Il buon cuore - Anno XI, n. 24 - 15 giugno 1912/Educazione ed Istruzione

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NELL’ANNIVERSARIO DI UN GRANDE


NICCOLÒ PAGANINI

(Dal Corriere d’Italia).

(Continuazione e fine, vedi n. 22).

Egli aveva allora quarantasette anni, ma ne dimostrava assai di più. Altissimo, magro, d’un pallore cadaverico, aveva lunghi capelli neri spioventi sul colletto dell’abito, un gran naso aquilino, occhi vivi, penetranti; bocca rientrante e sarcastica, gote cave, su cui venivano a disegnarsi due grandi rughe, profonde come solchi, che ricordavano gli f del suo violino.

Aveva un’andatura dinoccolata, e il fianco sinistro più sporgente; e questo spostamento dell’anca — che ci viene tramandato anche nelle caricature del Mantoux e del Dantan — appariva evidentissimo quando egli prendeva la posizione per suonare.

L’esito del concerto sorpassò ogni più lieta previsione: il pubblico sembrò in preda ad entusiasmo delirante, a una vera follia di esaltazione, che si tradusse in grida, in applausi interminabili, in pioggia di fiori. Nessun artista fu mai oggetto di tanta ammirazione.

Si dice che all’uscire da questo primo concerto, la Malibran parlando con un amico di Paganini della preghiera del Mosè, ch’egli aveva eseguita, lamentasse che il grande violinista, meraviglioso di abilità, non sapesse «cantare».

Paganini riseppe il giudizio, piuttosto avventato, della cantatrice e nel secondo concerto improvvisò una variazione sulla quarta corda così calda di sentimento e vibrante di commozione, che gli ascoltatori ne furono scossi fino alle lacrime. Si vuole anche che proponesse alla Malibran di eseguire lo stesso pezzo egli sul violino, ella con la sua dolcissima voce; ma la celebre cantante si dichiarò vinta, e l’originale sfida non ebbe seguito.

Esattissimo nell’intonazione, prodigioso nel meccanismo, Paganini sapeva trarre dal suo strumento una ricchezza incomparabile di timbri, così da rendere la sua esecuzione straordinariamente varia e ricca.

Un giorno Paër — di cui Paganini si diceva «obbligatissimo allievo» — aveva eseguito un duo col sommo violinista. Alla fine Paër, entusiasmato domandò a Paganini il favore di rieseguire il pezzo, ma trasportandolo sulla quarta corda. E l’altro, sorridendo: «Caro maestro — rispose — è solamente sulla quarta corda che ho eseguito tutto il brano!».

Paër, che non era certo il primo venuto, non se ne era accorto!

Dai suoi giri artistici a traverso l’Europa, e specialmente dai suoi concerti in Francia e in Inghilterra, Paganini raccolse una fortuna enorme: e alla sua morte, avvenuta a Nizza il 27 maggio 1840, suo figlio ereditava oltre diverse possessioni, tra cui notevole la villa Gaiona vicino a Parma, un patrimonio valutato oltre un milione e mezzo.

Ma la storia di Paganini non s’arresta con la sua morte; e come se il destino avesse voluto che ogni cosa riguardante quest’uomo di genio fosse straordinaria e desse adito alla leggenda, la sua spoglia mortale dovè passare per molteplici peripezie prima di essere definitivamente composta nella pace del sepolcro.

Subito dopo la sua morte l’arcivescovo di Nizza, forse tratto in errore da tutto ciò che sul conto del celebre artista si era andato inventando da oltre un trentennio, credette opportuno negargli la sepoltura ecclesiastica. Il corpo del Paganini fu allora imbalsamato ed esposto per parecchi giorni nei suoi appartamenti, su una specie di predella, dinanzi alla quale sfilarono ininterrottamente i visitatori.

Dopo qualche giorno il cadavere fu deposto in una cassa; ma era tale il numero degli ammiratori accorsi da ogni parte del mondo a Nizza per rivedere ancora una volta il grande scomparso, che fu dovuto applicare alla cassa un coperchio di cristallo.

Ci fu perfino un affarista che offrì 30.000 lire per trafugare il cadavere allo scopo di andarlo ad esporre in Inghilterra!

Intanto l’autorità, per tagliar corto, fece prendere il cadavere, e sotto scorta armata lo fece trasportare al lazzaretto di Villafranca alla punta di Saint-Hospice.

Un’altra versione afferma che il corpo di Paganini fu trasportato per mare a Genova, dove però, causa il colera chè infieriva a Marsiglia, la piccola nave non fu ammessa a libera pratica; nè mancarono altre leggende.

Finalmente, sollecitata l’autorità del Papa, la salma di Paganini potè essere sepolta cristianamente nella villa Polevra presso Genova, dove il Pontefice autorizzò una sepoltura provvisoria.

Il cadavere fu esumato nel 1853, e i resti mortali di Niccolò Paganini furono trasportati nel ducato di Parma e sepolti nella villa Gaiona, dove rimasero fino al 1876, anno in cui vennero trasferiti al cimitero di Parma.

Ma sembra che la pace sia negata alla salma, e nel 1893 la tomba fu ancora aperta alla presenza del figlio [p. 191 modifica]di Paganini e del violinista ungherese Ondriczek: e tre anni più tardi il cadavere fu rimosso un’altra volta per la costruzione del nuovo cimitero di Parma!

