Il buon cuore - Anno XI, n. 04 - 27 gennaio 1912/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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Asilo Infantile UBOLDI a Paderno Dugnano

Il Rev.mo Monsignor G. Polvara ci ha gentilmente comunicato lo splendido discorso che l’ill.mo signor cav. Ferdinando Uboldi ha letto nella solenne ed indimenticabile inaugurazione del suo Asilo a Paderno Dugnano.

Il discorso, che ha riscosso per la nobiltà di sentimenti il plauso di tante e rispettabili persone convenute all’inaugurazione di sì benefica istituzione, riuscirà pe’ nostri egregi lettori uno studio interessante; siamo grati all’ill.mo signor cav. Ferdinando Uboldi.

Eccellenza, Monsignore, Signore, Signori!

Si è coi sensi della gratitudine più profonda e più cordiale che a nome anche di mia Madre io a Voi mi rivolgo.

Vada anzitutto un caldo ed ossequioso ringraziamento all’Illustre signor Prefetto, che, sempre vigile a seguire tutte le iniziative che si svolgono nella nostra Provincia, volle onorare del suo alto intervento questa intima festa; e vada un omaggio reverente di riconoscenza a Sua Eminenza il Cardinale Arcivescovo, che si degnò rendere più solenne questo convegno, delegando a rappresentarlo Monsignor Polvara.

Grazie sentite all’onorevole rappresentante in Parlamento di questo Collegio, al benemerito nostro rappresentante nel Consiglio Provinciale, all’amato nostro Sindaco, al Regio Ispettore scolastico in rappresentanza dell’Illustrissimo Provveditore agli studi, al Molto Reverendo Parroco locale, alle Autorità tutte del Comune; grazie vivissime a tutti Voi, gentili Signore ed egregi Signori, che, intervenendo oggi qui, mostrate di approvare l’istituzione alla quale mia Madre ed io abbiamo voluto dar vita.

Ed ora, assolto questo debito di gratitudine, io avrei veramente finito; mi siccome vuole l’uso che in simili circostanze s’abbia a dir qualche cosa, è poiché non è certo mia intenzione dimostrarvi l’utilità degli asili d’infanzia, permettete che m’indugi alquanto a dirvi per quali ragioni e con quali criteri abbiamo creduto di aprirne uno.

Già da tempo ci attrasse l’idea dì fondare un Asilo pei figliuoli dei nostri contadini; d’altra parte difficoltà d’indole pratica si opponevano all’istituzione d’un Asilo infantile, che servisse per tutta la borgata; se non che nel frattempo, essendosi nella vicina Parrocchia di Santa Maria Nascente formato presso quell’Oratorio un ricovero per bambini, ci parve tempo che pure questa nostra Parrocchia non ne fosse priva, e perciò abbiamo pensato a questo Asilo, ch’è destinato ad accogliere i bambini poveri della Parrocchia di S.S. Nazaro e Celso, eccezione fatta per quelli appartenenti alla frazione di Incirano, ai quali già largamente provvede un egregio benefattore, e con preferenza quelli dei nostri coloni.

Fra le conseguenze dannose che il moderno fenomeno dell’urbanesimo produce, non ultima è il soverchio accentrarsi della beneficenza nelle grandi città, del quale fenomeno ci fornì recentemente un preclaro esempio la grande lotta sostenuta dal Comune di Milano contro i comuni foresi pel godimento dell’assistenza ospitaliera; ora io ritengo che a’ nostri giorni l’azione della beneficenza dovrebbe volgersi di preferenza alle campagne, perocchè la città, vuoi per la sua forza prepotente d’attrazione, vuoi per le molteplici risorse di cui essa dispone, troverà sempre sufficiente alimento alle proprie istituzioni caritative.

