suoi ministri l’obbligo del disinteresse, dice ai genitori — sacerdoti famigliari — lo scopo della loro vita, la loro missione. Abbandona le novantanove per... cercare l’una perduta! Come adunque giustificare, tranquillizzare la propria coscienza, quando s’isterilisce il ministe

ro per una anima -- non novantanove! - già sicura, già nell’ovile, mentre vanno perdute le altre tutte? Come giustificarsi di perdere il gregge per difendere sè, i proprii diritti, i comodi della propria posizione, i divertimenti ed i vantaggi proprii? Sacerdoti, genitori, Gesù lascia e rincorre quell’una che si perde, che va traviata, che è ribelle... Gesù se la pone sulle spalle, nè mostra alla pecora ritrovata collera alcuna o risentimento personale od amarezza. Ecco l’azione di Cristo sul peccatore: la sua azione divina. Col rimorso, la disgrazia desta l’addormentato, lo eccita innanzi al pericolo, l’abbraccia pentito e lo consola quando addolora. E noi imponiamo il nostro io; vogliamo spuntare, vincere noi, il nostro capriccio, glorificare il -nostro amor proprio. Da qui nasce il nostro poco sacrificio nella ricerca, la nostra irritabilità e nervosismo quando s’attarda la resipiscenza o conversione del prodigo e del peccatore, la nostra durezza quando ritorna per avere sollievo e perdono. Siamo il pastore buono, o non forse il mercenario? Ci rallegriamo del ritorno a Dio, alla fede, alla virtù, o non piuttosto del ritorno a noi, al nostro utile, al nostro interesse? B. R.

ITALICA GENS 11 Segretariato Centrale di New York durante• l’asti-in o 1902 La nostra Istituzione ha superato ormai il periodo transitorio di formazione ed è entrata nella:sua fase di vita permanente. Non cstante le sue lacune ed i suoi difetti, comuni del resto a tutte le opere nuove che non poggiano sugli ammaestramenti dell’esperienza, si può tuttavia affermare che il nostro ufficio riposa ormai su solide basi e tiene un posto importante tra le opere coloniali a servizio della nostra emigrazione. La sua notorietà s’è andata allargando spontaneamente, senza il rullo del tamburo, quale conseguenza naturale del lavoro efficace e perseverante, quanto silenzioso, da esso compiuto in questo secondo anno di vita. In resoconti precedenti abbiamo parlato di difficoltà, ostilità o indifferenza che abbiamo trovato sul nostro cammino; ma abbiamo anche detto che a noi gli, ostacoli non solo non fanno paura, ma ci riescono di stimolo a maggior lena, anzi ci sono arra di successo, sia pure a lunga scadenza. Strenue cvsilenter è il nostro motto di azione; i nostri benefattori ed amici siano sereni e fidenti: a suo tempo