Il buon cuore - Anno XI, n. 32 - 10 agosto 1912/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XI, n. 32 - 10 agosto 1912 Religione

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Il dolore di Michelangelo

Da pochi anni il pubblico (dico pubblico inesattamente) si interessa alla vita intima di Michelangelo. Prima bastava il suo nome quasi balenante di una luce al di là a dare un’idea molto vaga del suo genio colossale. Il suo nome è un po’ fratello, nella fortuna a traverso i secoli, a quello di Dante e di Sanzio nel fatto che dall’alta gloria a cui pervennero sono universalmente noti, pronunciati da tutte le labbra senza che la ragion prima di tanta gloria invogli le anime ad una conoscenza più precisa. Anzi l’opera loro, terribile di bellezza, intimidisce e scosta i profani per attirare e penetrare di amore ardente solo gli eletti. Infatti il novecentonovantanove per mille degli italiani non vede che una volta sola il Mosè anche se tutte le circostanze più propizie siano a loro favorevoli per ripetere la visita alla Chiesa di S. Pietro in Vincoli.

È così. Del resto eguale fenomeno si ripete per tutte le arti, per tutti i grandi nomi diventati non altro che simboli del genio e valori per quotare la minore o maggiore elevazione spirituale di questa o quest’altra nazione. Tuttavia gli adoratori della bellezza in tutte le sue forme ci sono e ci saranno sempre: rari, isolati, sperduti; ma eterni. Ecco, ora, Michelangelo ricercato, scrutato, nelle sue lettere, nelle sue poesie. D’ora innanzi, accanto alle visioni evocate dal suo nome, contempleremo anche quella del suo spirito; non più un momento solo della sua vita interiore, fissato nel marmo, ma potremo vivere con lui della sua vita quotidiana. L’incanto di quella pura solennità aspirante all’infinito è rotto; conosceremo Michelangelo insonne, torturato, assetato nello sforzo di trascendere l’involucro mortale, teso con le radici dello spirito alla conquista di un’altezza spirituale che gli dia la pace. Il fatto che dovette rifugiarsi nella poesia non bastandogli i mezzi sovrani di cui disponeva per esprimersi, prova che ozio non fu mai nella sua vita: la parola, pennello e scalpello dei solitari, la parola che concede di operare scolpendo e dipingendo, pur nella immobilità più assoluta, in qualsiasi condizione di tempo e di luogo che sarebbe negativa a trattare il marmo e la tela, fu per Michelangelo l’arme per combattere il suo divino demone interiore, il balsamo per carezzare le piaghe dell’anima ferita, fu la voce per il grido, fu la preghiera e il lamento tra un lavoro e l’altro, e la compagna inseparabile di tutte le ore. Bisogna pensarlo questo creatore di forme, questo vincitore della materia, colui che si scagliava contro il marmo come belva sulla preda, sempre insaziabile, insoddisfatto, raffigurarlo ai nostri occhi sprezzante della gloria e fisso al proprio cuore in cerca di un’armonia su cui potesse riposare. Poetava per bisogno irresistibile: il suo verso è per lo più scabro, ma la parola vi regna e balena, quasi corrusca: egli la trae dall’intimo suo che è tutto un solo ardore e ce la presenta come un carbone, acceso ancora di qualche fiamma lingueggiante.

Solo io ardendo all’ombra mi rimango,
Quando il Sol dei suoi razzi il mondo spoglia;
ogni altro piacere, e io per doglia,
prostrato in terra mi lamento e piango.

Così scriveva in versi nel 1523 quando la sincerità nella lirica era cosa non soltanto fuori moda, ma quasi impossibile grazie ai modelli tiranneggianti e allo stampo petrarchesco non ancora disfatto.

Un altro grido:

Io piango, io ardo, io mi consumo, e il core
di questo si nutriste. O dolce sorte!
Chi è che viva sol della sua morte,
come fo io d’affanni e di dolore?

Le parole ardere, agghiacciare, ricorrono frequentissime con vivacità di immagini, ma con maggiore intensità di significato che non avessero nelle rime del [p. 250 modifica]Petrarca: per Michelangelo i simboli del ghiaccio e del fuoco avevano un valore immanente nella vita del suo spirito e a meraviglia esprimevano il contrasto tra lui, uomo d’amore, amante dell’amore, incline ad abolire tutto il reale nell’ideale e il mondo freddo, indifferente, troppo al di sotto di lui, in questo riscontriamo pure il contrasto fra Dio e gli uomini.

Egli stesso così si confessa: Sappiate che io sono il più inclinato uomo ad amar le persone, che mai in alcun tempo nascesse. Qualunque volta io veggo alcuno che abbia qualche virtù, che mostri qualche destrezza d’ingegno, che sappia fare o dire qualche cosa più acconciamente che gli altri, io sono costretto a darmi a lui in maniera di preda, ch’io non sono più mio, ma tutto suo.

