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IL BUON CUORE 253


Giorgini, sarebbe bisognato ch’egli, il Manzoni, fosse Papa!

Ben diversa tempra d’uomo e di pensatore era il Giorgini: ma i dubbi che egli mette innanzi non potrebbero mai far credere che meno del suo gran suocero stimasse inevitabile e giusta la cessazione del dominio civile del Pontefice, e meno utile all’Italia e alla religione. Egli era da un pezzo convinto partecipe delle idee del Manzoni, in tal proposito, e più volte dovevano averle insieme ventilate e discusse. Altra volta (nel Corriere della Sera del 14 marzo 1911) ho pubblicate due lettere del Giorgini, tratte dallo stesso carteggio che la presente, una del 1848, l’altra del 1860, nelle quali si tratta di siffatto argomento. Nella prima, scritta dal Campo di Marcaria, poco dopo la fatale allocuzione di Pio IX, scriveva: «In ogni caso, se l’adempimento dei doveri che il Papa ha come Papa, non fosse compatibile cogli uffici di buon Principe italiano, l’unica conclusione che se ne potrebbe cavare è che il Papa non può esser Principe, deve per conseguenza lasciare il Potere temporale». Nell’altra, della quale giova riprodurre un più lungo brano, così riferisce la prima manifestazione, o come a dire il primo assaggio fatto dal Cavour sull’animo degli amici, nella villa di Santena, ai 18 giugno 1860, dell’opportunità di subito proclamare Roma capitale del nuovo Regno.

«La compagnia, oltre i due fratelli Cavour, si componeva di Minghetti, Massari, Pepoli, Gualterio e Galeotti. Dopo colazione ci siamo messi a passeggiare nei viali del Parco, e arrivati a un largo, dove, sotto dei grandissimi alberi, erano alcune poltrone rustiche, ci siamo fermati e seduti. Il Cavour era rimasto in piedi, e passeggiava su e giù con aria gaia e nervosa — poi si è fermato davanti a noi, e tenendo in tasca la mano sinistra, e facendo con una mazza, mossa dalla destra, dei geroglifici sulla ghiaia del viale, ha alzata ad un tratto rapidamente la testa e ci ha domandato a bruciapelo: «E che ne direste, se si stabilisse e si proclamasse fino ora che Roma deve essere la capitale d’Italia?». Abbiamo guardata la sua faccia bonaria, illuminata da due occhi maliziosi e penetranti che ci fissavano... Aveva parlato sul serio! nessuno seppe che cosa rispondere, lì per lì — poi ognuno disse la sua, meno il Cavour, che non parlò quasi più.

«Io stavo poco attento ai discorsi che si facevano intorno a tue, e seguivo il corso dei miei pensieri. Allora sì che avrei voluto avere pappà lì in mezzo a noi, che avrei voluto vedere che occhi avrebbe fatti, e che cosa avrebbe risposto lui, se si fosse sentito rivolgere quella straordinaria domanda!

«Ti ricordi, Vittoria, le mie profezie del ’48? Parevano l’eco di sogni vani, durante i lunghi anni del nostro dormire, ma adesso che ci siamo ridestati, riacquistano il valore di speranze, e prenderanno certo la forma di fatti. Sì, io credo fermamente che noi, usciti ora dalle rivoluzioni, e divisi fino a ieri da artificiali barriere, finiremo — prima o poi — col piantare le nostre tende nella grande Roma dei Cesari e dei Pontefici, sospinti dall’onda portentosa dei destini d’Italia. Roma dovrà esser riconosciuta volentieri per Capitale
da tutte le altre grandi città d’Italia, nessuna delle quali potrebbe misurarsi con lei — tolte quindi le competizioni, le invidie, il regionalismo.... È questione di tempo, ma per me non ci può esser dubbio — l’Italia sarà una, tra i naturali confini delle sue Alpi e dei suoi mari — e tutti quelli che parlano la medesima lingua avranno come simbolo e segnacolo della loro Unità il niedesimo Re — e Cavour sarà il suo Profeta.

«So di dare nel genio a pappà scrivendogli queste cose».

Fra mezzo alle due date sta il ’59 quando il Giorgini pubblicava a Firenze coi tipi del Barbera le sue «Considerazioni sul dominio temporale dei Papi», breve ma sostanzioso opuscolo, nel quale asserendo prossima e certa la caduta di esso dominio, proponeva come spediente più adatto alla condizione dei tempi, il «neutralizzare» Roma. Quando però avveniva il memorando colloquio su riferito, quelle condizioni eransi grandemente modificate, e l’Italia rivendicava la sua naturale metropoli, che, proclamata tale dal Parlamento il 29 marzo 1861, doveva però attendere ancora quasi un decennio per diventar sede del Governo italiano.

Il Giorgini era, e lo confessa, di coloro, che «a forza di guardare e riguardare tutte le quistioni da ogni lato e spigolo, vivono con l’animo agitato dal dubbio»; ed in ciò era ben diverso dal Manzoni. Ma, titubante nei mezzi che meglio conducessero al fine, era quanto il suocero convinto, che il dominio temporale fosse giunto al dì estremo della sua secolare esistenza, e l’Italia dovesse durevolmente fermarsi in Roma.

Ed ecco ora la lettera, circa la quale è appena da avvertire che il Giorgini nominando il Manzoni scriva lombardameute «il pappà», serbando pel proprio padre, il senatore Gaetano, la designazione toscana di «babbo».

Torino, 5 dicembre 1864.

Cara Vittorina,

Siamo arrivati a Torino in questo momento (1.30) e ho accompagnato Pappà in casa Arconati. Mi trovo qui nel suo salottino, dove mi ha pregato di aspettarlo mentre è in camera a fare la sua toilette — nella previsione che la cosa andrà assai per le lunghe, mi metto a scriverti, e mi affretto a dirti che Pappà ha fatto ottimo viaggio ed è di ottimo umore.

Gli Arconati, come sai, lo avevano insistentemente invitato a scendere da loro qualora egli fosse venuto per davvero a Torino: benchè avessero sperato fino all’ultimo che questo caso non si sarebbe verificato, lo hanno accolto colla solita affettuosa premura — per parte mia ho avuta l’impressione che abbiano ricevuto me con una certa freddezza, come se fosse stato in mio potere, anche volendo, di dissuadere Pappà dal venir qui a dare il suo voto! Scesi ieri a Milano, carico di esortazioni e di raccomandazioni di Massimo, di Geppino, di Donna Costanza ecc. ecc. dirette ad impedire la sua venuta qui; arrivato a casa, trovai altre difficoltà fatte da Pietro, spalleggiato dal medico, che non trovavano prudente di lasciarlo viaggiare con questo freddo; mi provai dunque anch’io a farlo riflettere di nuovo prima di mettersi in treno; ma lui ngn ci sentiva da quell’orecchio, si ritirò più presto del solito, e quando mi fui ritirato anch’io. Clemente venne a dirmi che Pappà mi voleva parlare — andai in camera sua e lo trovai che non si era ancora coricato: mi disse che desiderava partire stamani di buon’ora, per tagliar corto a tanti discorsi che lo avevano già abbastanza seccato... prendemmo con Clemente, che ci ha seguiti, i concerti del caso, ed eccoci qui!