Ma un’altra caratteristica della moderna beneficenza, alla quale pure occorrerebbe far argine, si è la sua tendenza alla [p. 27 modifica] specializzazione, tendenza questa favorita dalla febbrile attività moderna e dall’inquieta indagine scientifica, per cui nuovi mezzi si vanno senza posa apprestando, onde venire in aiuto alla multiforme miseria umana. Se ciò può esser bello da un punto di vista teorico e dove vi sia dovizia di forze, temo che in pratica questo eccessivo frazionamento, per cui il gran fiume della beneficenza si suddivide in troppo numerosi rigagnoli, abbia ad inaridire le fonti cui attingono quelle antiche e più semplici forme di beneficenza, alle quali hanno sempre provveduto e sempre dovranno provvedere la società e la carità privata. Il fanciullo, il malato ed il vecchio, queste le tre grandi debolezze dell’umanità, alle quali corrispondono e perennemente corrisponderanno le ferme primordiali dell’assistenza umana, forme queste necessarie alle quali si dovrebbe aver sempre pensato prima di escogitare nuovi provvedimenti più raffinati per soccorrere a bisogni meno impellenti e fors’anche troppo sottilmente cercati.

Fra esse l’assistenza al fanciullo è la più facile e la più accessibile al privato, ed io l’ho prescelta anche per un’intima simpatia ch’io nutro pel fanciullo. Non ho la fortuna di avere bambini miei; forse per questo amo quelli degli altri. E chi del resto non amerebbe i bambini? Potrà Mefistofele aver ribrezzo dello «sciame leggier degli angioletti», ma tutte le anime buone saranno sempre attratte da queste creature d’innocenza, di vivacità, di schiettezza e di grazia, da queste testoline bionde, che hanno sui capelli un riflesso del sole e negli aperti occhi azzurri la serenità del cielo.

E i bambini furono prediletti dal Divino Maestro. Ricordate Voi la commovente scena descritta nel Vangelo con tanta semplicità? «Furono presentati a Gesù de’ bambini» narra l’Evangelista San Marco «perché imponesse loro le mani e li toccasse e li benedicesse. Il che vedendo i discepoli, sgridavano quelli che li presentavano. Ma Gesù si sdegnò di quegli aspri rimproveri e chiamati a sè i bambini, disse ai discepoli: — lasciate che vengano a me i pargoli e non lo vietate loro; chè di questi è il regno di Dio. In verità vi dico, chiunque non riceverà il regno di Dio come bambino, non entrerà in esso. — Detto ciò abbracciò i bambini a lui presentati, e imposte loro le mani, li benedisse e passò di quivi. «Sinite parvulos venire ad me»; divine e dolcissime parole, nelle quali potremmo ravvisare l’istituzione cristiana degli asili d’infanzia.

Dal fanciullo trasse l’arte in ogni tempo le più squisite ispirazioni; nell’arte pagana era un fanciullo il faretrato Cupido, eran fanciulli gli amorini svolazzanti intorno al carro di Ciprigna; ma l’arte cristiana redense il fanciullo colla rappresentazione del Divino Infante, e per popolare i cieli tolse ai fanciulli le sembianze dei cherubini. E son bambini che occhieggiano dalla gloria luminosa di angeli frescata dal Correggio sulla cupola di Parma; sempre bambini i putti osannanti che il Della Robbia e il Donatello scolpirono per le magnifiche cantorie di Santa Maria del Fiore; incantevoli bambini il piccolo Gesù ed il S. Giovannino, che ingenuamente ci sorridono dalle tavole del nostro lombardo Luini; e per non dir che dei sommi, son pur fanciulli gli angeli meravigliosi che sollevano ai fulgori del paradiso l’Assunta di Tiziano; è Cristo bambino che in atteggiamenti sublimi ci commuove sulle braccia delle Madonne, che immortalarono il divino Raffaello; tutte un inno alla fanciullezza nella sua espressione più dolce sono le mirabili tele del soavissimo Murillo; lo stesso genio smisurato di Michelangelo, che sulle pareti della Sistina tracciava col Giudizio finale una delle più terribili visioni, che mente d’artista abbia mai concepito, senti tutto il fascino dell’infanzia e ne trasfuse le grazie nelle sue Sacre famiglie. Ancora a’ di nostri, coll’arte che scendendo dal soprannaturale s’è fatta più umana, quante volte non ci commossero in opere di pittura o di scultura scene di bambini ora dolorose, ora liete.

