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250 IL BUON CUORE


Petrarca: per Michelangelo i simboli del ghiaccio e del fuoco avevano un valore immanente nella vita del suo spirito e a meraviglia esprimevano il contrasto tra lui, uomo d’amore, amante dell’amore, incline ad abolire tutto il reale nell’ideale e il mondo freddo, indifferente, troppo al di sotto di lui, in questo riscontriamo pure il contrasto fra Dio e gli uomini.

Egli stesso così si confessa: Sappiate che io sono il più inclinato uomo ad amar le persone, che mai in alcun tempo nascesse. Qualunque volta io veggo alcuno che abbia qualche virtù, che mostri qualche destrezza d’ingegno, che sappia fare o dire qualche cosa più acconciamente che gli altri, io sono costretto a darmi a lui in maniera di preda, ch’io non sono più mio, ma tutto suo.

Come resterò in vita?
Anzi mi dice per più doglia darmi
che sè stessa non ama, e vero parmi.
Come posso sperar di me le dolga
se sè stessa non ama?

Pare un motivo di raffinata psicologia moderna.


Nella donna sublima la virtù e la bellezza eterna, torturandosi nella impossibilità assoluta di un intero dominio su di lei. Coi sensi non si può salire tanto da comprendere la vera bellezza nella quale brilla la pietà nella somma di tutti gli altri pregi.

Come non puoi non esser cosa bella,
esser non puoi che pietosa non sia.

Prima di lui quanti versi per definire l’amore, e quante imagini di maniere che via via raffreddarono la stessa domanda che partiva dal cuore! Michelangelo si toglie d’impaccio con disinvoltura:

Amore è un concetto di bellezza
immaginata o vista dentro il cuore,
amica di virtute e gentilezza.

E fra le donne non crede possibile l’esistenza di colei che incarni perfettamente il sogno.

Nessun volto è fra noi che pareggi
l’imagine del cor.

E altrove:

Dimmi di grazia, Amor, se gli occhi miei
veggono il ver della beltà che aspiro,
o se io l’ho dentro, allor che, dov’io miro,
veggio scolpito il viso di colei.

Le citazioni potrebbero continuare, tutte scultorie, precise, a traverso le quali l’anima vera del Buonarroti si presenta, si delinea, si confessa offrendoci il magnifico dono di conoscerlo più come uomo che come artista. Nello scultore sovrabbonda il genio che è già per se stesso qualcosa di troppo superiore all’uomo; invece nella parola, che è comune a tutti, egli si avvicina a noi quasi direi con ingenua umiltà fra singulti e pianti e gridi che ora lo pareggiano a qualunque fratello in dolore ed ora lo innalzano gigantesco al di là della vita.

Poichè la sua costante aspirazione è appunto l’assorbimento in Dio, termine fisso a ogni sogno di bellezza. La notte che segue al giorno, che dà riposo e agio di contemplazione non è notte per lui, come la morte non è morte, ma integrazione col primo amore.

Perché Febo non torce e non distende
intorno a questo globo freddo e molle
le braccia sue lucenti, il volgo volle
notte chiamar quel sol che non comprende.

Un sonetto è interamente dedicato alla notte e giova riportarlo affinchè almeno questa poesia, piena di fascino elegiaco, dove palpita un alto respiro di vita vissuta, resti a qualche lettore meno distratto come un saggio da amare e conservare. Ogni verso vuole meditazione.

O notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn’opra sempre alfin assalta.
Ben vede e ben intende chi l’esalta,
chi t’onora ha l’intelletto sano.
Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero,
che l’umid’ombra e ogni quiete appalta,
dall’infima parte alla più alta
in segno spesso porti, ov’ire spero.
O ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria all’alma, al cor nemica,
ultimo degli afflitti e buon rimedio.
Tu rendi sana nostra parte inferma,
rasciughi i pianti e posi ogni fatica
furi a chi ben vive ogn’ira e tedio.

Una ispirazione lirica di questo genere nella prima metà del secolo decimosesto non è un colpo d’ala degno soltanto dell’aquila? Più tardi nella poesia si seguirono accenti sinceri ispirati dalla notte, ma dopo alcuni secoli, quando l’anima evoluta e liberata per forza intrinseca dalle pastoie tradizionali seppe scavar nel proprio dolore e cantare nuda di fronte alla natura. Michelangelo parlò con la notte, l’amò; e certo fu per lui passione non fugace ma di tutta la vita; non so immaginare interrotto mai l’idillio tra lui e il silenzio, ora, che leggendo i suoi versi sento il suo spirito vibrare nei secoli. Amò la notte e le diede vita nell’arte con tutti i mezzi.

Regni il suo nome nella gloria, ma l’anima sua io la credo, a braccia tese, implorante e agonizzante, come nella «Pietà» di Palestrina.

Il rifugio di lbsen ad Amalfi

(Continuazione e fine, vedi n. 31).

Raffaele Barbaro, il cameriere di Ibsen — che seppe solo assai tardi di essere stato a contatto con un grande uomo — vi dirà che il suo ospite di tre mesi dormiva in quel lettuccio sprofondato nella penombra dell’alcova a pochi passi dal lettuccio della signora; che Segurd dormiva nella cameretta vicina; che tutti e tre erano in piedi la mattina alle 7, che Ibsen lavorava dalle 10 alle 12 e mezza e dalle 14 alle 17, ora in cui usciva a passeggio per rientrare alle 18 e mezza. Alle 19 la famiglia pranzava e poi sino alle 10 e mezza rimaneva a godersi il fresco e la solitudine in faccia al mare sulla terrazzina che domina Amalfi, incontro al convento dei Cappuccini.

— L’ho trovato sempre gentilissimo, di poche pa-