Come resterò in vita?
Anzi mi dice per più doglia darmi
che sè stessa non ama, e vero parmi.
Come posso sperar di me le dolga
se sè stessa non ama?

Pare un motivo di raffinata psicologia moderna.


Nella donna sublima la virtù e la bellezza eterna, torturandosi nella impossibilità assoluta di un intero dominio su di lei. Coi sensi non si può salire tanto da comprendere la vera bellezza nella quale brilla la pietà nella somma di tutti gli altri pregi.

Come non puoi non esser cosa bella,
esser non puoi che pietosa non sia.

Prima di lui quanti versi per definire l’amore, e quante imagini di maniere che via via raffreddarono la stessa domanda che partiva dal cuore! Michelangelo si toglie d’impaccio con disinvoltura:

Amore è un concetto di bellezza
immaginata o vista dentro il cuore,
amica di virtute e gentilezza.

E fra le donne non crede possibile l’esistenza di colei che incarni perfettamente il sogno.

Nessun volto è fra noi che pareggi
l’imagine del cor.

E altrove:

Dimmi di grazia, Amor, se gli occhi miei
veggono il ver della beltà che aspiro,
o se io l’ho dentro, allor che, dov’io miro,
veggio scolpito il viso di colei.

Le citazioni potrebbero continuare, tutte scultorie, precise, a traverso le quali l’anima vera del Buonarroti si presenta, si delinea, si confessa offrendoci il magnifico dono di conoscerlo più come uomo che come artista. Nello scultore sovrabbonda il genio che è già per se stesso qualcosa di troppo superiore all’uomo; invece nella parola, che è comune a tutti, egli si avvicina a noi quasi direi con ingenua umiltà fra singulti e pianti e gridi che ora lo pareggiano a qualunque fratello in dolore ed ora lo innalzano gigantesco al di là della vita.

Poichè la sua costante aspirazione è appunto l’assorbimento in Dio, termine fisso a ogni sogno di bellezza. La notte che segue al giorno, che dà riposo e agio di contemplazione non è notte per lui, come la morte non è morte, ma integrazione col primo amore.

Perché Febo non torce e non distende
intorno a questo globo freddo e molle
le braccia sue lucenti, il volgo volle
notte chiamar quel sol che non comprende.

Un sonetto è interamente dedicato alla notte e giova riportarlo affinchè almeno questa poesia, piena di fascino elegiaco, dove palpita un alto respiro di vita vissuta, resti a qualche lettore meno distratto come un saggio da amare e conservare. Ogni verso vuole meditazione.

O notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn’opra sempre alfin assalta.
Ben vede e ben intende chi l’esalta,
chi t’onora ha l’intelletto sano.
Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero,
che l’umid’ombra e ogni quiete appalta,
dall’infima parte alla più alta
in segno spesso porti, ov’ire spero.
O ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria all’alma, al cor nemica,
ultimo degli afflitti e buon rimedio.
Tu rendi sana nostra parte inferma,
rasciughi i pianti e posi ogni fatica
furi a chi ben vive ogn’ira e tedio.

Una ispirazione lirica di questo genere nella prima metà del secolo decimosesto non è un colpo d’ala degno soltanto dell’aquila? Più tardi nella poesia si seguirono accenti sinceri ispirati dalla notte, ma dopo alcuni secoli, quando l’anima evoluta e liberata per forza intrinseca dalle pastoie tradizionali seppe scavar nel proprio dolore e cantare nuda di fronte alla natura. Michelangelo parlò con la notte, l’amò; e certo fu per lui passione non fugace ma di tutta la vita; non so immaginare interrotto mai l’idillio tra lui e il silenzio, ora, che leggendo i suoi versi sento il suo spirito vibrare nei secoli. Amò la notte e le diede vita nell’arte con tutti i mezzi.

Regni il suo nome nella gloria, ma l’anima sua io la credo, a braccia tese, implorante e agonizzante, come nella «Pietà» di Palestrina.

Il rifugio di lbsen ad Amalfi

(Continuazione e fine, vedi n. 31).

Raffaele Barbaro, il cameriere di Ibsen — che seppe solo assai tardi di essere stato a contatto con un grande uomo — vi dirà che il suo ospite di tre mesi dormiva in quel lettuccio sprofondato nella penombra dell’alcova a pochi passi dal lettuccio della signora; che Segurd dormiva nella cameretta vicina; che tutti e tre erano in piedi la mattina alle 7, che Ibsen lavorava dalle 10 alle 12 e mezza e dalle 14 alle 17, ora in cui usciva a passeggio per rientrare alle 18 e mezza. Alle 19 la famiglia pranzava e poi sino alle 10 e mezza rimaneva a godersi il fresco e la solitudine in faccia al mare sulla terrazzina che domina Amalfi, incontro al convento dei Cappuccini.