Da che dunque proviene tanto fascino? Forse che puramente estetico ne è il motivo, o non v’ha in esso un’alto elemento morale? Si è che dietro al fanciullo noi intravediamo già l’adulto; si è che nelle ingenue carezze, nelle adorabili moine dei bimbi, come nelle loro bizze, nei loro scatti, nella loro piccole ribellioni noi presentiamo l’uomo e la donna futuri. Ed ecco dove l’assistenza al bambino assorge ad importanza di provvedimento sociale; perocchè nel bambino si trovano latenti tutte le energie che formeranno i futuri caratteri, energie del bene che assecondate e fecondate faranno l’uomo onesto, energie del male che non distrutte o mal compresse potranno fare l’uomo delinquente.

Perciò, in attesa che la scuola possa esercitare la sua efficacia volgendosi all’intelligenza, è d’uopo che fin dai primi anni queste tenere creature siano sorrette da un’educazione, che sviluppandone le forze fisiche, diriga al bene le forze morali. Questa educazione spetta alla madre per naturale istinto e per impulso d’amore, ma quando le speciali condizioni sociali o le necessità del lavoro non le permettano di dedicare ai figliuoli tutte le vigili cure, che questi continuamente richiedono, viene in aiuto l’Asilo, che ricoverando il bambino e allontanandolo dai pericoli della strada, lo dirozza, lo ingentilisce, ne coltiva le buone tendenze, ne acuisce le facoltà d’osservazione, aprendone il cuore e la mente alla vita, che appena comincia ad affacciarglisi nella sua complessa attività.

Questo compito veramente materno, nobile e delicatissimo noi abbiamo voluto affidare alle Suore di carità, convinti che per la stessa loro vocazione, per l’altissimo sentimento del dovere e l’elevato spirito di sacrificio che le muove, e che solo dalla religione procede, esse siano particolarmente chiamate ad una missione, ch’è tutta di pazienza e d’amore. Animate da tanto fervore esse educheranno gli animi infantili a quella disciplina della volontà, a quel rispetto per tutto ciò che è santo e giusto, che soli potranno formare cristiani timorati di Dio e cittadini utili alla patria.

E se, come spero, verrà giorno che questo Asilo possa aver vita autonoma, sarà mia principale cura disporre come condizione essenziale ed imprescindibile della sua costituzione, che sempre la direzione ne abbia ad essere affidata alle Suore. Né mi trattengono gli scrupoli d’un esagerato liberalismo, che in questo argomento, come in quello affine dell’insegnamento religioso, suole ostentare il grande rispetto, che dovrebbe aversi nella educazione del fanciullo alla libertà di coscienza dei futuri cittadini; ingenui davvero, se in buona fede, non s’avvedono gli avversari, ch’essi non vorrebbero che altri abbia ad arare il campo, per poter essi pei primi spargere nelle zolle ancor vergini i semi di dottrine più o meno sovvertitrici.

Ora noi vogliamo che ogni cura sia data al bambino, consci della sua debolezza presente, consapevoli dell’avvenire che lo attende. In tutti gli idiomi le parole più dolci sono riservate ai bambini; nella Toscana gentile li chiamano anche gli innocenti. E l’innocenza è la loro più bella caratteristica, e appunto perché innocenti, perché destinati al bene, perché capaci di bene, meritano i bambini ogni più delicato riguardo.

Io penso alle idee singolarmente fini e profonde che su questo argomento della educazione del bambino ebbe spesso a manifestare la nostra graziosa Regina, Elena di Savoia; — alla Maestà Sua piacemi in questo momento in nome di tanti bambini, pei quali essa è una madre amorosissima e pietosa, porgere l’omaggio di un’affettuosa devozione. Diceva l’Augusta Signora ad una valente educatrice che la visitava: «Tutto ciò che si vuole, si ottiene dai fanciulli. Io non credo che vi siano bimbi cattivi: tutti, anche quelli che hanno nel sangue germi corrotti, si possono rendere buoni. Basta amarli più degli altri; basta allevarli nella gioia». Ed aggiungeva: «il bambino è proprio come un fiore, che non dobbiamo brancicare troppo bruscamente, perché non si sciupi». Ed insisteva nel concetto che conviene evitare di far conoscere troppo da vicino ai bambini le tristezze della vita, «ora il loro diritto e il loro dovere» diceva «è di crescere robusti, sereni e forti per poterle affrontare». Perciò, per quanto è possibile, noi dobbiamo ai bambini aria, luce, moto e letizia.