Potrà finalmente la spoglia di quest’uomo prodigioso trovare quel riposo postumo che le spetta? Speriamolo.

I biografi di Paganini furono molto numerosi e tutti si indugiarono a rilevare la stranezza della sua vita e del suo temperamento. Era di una sensibilità estrema, e non poteva toccare il violino senza sentirne come una sofferenza. Non suonava mai fuori dei concerti, e anche durante le prove generali si accontentava quasi sempre di far scorrere le dita sulla tastiera del violino per fissare le posizioni o richiamare alla memoria qualche passaggio importante senza usare mai l’arco.

Benchè celebre temeva sempre il pubblico: e quando alla sera doveva suonare, passava gran parte della giornata agitato, disteso su una poltrona, senza muoversi.

Ma l’anitra di Paganini non era davvero chiusa agli affetti. Basterà ricordare l’idolatria che egli ebbe per suo figlio Achillino. A sette anni il bimbo, che non si separava mai da suo padre, parlava correntemente l’italiano, il francese e il tedesco, e gli serviva efficacemente d’interprete, ufficio che s’impose poi quando, per il sopraggiungere della tubercolosi laringea, Paganini perdette quasi completamente la voce, ed era costretto a parlare all’orecchio di suo figlio, che solo riusciva a capirlo.

«Notte e giorno — soleva dire Paganini — questo bambino è il mio unico pensiero. Se lo perdessi, morirei anch’io, poichè mi sarebbe impossibile vivere senza lui».

Alcuni biografi narrano che gli appartamenti del violinista erano sempre pieni di giocattoli, che egli regalava continuamente ad Achillino. Non voleva che nessuno aiutasse il bimbo a vestirsi, compito che riserbava a sè, e che eseguiva con una cura più che materna.

E spesso, nei momenti di buon umore, il grande artista tornava bambino per compiacere il figliuolo, e si rassegnava a giocare con lui.

Spesso Achillino con una grande sciabola di legno minacciava scherzosamente il padre sfidandolo a battaglia. «Angelo mio — gridava Paganini indietreggiando — mi arrendo, sono già ferito!» Ma il piccolo tiranno non si teneva pago fino a che il padre non si lasciava cadere a terra, affatto vinto dalla spada minacciosa del minuscolo combattente....

Molto si è discusso anche sulla pretesa avarizia di Paganini; ed anche in questo si è enormemente esagerato. Egli aveva fama di ricchezza, e le richieste di denaro, gli inviti per concerti di beneficenza dovevano certo giungergli quotidianamente: è logico che non potendo soddisfare tutti lasciasse qua e là dei malcontenti. È una cosa questa che si verifica tutti i giorni.

Ma quando potè, Paganini non si rifiutò mai di dare il contributo del suo genio e del suo denaro a soccorso delle miserie altrui.

Tutti ricordano ciò ch’egli fece per Berlioz, quando il grande musicista francese, fatto segno agli attacchi del pubblico e della critica, versava nelle più tristi condizioni finanziarie.

Dopo un concerto dato da Berlioz, Paganini, che del genio di lui era ammiratore entusiasta, gli inviò suo figlio con la seguente lettera: «Mio caro amico — Beethoven spento, non c’era che Berlioz che potesse farlo rivivere; ed io che ho gustato le vostre divine composizioni degne di un genio qual siete, credo mio dovere di pregarvi a voler accettare in segno del mio omaggio ventimila franchi i quali vi saranno rimessi dal sig. Baron de Rotschild dopo che gli avrete presentato l’acclusa. Credetemi sempre il vostro affezionatissimo amico Nicolò Paganini».

E dopo questo gesto regale, ci fu ancora chi continuò ad accusare Paganini di spilorceria! Ma, così è; quando una riputazione — a ragione o a torto — si è formata, è vano lottare contro di essa.

Nicolò Paganini si compiacque di prendersi giuoco dei curiosi e degli importuni, che non dovevano certo mancargli.

Quando gli si chiedeva con quali metodi era pervenuto a raggiungere una tale perfezione, egli rispondeva sorridendo: «È un mio segreto; lo pubblicherò un giorno!».

Di questo «segreto» si preoccuparono anche eminenti musicisti. Il Fétis analizzò minutamente l’arte del Paganini, e Carlo Guhr, kappeltmeister e direttore del teatro di Francoforte, pubblicò un volume sull’Arte di suonare il violino, di Paganini, nel quale, dopo osservazioni minuziosissime, credette di aver potuto strappare il segreto del violinista italiano.

Ma il suo segreto non era che il suo genio; ed egli l’ha portato con sè nella tomba.

Oggi, però, a tanti anni di distanza dalla morte di Paganini, possiamo ripetere la frase che fu incisa nella medaglia offertagli dalla città di Vienna: Perituris sonis non peritura gloria!

Enrico Boni.

A CHIESA

(in Valmalenco)


Distesa come in talamo in un prato

dentro la conca de’ tuoi alti monti
col crine alle pinete imbalsamato
tu dormi, o Chiesa, al susurrar dei fonti


che pare la leggenda del passato,

con un lamento, al pellegrin racconti,
oppur lo culli, quando trasognato
contempla la vision de’ tuoi tramonti.


Sulle tue vette, avvolte in bianco velo

come angeli celesti, ardito anch’io
dispiego il volo, e all’infinito anelo.


E quasi fossi più vicino a Dio,

in una santa nostalgia di cielo
ritorno a te, sull’ali del desìo.

P. Federico Ghisolfi.