— L’ho trovato sempre gentilissimo, di poche [p. 251 modifica]parole, però... Mi donò, un giorno, un suo vestito.... Lo avrei serbato sempre nell’armadio se avessi saputo che quel piccolo signore dalla grande testa ispida era un poeta.

— Poeta! poeta! poeta! — blaterò un omuncolo alto poco più che così, dal viso scolpito da innumeri rughe e incorniciato da favoriti sale e pepe che alla lontana potrebbero somigliare un poco a quelli di lbsen e altrettanto a quelli di Griiger transvaliano.

Il padrone, signor Barbaro, un pronipote del fondatore dell’albergo, mi spiegò che quel vecchietto ritiri, secchito dalla senescenza è Andrea Guerriero, il cuoco ora in riposo dell’albergo.

E Guerriero, saltellando come un agile cercopiteco, non troppo eretto, trascina nel mezzo del salotto la scrivania storica e, balbettando parole incomprensibili, fa l’atto di scrivere e poi corre sulla terrazza e cammina in su e in giù con aria penosa e grottesca per mostrare a voce ed ai signori che sono meco ciò che Ibsen faceva abitualmente.

Poi, a suo modo, più con i gesti che con la voce, mi racconta delle ghiottonerie che sapeva preparare al poeta al quale non dispiaceva il vino arzillo detto del Cannello... Anzi L. Ibsen, buongustaio, soleva dii e che di ogni paese bisogna saper apprezzare i prodotti indigeni. Si beva pure la birra nel nord, ma il vino in Italia....

— E del poeta aveste mai più notizie dirette? — chiesi al padrone.

— Sì. Ed ecco come. Egli, prima di partire, dopo che ebbe terminata la sua opera, scrisse sul nostro album la propria firma; ma i collezionisti di autografi ce la strapparono via con tante altre di indubbio valor’e, come quelle di Gladstone, del cardinale Gioacchino Pecci e di Hugo. La mia mamma, che vive ancora, gli scrisse diciotto anni fa e Ibsen le rispose da Cristiania in data 16 luglio 1894, questa lettera che conserviamo in cornice.

Col suo caratteristico carattere regolarissimo, secco, privo di svolazzi, obliquo da sinistra verso destra, Ibsen ricorda in italiano — che conosceva perfettamente — alla signora Barbaro i bei giorni trasi:orsi nell’autunno del 1879, nell’Albergo della Luna, sulla riviera incantata di Salerno.

— Poi più nulla?

— Di lui personalmente, più nulla — saltò su Raffaele Barbaro il cameriere; — ma....

— Di’ pure.

— La mattina del 23 ottobre 1905, scese al nostro albergo un signore di mezza età, distinto nei modi e un poco triste. Ci chiese dell’appartamentino occupato già da Ibsen e subito lo prese in affitto per intero e poi vi si chiuse dentro. Passò qualche ora ed egli non si faceva vivo. Noi, sinceramente, eravamo in pensiero. Con la scusa di annunciargli che la colazione era pronta, bussai all’uscio parecchie volte finchè l’ospite non mi venne ad aprire:

— «Signore.... — dissi e, poichè egli aveva gli occhi lagrimosi -e il viso pallido e triste, non ebbi cuore di continuare. Dietro di me stava Guerriero il cuoco.

— «Non sei tu, Barbaro il cameriere? e tu non sei il cuoco? — ci domandò quasi sottovoce.

— «Signorsì — risposi.

— «Non mi conosci?

— «Non mi pare....

— «Guardami e cerca nella tua memoria.

— «?

— «Non trovi? — e così mi passò il suo biglietto da visita.

«Lessi: Sigurd Ibsen. Io rimasi così confuso ed egli abbracciò piangente il cuoco e me. Chi doveva riconoscere in quel signore severo il signorino di ventisei anni prima?» — e il cameriere tacque commosso, preda alle memorie.

Nessuna lapide — che potrebbe essere murata tra le due finestre che guardano il mare, corrispondenti alle camerette ove dormì la famigl’uola Ibsen — ricorda che là in un quieto autunno italico, di tra il maturare degli aranci e i pungenti profumi del Tirreno nacque un capolavoro.

Ma entro le mura di poche piccole camere, per lo spirito dei pellegrini che si soffermano ad Amalfi, vive e palpita ancora per l’eternità l’anima del solitario scandinavo.