I paesi più progrediti, quelli nordici in ispecie, dimostrano per [p. 28 modifica] la puerizia il massimo interessamento, dedicando alla stessa numerose ed importanti istituzioni.

Ricordo il quadro di un pittore inglese. Rappresenta una via popolosa di Londra, nel cuore della City, in un’ora di traffico intenso; passano al trotto lunghe file di pesanti carri, di vetture d’ogni specie; ma un piccolo fanciullo ha accennato a traversare la strada, il policeman di guardia alza il tradizionale bastoncino e per un istante quel vorticoso movimento si arresta, e in mezzo alla via rimasta sgombra solo, sicuro, passa il piccino. «Sua Maestà il bambino» è il titolo del quadro, ed esprime ad evidenza tutta la gentilezza del costume anglo-sassone.

E noi vediamo un nobilissimo popolo, che pel suo valore stupì in questi ultimi anni il mondo, di civiltà raffinata e remotissima, il popolo giapponese, aver sempre avuto pei bambini un ammirevole culto. Basterebbe rammentare che tra le numerose feste nazionali, che questo popolo celebra per secolare tradizione, speciale importanza hanno quella dei bambini in maggio, in cui i maschietti vengono iniziati alle virtù civili, alla venerazione per gli antenati eroi, e quella delle bambine in marzo, la gran festa delle bambole, che risale al sesto secolo avanti Cristo. L’infanzia è il periodo della vita più felice al Giappone, e lo dimostrano segni esteriori; il bianco, che è pel giapponese il colore del lutto, non è mai portato dai ragazzi, e mentre gli adulti indossano vesti di una tinta grigiastra uniforme, il rosso è il colore preferito pei bambini, ed il Kimono delle bambine si adorna con ricami variopinti e fantastici di fiori, di foglie, e di uccelli.

L’importanza somma del rispetto che è dovuto ai fanciulli fu già compresa dalla sapienza romana, e Giovenale nelle Satire con tacitiana sintesi scriveva: «Maxima debetur puero reverentia» — la massima riverenza è dovuta al fanciullo — mirabile sentenza, che riassume un’intiero programma di educazione infantile, e che perciò accanto alle parole del Vangelo volli scritta sulla fronte di questo edificio.

Primi ad aver questa grande riverenza pel fanciullo dovrebbero essere i genitori; con dolore dobbiamo però assai sovente constatare come taluni si prendano ben poca cura dei loro figliuoli, non occupandosene quando son piccini, trascurandoli quando frequentano la scuola, considerata questa troppo spesso non come il luogo sacro dove il fanciullo si istruisce, ma piuttosto un comodo rifugio, che lo allontana dalla casa, nella quale talora riesce d’ingombro. Disse il giureconsulto Marciano: «In parvulis nulla deprehenditur culpa» — nessuna colpa deve attribuirsi ai fanciulli. — Quante volte al contrario ci è dato d’assistere a disgustose scenate di parenti, che per correggere i loro figliuoletti li sgridano con asprezza duramente li maltrattano; quante volte, entrando nelle case o nelle corti dei contadini, e avendo loro rivolto qualche osservazione per un disordine od una irregolarità riscontrata, sentii con rammarico rispondermi: «Hin staa i bagaj» — stolida frase e vigliacca, che vorrebbe essere una scusa ed invece siccome fiera rampogna si ritorce contro i parenti, che non sanno educare e vigilare la loro prole.

Un altro avvertimento vorrei rivolto alle madri, per le quali più direttamente l’Asilo rappresenta un aiuto. Si badi che la funzione dell’Asilo è funzione di integrazione, non di sostituzione all’opera materna; Asilo potrà bensì dare ai bimbi un sicuro ricovero, un’educazione ordinata e sana, uno svago giocondo salutare, ma nessun istituto potrà dar loro i baci d’una mamma, le carezze d’un padre, i sorrisi dei fratellini; e però non dimentichino mai le madri il sacrosanto dovere di occuparsi sempre dei propri figliuoletti, e quando a sera i piccini fanno ritorno a casa, riserbino loro la più festosa accoglienza e li circondino delle cure più affettuose, onde gagliardo ed immacolato si mantenga nel bambino l’amore per la famiglia.

Eccellenza, Monsignore, Signore, Signori!

Prima ch’io ponga fine al mio dire permettetemi ch’io rivolga un pensiero di memore, profondo affetto a mio Padre dilettissimo, ai miei carissimi Zii, al mio amatissimo Nonno. Alla loro benedetta memoria e specialmente a quella del Padre mio abbiam voluto dedicare questo Asilo, ricordando di quanto amore essi abbiano sempre amato questa popolazione.

Un ringraziamento infine io debbo a quanti coll’opera o col consiglio cooperarono all’erezione di questo edificio, ed in primo luogo all’ottimo amico architetto cav. Carlo Bianchi, che ne tracciò con genialità i piani e con intelletto d’amore ne diresse i lavori.

Ed ora vorrei parlare ai piccoli abitatori di questo Asilo. Non tutti hanno potuto esser oggi presenti; e perciò alla loro minuscola rappresentanza io mi rivolgo e dico loro:

Venite, o bambini; venite ad ammirare questa casa, ch’è fatta per voi; portate fra queste mura la luce dei vostri occhietti scintillanti e l’armonia delle vostre garrule vocine; ed amatelo questo Asilo, amate le buone Suore che vi educheranno, e quando fatti grandi passerete di qui ed altri bambini avranno preso il vostro posto, amateli quei bambini, talchè un’atmosfera d’amore abbia sempre ad avvolgere questo santuario dell’innocenza. E quando le vostre picciole manine si uniranno alla preghiera, e dalle vostre rosee labbrucce si scioglierà un’orazione gradita al Signore, ricordatevi di mia Madre e di me, e ricordatevi anche di tutte queste buone, venerande e gentili persone, perché tutti siamo amici vostri perciò siamo qui oggi convenuti ad inaugurare questa casa dei bambini.

Letteratura valdostana


V’è tutta una fioritura gentile che sboccia qua e là che manda profumi delicati e luci iridescenti; che sgorga armoniosa e pura come il canto delle loro acque cristalline ed eternamente scorrenti lungo i dossi giganti dell’Alpi. Ora sono meste sinfonie poetiche di qualche asceta, pensatore e filosofo, inspirantesi alle bellezze sublimi della natura all’ombra dei campanili e delle vecchie torri, nei lunghi silenzi che avvolgono le loro solitarie dimore. Ora poderosi e geniali studi sulla Flora di un modesto quanto erudito scienziato, che a quei monti accorre appena suonano le vacanze estive; ora gravi e profonde ricerche storiche, geologiche ed archeologiche, su ruderi romani, sul folklore, sui castelli su cento cose, rivelanti un risveglio intellettuale e palese, uno sprizzare chiaro e vivo di noti ingegni, di giovanili sforzi e di tenaci studi.

A questa simpatica e letteraria fiorita aggiunge ogni anno un vigoroso frutto il colto e noto storico, Tancredi Tibaldi. La sua fama di fine e geniale scrittore, in francese e in italiano, è ormai affermata e riconosciuta.

Sono recenti due bei lavori, che al par degli altri dello stesso A., hanno richiesto lunghe e difficili ricerche fra vecchie pergamene rôse ed ammuffite.

Nello studio analitico, I1 trionfo dell’idioma gentile1, il Tibaldi ci fa assistere alle strane e curiose vicende ed all’interessante evoluzione del popolo valdostano, dal I al XX secolo. È noto come i valdostani difendono ed amano la loro «douce langue maternelle» ma ciò che i più ignorano, è come il francese, da loro tanto amato ora, sia stato loro imposto nel 1531 dal duca Carlo II. La ribellione fu allora lunga ed aspra ma a poco, a poco, il linguaggio d’oltr'Alpe, predominò sul latino, diventando universalmente accetto ed accettato.