Il voto del Manzoni

per Roma capitale

Sabato scorso venne presentato a Francesco Torraca, che è così alta illustrazione della coltura e della scuola italiana, in ricorrenza del trentaseiesimo anniversario della sua laurea, un volume di studi a lui dedicato per cura di un Comitato di uomini insigni, del quale fan parte Benedetto Croce, Alessandro D’Ancona, Nicola Zingarelli e altri dotti scrittori Del volume, ove sono raccolte pagine di molto interesse, e nella pubblicazione del quale si sono fatto onore l’editore Francesco Perrella e la Società Tipografica «Leonardo da Vinci» di Città di Castello, discorrercmo di proposito ed ampiamente in seguito. Oggi ci cowpiacciamo di poter offrire ai lettori un saggio degnissimo con questo articolo del D’Ancona, che ha una grande importanza per il Manzoni e per la storia del nostro Risorgimento:

Il documento che segue, e che è tratto dal copioso carteggio di G. B. Giorgini colla moglie Vittorina, figlia, com’è noto, di Alessandro Manzoni, conferma con nuovi particolari di fonte tanto autorevole, ciò che già sapevasi delle convinzioni e dell’atteggiamento del gran poeta e pensatore rispetto al dominio temporale della Chiesa. E invero quante pressioni si facessero al Manzoni perchè nel ’64 non si recasse al Senato a votarvi il trasferimento della capitale da Torino fu nuovamente e largamente esposto dal prof. Michele Scherillo in un articolo del Corriere della Sera del 4 aprile 1911: e codesto articolo ha ora efficace rincalzo dalla parola del Giorgini, della quale non vi ha bisogno dimostrare il valore.

[p. 252 modifica]Pel Manzoni si trattava infatti di concorrere a consacrare nella forma di legge, consentita e promulgata dai poteri dello Stato, con concetto vagheggiato fin dagli anni giovanili, e maturato di poi da diuturno speculazioni dell’intelletto; sicchè alle altrui sollecitazioni, ora veracemente affettuose, ora, sotto forma di premura per la salute, subdole ed insidiose, oppose egli la più ferma risoluzione della volontà. Per lui, come si scorge anche da ciò che dice il Giorgini, l’uscir della capitale da Torino per fermarsi intanto a Firenze, voleva dire avviarsi a Roma, ed egli non voleva esser assente in così solenne occasione. Badi, gli diceva taluno, badi don Alessandro: Ella è vecchio, ha ormai ottant’anni, la stagione è rigida. Ed egli si consulta col fido servo si assicura la desiderata compagnia del genero. Sarà sentito male, gli sussurrava l’altro genero, il D’Azeglio, che un lombardo s’interponga in una questione essenzialmente piemontese, e nella quale i senatori piemontesi vogliono dar prova di disinteresse, anzi di sagrificio alla madre patria. La legge si voterà lo stesso, anche se non andrete! Ma egli non pensava in questo momento al Piemonte, bensì all’Italia. I preparativi occulti della partenza, la partenza stessa di buon mattino, tutti i particolari del fatto, lo rendono somigliante alla fuga misteriosa di un collegiale, coll’aiuto di un domestico e di un complice. Si direbbe una congiura fra tre persone contro uno stuolo di vigili congiunti ed amici. Sapeva egli che avrebbe fatto dispiacere a taluno di quelli che lasciava in casa e degli altri che avrebbe trovato a Torino: ma era nell’indole sua di fare quello che gli dettava il dovere; e quando parlava la coscienza, egli era irremovibile.

Già da molti anni addietro, coll’occhio volto alle vicende del passato e insieme ai fasti dell’avvenire, egli aveva previsto qual sarebbe stata, nella pienezza dei tempi, la soluzione dell’antico complotto fra una Italia che diventasse unita e il papato temporale, e non senza forse un po’ di malizia, aveva posto il vaticinio sulle labbra del vecchio Re Lombardo. Un siffatto personaggio poteva sballarne delle grosse senza diretta responsabilità di chi gliela faceva dire. A Desiderio aveva pertanto fatto vaticinare, che....

quel di che indarno
I nostri padri sospiùr, serbato
È a noi: Roma fia nostra, e tardi accorto
Supplice invan, della terrena spada
Disarmato per sempre ai santi studi
Adrian tornerà: Re delle preci,
Signor del sacrificio, il soglio a noi
Sgombro darà.

Ma chi vorrà credere che in tal modo intendesse il poeta formulare il programma politico, a così dire, di quel re, ultimo della stirpe «cui fu prodezza il numero, cui fu ragion l’offesa, e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà?». Siffatti alti ideali non potevano ispirare quel re semi-barbaro, che all’acquisto di Roma non era mosso se non da cupidigia di maggiore e più stabile dominio. Chi così parla non è dunque Desiderio, che si richiamava al diritto ei conquista; è il Manzoni stesso che svela il suo pensiero costante e si conforta delle imprescrittibili ragioni del diritto nazionale: chi esprime quei concetti di pace e di giustizia non è uno straniero, e per giunta mezzo-ariano, ma un italiano fervente e insieme zelante cattolico.