Il patois, come il francese, si tramandò così attraverso i secoli con religiosa fedeltà nelle patriarcali [p. 29 modifica] famiglie valdostane; il loro linguaggio faceva parte del patrimonio avito, delle tradizioni e dei costumi popolari.

Ma quando, or son parecchi anni, per la prima volta parve al governo italiano che questa differenza di favella in una regione del Piemonte, suonasse quasi offesa al concetto dell’unità italiana e pensò di sopprimerla; i valdostani insorsero a difendere, con uno slancio violento, caldo e sincero il loro francese, accolto con tanta amarezza tre secoli prima! Strana psicologia d’un popolo che ama la sua terra, le sue tradizioni e la sua storia d’un amore inalterato e profondo: che da presso, da lontano, mai non cessa d’ammirare le superbe bellezze dei suoi monti giganti e il suo limpido cielo le acque scroscianti e pure come la loro fede. Altra gloria dei valdostani, l’amore all’Italia, alla cara patria comune, e alla Casa Sabauda, di cui si vantano d’essere i primi fedeli ed amorosi sudditi. Ancor ora, nelle insidiose terre tripoline, i bravi e gagliardi figli delle nostre Alpi si batterono da leoni al grido di «Viva Aosta, la veja! V’è infatti tutto un inno di poesia in quel fatidico grido!

Ora il Tibaldi vorrebbe, benchè penosamente, provare che «la douce langue maternelle» va diminuendo sparendo in Valle d’Aosta, e che l’italiano si diffonde per necessità e per fatalità.

Nelle scuole le due lingue, sono insegnate con egual cura; la nuova generazione più sveglia ed intelligente le impara facilmente: e l’emigrazione continua, i nuovi più frequenti contatti colle città moderne, l’affluire dei forestieri e dei villeggianti rendono naturalmente, comune l’uso dell’italiano. Ecco perchè il Tibaldi e molti altri vedono vicina la sostituzione radicale di questa nostra lingua all’antico francese. Ma un comitato è sorto in Aosta; un comitato vigile e solerte a proteggere, a diffondere, a sostenere il caro linguaggio avito; ed è bene, che i valdostani intendano, come accanto al dovere di conservare le loro tradizioni regionali, sia loro di utilità immensa il saper due lingue che li rende assai superiori agli altri valligiani in molte circostanze della vita. Imparino essi adunque con amore il dolce idioma gentile, non dimenticando nel contempo il linguaggio che fu caro ai loro padri; è la migliore delle soluzioni e la più utile pel loro bene!

A conservare, o meglio, a perpetuare queste tradizioni, usi e costumi valdostani, lavorò appunto il Tibaldi nelle sue belle e simpatiche «Veillées Valdótaines».

Sono racconti pieni di humour e di brio; scenette curiose; schizzi di figure tipiche e originali, escrizioni suggestive e vivacemente tratteggiate. — Un buon lavoro insomma, che riunendosi alla bella Storia della Valle d’Aosta, in tre volumi, ed a molti altri suoi lavori, diventano un geniale e profondo studio storico, di folklore, di leggendarie gesta e di gentili poemi rusticani.

Ciò che mosse l’A. e che lo fa instancabile nel suo letterario lavoro, è l’intenso amore ch’egli, da buon valdostano, porta e nobilmente manifesta per la cara terra che lo vide nascere, e che sa trovare le vie del cuore e dello spirito col fascino profondo delle cose belle, alte e pure.

C. Coggiola.

S. Francesco, uomo sociale

«I semplici sono armonici e completi in un modo ammirabile. Essi hanno l’apparenza, spesso, d’essere rinchiusi in stretti orizzonti. Senza sforzo, senza ragionamenti, senza discorsi, senza scienza, per le vie del cuore, dell’anima, della virtù, meglio ancora per la via della santità, per l’unione col bene, coll’universale, coll’infinito, con Dio, essi hanno un intuito meraviglioso.... San Francesco d’Assisi rinunzia a tutto. Egli tiene un genere di vita ben particolare, strano. Eccolo posto come il più povero fra i poveri. Egli cammina col sajo e a piedi nudi. Nessuno ha lo spirito meno ristretto, meno esclusivo, l’anima più aperta. Egli ama la natura, questo asceta e in qual modo profondo, ingenuo, affascinante! Egli esercita un’influenza sociale».