Allorchè per uno svolgersi di casi, che potevano sembrare miracolosi, e che la longevità concesse al Manzoni di tutto vedere e su tutto portare il giudizio della sapienza e della esperienza, l’Italia si trovò in condizione di effettuare ciò che prima era un sogno, dovette egli esser ben lieto di poter col suo voto di senatore contribuire e fermare e consolidare l’unità d’Italia con Roma capitale. Negli anni suoi giovanili, quando Murat alzò il grido d’indipendenza egli aveva scritto quel verso

Liberi non saremo se non siamo uni,
che se non è brutto, com’egli stesso lo qualificò, bello non è, ma nessuno oserà dire che non sia profondamente vero nella espressione sua scultoria; e, assai più tardi, il 26 febbraio 1861, aveva con grande soddisfazione dell’animo concorso alla costituzione e promulgazione del nuovo Regno. Ad esso mancavan solo poche genti, come con felice citazione da Dante aveva affermato il suo Giorgini nella Relazione parlamentare che lo fondava, ma sopratutto mancava «il capo», che infallibilmente doveva ricongiungersi al corpo. Le parole che in bocca al re longobardo parevano folle presagio di un vinto, diventavano ora chiara visione di tutto un popolo risorto sulle condizioni essenziali della nuova sua vita.

La risoluzione del grave problema, com’era al Manzoni, non solo giusta e benefica, ma anche facile, e accettabile dalla Curia e dai seguaci e fautori di questa. Dopo un poco di resistenza, come aveva fatto vaticinare al re longobardo, il Pontefice si sarebbe accorto, anche se tardi, che l’ufficio di «Re delle preci» e di «Signore del Sagrificio», era quello che solo gli conveniva, secondo l’istituzione sua religiosa, e che meglio conferiva alla pace del mondo e al bene della fede. S’ingannava, come spesso s’ingannano coloro che sono dominati da una idea fissa. Ma se l’altra, anch’essa in lui dominante dalla gioventù, quella dell’Unità, si era ridotta in atto senza difficoltà soverchia, perchè altrettanto non sarebbe potuto avvenire dalla caduta del poter temporale? Scarsa fiducia aveva però nel Pontefice regnante, e forse ricordava come alle parole di Terenzio Mamiani, ministro costituzionale di Pio IX, non dissimili da quelle che egli aveva fatto pronunziare a Desiderio, e secondo le quali il Sovrano di Roma «vive nella serena pace dei dogmi, dispensa al mondo la preghiera di Dio, prega, benedice e perdona», il Papa stesso, rimbeccando, avesse risposto non soltanto questo essere il suo ufficio, e aver egli anche potestà di sciogliere e di legare in ciò che spettasse al reggimento politico. Prorogando ad altro tempo le sue speranze, dimenticava che il Sacro Collegio è piantonato d’alberi del medesimo legno. Così che, osserva argutamente il [p. 253 modifica]Giorgini, sarebbe bisognato ch’egli, il Manzoni, fosse Papa!

Ben diversa tempra d’uomo e di pensatore era il Giorgini: ma i dubbi che egli mette innanzi non potrebbero mai far credere che meno del suo gran suocero stimasse inevitabile e giusta la cessazione del dominio civile del Pontefice, e meno utile all’Italia e alla religione. Egli era da un pezzo convinto partecipe delle idee del Manzoni, in tal proposito, e più volte dovevano averle insieme ventilate e discusse. Altra volta (nel Corriere della Sera del 14 marzo 1911) ho pubblicate due lettere del Giorgini, tratte dallo stesso carteggio che la presente, una del 1848, l’altra del 1860, nelle quali si tratta di siffatto argomento. Nella prima, scritta dal Campo di Marcaria, poco dopo la fatale allocuzione di Pio IX, scriveva: «In ogni caso, se l’adempimento dei doveri che il Papa ha come Papa, non fosse compatibile cogli uffici di buon Principe italiano, l’unica conclusione che se ne potrebbe cavare è che il Papa non può esser Principe, deve per conseguenza lasciare il Potere temporale». Nell’altra, della quale giova riprodurre un più lungo brano, così riferisce la prima manifestazione, o come a dire il primo assaggio fatto dal Cavour sull’animo degli amici, nella villa di Santena, ai 18 giugno 1860, dell’opportunità di subito proclamare Roma capitale del nuovo Regno.

«La compagnia, oltre i due fratelli Cavour, si componeva di Minghetti, Massari, Pepoli, Gualterio e Galeotti. Dopo colazione ci siamo messi a passeggiare nei viali del Parco, e arrivati a un largo, dove, sotto dei grandissimi alberi, erano alcune poltrone rustiche, ci siamo fermati e seduti. Il Cavour era rimasto in piedi, e passeggiava su e giù con aria gaia e nervosa — poi si è fermato davanti a noi, e tenendo in tasca la mano sinistra, e facendo con una mazza, mossa dalla destra, dei geroglifici sulla ghiaia del viale, ha alzata ad un tratto rapidamente la testa e ci ha domandato a bruciapelo: «E che ne direste, se si stabilisse e si proclamasse fino ora che Roma deve essere la capitale d’Italia?». Abbiamo guardata la sua faccia bonaria, illuminata da due occhi maliziosi e penetranti che ci fissavano... Aveva parlato sul serio! nessuno seppe che cosa rispondere, lì per lì — poi ognuno disse la sua, meno il Cavour, che non parlò quasi più.

«Io stavo poco attento ai discorsi che si facevano intorno a tue, e seguivo il corso dei miei pensieri. Allora sì che avrei voluto avere pappà lì in mezzo a noi, che avrei voluto vedere che occhi avrebbe fatti, e che cosa avrebbe risposto lui, se si fosse sentito rivolgere quella straordinaria domanda!

«Ti ricordi, Vittoria, le mie profezie del ’48? Parevano l’eco di sogni vani, durante i lunghi anni del nostro dormire, ma adesso che ci siamo ridestati, riacquistano il valore di speranze, e prenderanno certo la forma di fatti. Sì, io credo fermamente che noi, usciti ora dalle rivoluzioni, e divisi fino a ieri da artificiali barriere, finiremo — prima o poi — col piantare le nostre tende nella grande Roma dei Cesari e dei Pontefici, sospinti dall’onda portentosa dei destini d’Italia. Roma dovrà esser riconosciuta volentieri per Capitale da tutte le altre grandi città d’Italia, nessuna delle quali potrebbe misurarsi con lei — tolte quindi le competizioni, le invidie, il regionalismo.... È questione di tempo, ma per me non ci può esser dubbio — l’Italia sarà una, tra i naturali confini delle sue Alpi e dei suoi mari — e tutti quelli che parlano la medesima lingua avranno come simbolo e segnacolo della loro Unità il niedesimo Re — e Cavour sarà il suo Profeta.

«So di dare nel genio a pappà scrivendogli queste cose».

Fra mezzo alle due date sta il ’59 quando il Giorgini pubblicava a Firenze coi tipi del Barbera le sue «Considerazioni sul dominio temporale dei Papi», breve ma sostanzioso opuscolo, nel quale asserendo prossima e certa la caduta di esso dominio, proponeva come spediente più adatto alla condizione dei tempi, il «neutralizzare» Roma. Quando però avveniva il memorando colloquio su riferito, quelle condizioni eransi grandemente modificate, e l’Italia rivendicava la sua naturale metropoli, che, proclamata tale dal Parlamento il 29 marzo 1861, doveva però attendere ancora quasi un decennio per diventar sede del Governo italiano.

Il Giorgini era, e lo confessa, di coloro, che «a forza di guardare e riguardare tutte le quistioni da ogni lato e spigolo, vivono con l’animo agitato dal dubbio»; ed in ciò era ben diverso dal Manzoni. Ma, titubante nei mezzi che meglio conducessero al fine, era quanto il suocero convinto, che il dominio temporale fosse giunto al dì estremo della sua secolare esistenza, e l’Italia dovesse durevolmente fermarsi in Roma.

Ed ecco ora la lettera, circa la quale è appena da avvertire che il Giorgini nominando il Manzoni scriva lombardamente «il pappà», serbando pel proprio padre, il senatore Gaetano, la designazione toscana di «babbo».

Torino, 5 dicembre 1864.

Cara Vittorina,

Siamo arrivati a Torino in questo momento (1.30) e ho accompagnato Pappà in casa Arconati. Mi trovo qui nel suo salottino, dove mi ha pregato di aspettarlo mentre è in camera a fare la sua toilette — nella previsione che la cosa andrà assai per le lunghe, mi metto a scriverti, e mi affretto a dirti che Pappà ha fatto ottimo viaggio ed è di ottimo umore.

Gli Arconati, come sai, lo avevano insistentemente invitato a scendere da loro qualora egli fosse venuto per davvero a Torino: benchè avessero sperato fino all’ultimo che questo caso non si sarebbe verificato, lo hanno accolto colla solita affettuosa premura — per parte mia ho avuta l’impressione che abbiano ricevuto me con una certa freddezza, come se fosse stato in mio potere, anche volendo, di dissuadere Pappà dal venir qui a dare il suo voto! Scesi ieri a Milano, carico di esortazioni e di raccomandazioni di Massimo, di Geppino, di Donna Costanza ecc. ecc. dirette ad impedire la sua venuta qui; arrivato a casa, trovai altre difficoltà fatte da Pietro, spalleggiato dal medico, che non trovavano prudente di lasciarlo viaggiare con questo freddo; mi provai dunque anch’io a farlo riflettere di nuovo prima di mettersi in treno; ma lui ngn ci sentiva da quell’orecchio, si ritirò più presto del solito, e quando mi fui ritirato anch’io. Clemente venne a dirmi che Pappà mi voleva parlare — andai in camera sua e lo trovai che non si era ancora coricato: mi disse che desiderava partire stamani di buon’ora, per tagliar corto a tanti discorsi che lo avevano già abbastanza seccato... prendemmo con Clemente, che ci ha seguiti, i concerti del caso, ed eccoci qui!