Queste parole di Ollé-Laprune, riassumono e illuminano l’azione che San Francesco d’Assisi ha esercitato sul mondo. Nessun santo ha unito in modo più perfetto la vita d’intimità con Dio e la vita d’apostolato in mezzo agli uomini; e, quest’esistenza così originale per la sua varietà, per gli aspetti così diversi e così ammalianti che solleva, è, in pari tempo, d’una unità, d’una semplicità, d’una limpidità incomparabile. Si potrebbe trovare in lui l’asceta, il contemplativo, il fondatore, il missionario, l’oratore, il poeta, il cavaliere; al nostro sguardo si offrirebbero delle abbondanti ricchezze, e scendendo in queste miniere opulente, non tarderemmo a scoprire un fondo immutabile d’un unico metallo.

Unità e varietà: sono gli elementi del bello. La bellezza di S. Francesco ha sedotto i nostri contemporanei? oppure il suo idealismo candido, la stia ingenua semplicità li hanno guadagnati pel contrasto della nostra civiltà materialistica e complicata? — Non possiamo rispondere con sicurezza a queste domande, ma dobbiamo constatare un fatto tuttavia, che cioè la figura di San Francesco si illumina di un’aureola, che ha sempre nuovi splendori. Non sono soltanto i preti e i religiosi, che cercano di tracciarla: cattolici protestanti, razionalisti s’arrestano davanti ad essa, con un atto di commozione e di sorpresa, e trovano, per dipingerla, gli accenti d’una sincera eloquenza. Noi, in quest’ora solenne che precede l’apertura della nostra sesta Settimana Sociale, vogliamo additare unicamente la missione sociale di San Francesco, e allora dovremo concludere che le idee, ch’egli a emesso, e le opere, ch’egli ha creato, nulla hanno perduto della giustizia e del bene, che le raccomandava sette secoli fa.

«L’amore m’ha messo in una fornace» egli canta nelle sue strofe ispirate. Noi tocchiamo il fondo dell’anima di San Francesco e scopriamo, insieme, la sorgente della sua influenza: il suo cuore ardeva d’amore, la sua vita fu un’eterna ebbrezza di amore divino. Quella fu la sua grande passione, tutta la sua santità, tutto il suo genio.

Quest’amore integro e candido gli fa vedere la natura intera, come opera divina, ed egli ne ama tutte le manifestazioni, anche le più umili. Nella scala degli esseri egli vede dei gradi, non delle brusche rotture. Si può dire che egli riconduce tutto all’unità, e non è quello il compito dell’amore?

In seno ad una società divina, in mezzo ad uomini feroci, apparve Francesco. In mezzo a tutte le violenze di quel secolo, a tutte le sue minacce, a tutti i suoi orrori, il terrore gravava sugli animi e la povera umanità, accecata in questo caos sanguinoso, non sapeva più dove posare il capo.

In quest’ora turbolenta ed aspra, San Francesco ricominciò l’opera di pacifico e insieme efficace lavoro di rinnovazione del mondo, apportando agli uomini tre virtù principali: la povertà, la carità e la dolcezza, e lasciando dietro di sè delle opere, tutte impregnate del suo spirito.