[p. 254 modifica]Se Geppino è stato un po’ freddo meco, mi aspetto addirittura una spostata da Massimo, e dei solenni musi da questi bravi torinesi — non mi sorprenderebbe neppure che dessero segno del loro malumore anche a Pappà stesso, eccezion fatta forse del solo marchese Alfieri, che considera il trasferimento della capitale come una necessità qual’è e lo accoglie con animo sereno. Ma figurati che Sclopis arrivò a dire l’altro giorno che: «se Manzoni commettesse la gravissima mancanza di venire a Torino, la responsabilità sarebbe di Giorgini». Si vede proprio che questi signori conoscono poco Pappà, che ne hanno un concetto molto inferiore a quello che merita, e che per conseguenza si esagera grandemente il potere della mia influenza su di lui. Dovrebbero sapere che egli è ben chiaro e ben fermo nelle sue idee e nei suoi propositi, e che poche idee ha più chiare e più ferme di quella di volere che si vada a Roma. Per lui è evidente che l’andare adesso a Firenze significa incamminarsi sulla via di Roma e non saremmo certo capaci nè io, nè Massimo, nè Donna Costanza nè altri, di fargli cambiar rotta: ha in testa più fitto che mai il chiodo di Roma, ed è sempre pieno di fiducia che a Roma ci potremo andare col pieno consenso della coscienza cattolica. Non spera nulla da Pio IX ma spera molto dal Papato, e sogna ancora, come lo sognava quando scrisse l’Adelehi, di poter vedere sulla Cattedra di S. Pietro un Papa «re delle preci». Attende dal Papato delle così grandi cose, che, secondo me, perché si potessero veder attuate dovrebbe esser Papa lui!

Per conto mio, nonostante il gran discorrere che ne abbiamo fatto con Pappà, ho perduta da un pezzo, come sai, ogni fiducia in un possibile accordo dello Stato colla Chiesa sulla quistione romana. Del resto, se non c’è buona fede al Vaticano, non potrei asserire che ci sia completa buona fede fra i nostri amici.... Comunque sia, l’intesa colla Chiesa su questo punto non riuscì al Conte di Cavour e non riuscirà a nessuno, almeno per molto tempo ancora.... e il seguitare a trastullarsi coll’idea della conciliazione è vana illusione quando non è passatempo accademico. Se per andare a Roma vorremo aspettare che il Papa ci dia lui il passaporto, non ci anderemo mai I Se noi vorremo andarci senza tener conto delle sue proteste, lo potremo forse fare, quando ce lo consente la Francia.... ma in tal caso porteremo nelle coscienze degli italiani cattolici e dei cattolici di tutto il mondo, un perturbamento tale di cui non è facile prevedere le conseguenze prossime e remote interne ed universali....

Vedi bene che io, come al solito, a forza di guardare e riguardare tutte le questioni da ogni loro lato e spigolo, vivo con l’animo agitato dal dubbio, che annienta qualunque energia. Felici i sicuri! essi vedono le cose dalla parte dove ci batte la luce, e non curano i lati ravvolti nelle tenebre — cosi, vedendoci chiaro, camminano diritti per la loro strada; se la strada vada poi a sboccare proprio dove vorrebbero, questo è un’altra quistione.... ma solo chi crede di andar bene, cammina spedito, e chi si arresta, come faccio io, ad interrogarsi e a scandagliare ogni voltata, s’indugia e non arriva in fondo.

Basta: torniamo a bomba! Per ora intanto verremo a Firenze, non credo che il Senato potrà votare prima di sabato: dopo il voto io riaccompagnerò Pappà a Milano, e so che anche il Babbo ha una mezza intenzione di unirsi a noi. Certo il Babbo non tornerà in Toscana che dopo il voto, e per conseguenza tu dovrai rimaner sola ancora per qualche giorno: io me ne cruccio, e non puoi credere come questo pensiero della tua solitudine mi si affacci spesso i.iportuno. Non incoraggerò dunque il Babbo a venire con noi a Milano, e te lo rimanderò al più presto possibile. In quanto a me non potrò venire purtroppo fino alte vacanze di Natale, perché sono parte principale di varie commissioni, che mi hanno eletto relatore, ed ho un daffare intenso e continuo.

Ma ecco Pappà che mi viene davanti tutto ripulito e rilisciato, e mi dice di mandarti un abbraccio anche da parte sua. Vado ora a cercare del Babbo, che gli Arconati vogliono a pranzo qui stasera — cercherò anche di Massimo lusingandomi che non mancherà di venir a trovare Pappà....

Addio, Vittorina mia, spero di trovar ora alla Camera una lettera tua che mi porti le tue relativamente buone nuove, e mi dia notizie ottime di Giorgino della nostra Matildina: abbracciali una volta di cuore come sempre. cara Vittorina mia.

il tuo Bista.

Resta che di questa pubblicazione ringraziamo, e con noi il lettore ringrazi la gentil signora Matilde Schiff, figlia al compianto amico e a colei cui la lettera è indirizzata, ed esprimiamo il desiderio, che poi da altri sarà partecipato, che presto si risolva a ordinare e dar ín luce tutto l’Epistolario di G. B. Giorgini alla confidente di ogni suo pensiero ed affetto, nell’avventuroso periodo del nazionale Risorgimento.

Echi del Congresso geologico

nel territorio lecchese e nella Valsassina

La Società geologica italiana che risiede in Roma ha raccolto in un volume gli atti dell’importante Congresso geologico nazionale tenutosi lo scorso settembre a Lecco ed a Milano per iniziativa della Società geologica stessa, presieduta dall’on. Mario Cermenati. Al Congresso parteciparono 120 geologi e mineralogisti di ogni parte d’Italia, oltre a numerose autorità ed invitati del luogo, fra cui i Prefetti di Como e di Milano.

Il volume si compone di due parti: l’una contiene tutti gli atti preparativi del Congresso, le guide che furono compilate per le varie escursioni, le relazioni particolareggiate di ciascuna di queste, ed i verbali delle varie adunanze del Congresso. Nella seconda sono raccolte le interessanti comunicazioni scientifiche, che vennero fatte durante le sedute.

Nella prima parte, corredata da fotoincisioni e da carte topografiche e geologiche, sono notevoli le guide ed i resoconti delle gite, nonchè i verbali delle adunanze redatti da vari congressisti, sotto la direzione del segretario generale del Congresso prof. De Alessandri. Si leggono con vivo interesse, le relazioni delle escursioni in Valsassina, in Valle d’Esina, sul Monte Berro, sul Lago di Como, in Val Brembana alla celebre fonte Bracca, ed a Cuasso al Monte, sul Lago di Lugano.

Sono poi notevoli nei verbali delle sedute il discorso inaugurale del Ministro di Agricoltura on. Nitti, che partecipò a due giornate del Congresso; i discorsi vari, su temi svariati, del Presidente del Congresso on. Cermenati; la storia dei lavori per la carta geologica d’Italia, rievocata dal sen. Capellini; la commemorazione di Antonio Stoppani tenuta dal prof. Taramelli; la conferenza sul terremoto di Messina, detta dall’ing. Sabatini; la storia dell’Osservatorio Vesuviano fatta dal professor Mercalli; il progetto di un Istituto vulcanologico internazionale a Napoli svolto dal prof. Friedlander, ecc.

Fra le memorie scientifiche della seconda parte, che raggiungono la quarantina, se ne trovano parecchie di [p. 255 modifica]grande importanza, corredate da tavole paleontologiche, carte geologiche, spaccati, tabelle, ecc. Sono specialmente da segnalare lo studio del prof. Sacco sulla Puglia; la relazione dell’ing. Novarese sui risultati geologici della spedizione del Duca degli Abruzzi nel Ka.rakorum; la memoria dele ing. Franchi sui graniti del Sempione, oggetto di una recente e non ancora risolta controversia doganale con la Svizzera; lo studio del prof. Stolla sulle formazioni che attraverserà il progettato traforo dello Spinga; le ricerche di geologia nei rapporti forestali del prof. De Angelis e quelle sull’elasticità delle roccie più dure del prof. Oddone; il riassunto del prof. Bucca sulle ultime proposte per studiare il Vulcanismo, ecc. ecc.

Il Congresso, infine, formulò ed approvò unanime alcuni voti diretti al Governo. Fra essi quello per la pubblicazione integrale dei manoscritti di Leonardo da Vinci, di suprema importanza anche per la Geologia; quello per una sistemazione, rispondente ai bisogni della scienza moderna, dell’Osservatorio Vesuviano di Napoli; quello per la conservazione, in forza di legge, dei massi erratici e di altri fenomeni geologici del suolo italiano, classici per bellezze o valore scientifico; quello per la legislazione sulle acque pubbliche, da uniformare ai risultati di rigorose indagini scientifiche; quello per la costruzione delle carte agregeologiche a cura dello Stato; quello invitante a consultare il geologo prima di provvedere ai danni arrecati in Lombardia dalle alluvioni delle scorse estate, ecc.

Il volume attesta la grande importanza assunta dal Congresso di Lecco, dimostra come la Geologia venga in Italia seriamente e largamente studiata e colloca la nostra trentenne Società geologica italiana, fondata da Qu’ntino Sella, alla pari colle più antiche, le più prospere e le più attive associazioni congeneri del mondo civile.