La povertà è il carattere principale e più originale del suo genio. L’idea fondamentale del Vangelo è la vanità dei beni terrestri, che distraggono l’uomo dal regno di Dio; e la prima parola caduta dalle labbra del Cristo è: Beati pauperes spiritu. San Francesco la intese. Però questa povertà, così austera, così umile, [p. 30 modifica] così laboriosa, non tolse punto a San Francesco la sua allegrezza. Invece, essa gli dà gioia, sicurezza, libertà; egli si rallegra di aver scambiato le ricchezze con il nulla. La portata sociale della povertà francescana fu rilevata bene da Ozanam: «Facendosi povero, fondando un ordine nuovo di poveri come lui, egli onorava la povertà, vale a dire la più disprezzata e la più generale delle condizioni umane. Egli mostrava che vi si poteva trovare la pace, la dignità, la felicità. Egli calmava così gli astii delle classi povere, le riconciliava colle ricche, insegnando loro a non invidiarle. Egli pacificava la vecchia guerra di quelli che non posseggono, e ricostruiva i legami già rallentati della Società cristiana. Così non v’ebbe politica più profonda di quella di quest’insensato... Il popolo non ebbe mai migliori servitori degli uomini, che gl’insegnarono a benedire il suo destino, che resero la vanga leggera sulle spalle del lavoratore e fecero risplendere la speranza nella capanna del tessitore».

San Francesco è un ottimista. Quest’ottimismo candido e imperturbabile non è forse, nei nostri rapporti con gli uomini, la suprema saggezza? Il solo mezzo d’aver presa sugli uomini e di trascinare al bene non è forse quello di credere in essi e di amarli?

San Francesco ci ricorda imperiosamente che il vero legame sociale è la carità, è l’amore. La stessa giustizia, che è la prima regolatrice dei rapporti esteriori non saprebbe farne a meno, sotto pena di rinserrare gli uomini in un meccanismo rigido e freddo, sotto pena di essere es3a stessa incompleta, cieca e feritrice. «Tutto il male, dice Tolstoi, viene dal fatto che gli uomini credono che certe situazioni esistono, dove si può agire senza amore verso gli uomini, mentre tali situazioni non esistono affatto».

La dottrina cattolica, predicata da Francesco, apparendo, al mondo, non disse come Spartaco: levatevi, armatevi, rivendicate i vostri diritti; essa disse con calma e semplicità; amatevi l’un l’altro. Se v’ha qualcuno fra voi che si lagni di non essere amato, ami per il primo, perchè l’amore produce amore. Quello che vi manca non è un diritto, è una virtù.

La carità di Francesco si diffuse in una dolcezza pacificante, la cui efficacia sociale ha colpito gli storici. Egli fu pacificatore: il campo era vasto e il bisogno urgente. Fra l’agitarsi delle sette che pullulavano, eccitando i popoli alla ribellione e alla lotta, e di cui i nostri socialisti rivoluzionari sembrano i continuatori, questo pacificatore non aveva nulla del demagogo; e, davanti all’ideale nuovo proclamato da San Francesco, tutte le sette disparvero. Tale fu, dal punto di vista sociale, il compito personale di San Francesco: ma la morte non arrestò punto l’irradiarsi della sua influenza, perch’egli lasciò dietro a sè delle opere, che continuarono la grande eredità della sua missione.

Legando attorno a lui degli uomini, ch’egli preparava a tutti i sacrifici e a tutte le prove di devozione, egli dava al mondo dei veri apostoli.

Nè bastò: con quella concezione larga, propria di San Francesco, che considerava la perfezione cristiana come il patrimonio di tutti e non come l’appannaggio d’un piccolo numero di privilegiati, egli creò un’opera ardita e geniale, il Terz’ordine. Le sue regole, prescrivendo ai suoi membri la vita veramente evangelica, diventano un prezioso strumento di pacificazione sociale. Se è vero che la questione sociale è principalmente una questione morale, che non si può attendere da un’istituzione che non ha migliori ambizioni che restaurare nelle anime l’integrità stessa del Cristianesimo?

Tale fu il compito sociale di San Francesco.

Morendo, egli benedì la sua Assisi. Ma, dice il Venance, la benedizione del Patriarca varcò le mura della piccola città umbra, e si diffuse abbondante e dolce sulle città di questo mondo, dove gli uomini che gemevano e soffrivano, impararono a sorridere, perchè alla scuola di San Francesco appresero a credere e ad amare.

Paolo Rinaudo.

  1. Il trionfo dell’idioma gentile, Veilleés Valdótaines, di T. Tibaldi. Edit. Pianca, Torino. — Vendibile anche presso la ditta L. F. Cogliati.