Il buon cuore - Anno X, n. 34 - 19 agosto 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Religione Società Amici del bene

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Fatti antichi e parole moderne


Si allungano per la campagna sconfinata e silenziosa gli acquedotti, simili a vecchi giganti addormentati: su l’aspra china dei monti si levano verso il cielo, nidi di falchi e di civette, le ultime vestigia di qualche maniero feudale: corrosi dal dente delle onde e del tempo i ponti vetusti scompaiono e della antica storia di un tempo e d’una nazione nulla più resterebbe se non un pallido e malsicuro intreccio di ricordi e di tradizioni. Ma vi son bene dei monumenti storici che non paventano cambiar di costumi o di dominazione, che piegano bensì il capo sotto la bufera travolgente che l’ala del turbine sommuove, ma che ben tosto lo rilevano, un po’ sconvolto, un po’ rabbuffato, sì, ma che purtuttavia conserva sempre l’impronta della sua antica figura: e questi monumenti perenni ed incrollabili sono costituiti dalle denominazioni di antiche contrade E queste denominazioni rimangono, mentre le statue, le lapidi, i cippi si disperdono o cambiano di luogo; rimangono conservando spesso la loro forma originale, ad attestare e a ricordare le vicende fortunose o critiche d’una regione.

Una richezza inesauribile di denominazioni topografiche che possano ricordare il soggiorno più o meno lungo di genti non indigene in un dato luogo, più che ad ogni altro paese, spetta all’Italia: e ciò perchè la nostra terra fu quella maggiormente calpestata da piede straniero.

Il profumo dei suoi fiori e dei suoi frutteti volava lontano lontano sulle ali dei venti e destava in genti estranee l’ignoto senso di una ignota terra da cercare: la chiarità del suo mare dal murmure sommesso ed armonioso invitava i popoli dei lidi non propri all’avventurosa ricerca: la purezza del suo cielo splendeva tanto che Io splendore arrivava anch’esso lontano in fugaci ed acciecanti bagliori, penetrando fra le capanne di piota e fango, nell’oscurità delle vergini foreste millennarie, gittando negli animi barbari e vissuti in ogni tenebra il desiderio ardente della luce. Ed ecco che le incursioni che si protrarranno poi attraverso una lunga teoria di secoli, s’iniziano: sono primi i Pelasgi, dalla corporatura enorme e dell’aspetto di belva indomata, che con le braccia possenti pongono l’un sull’altro enormi massi di pietra, a circondare il luogo dove dimorano: e poi giù giù per tutte le età altri di favella e di colorito diversi, diversi di civiltà e di religioni. Ma se brama di conquista spinse, in epoche più recenti, gli stranieri verso l’Italia, qual ragione avrà indotto i primi incursori ad abbandonare la loro terra natale? I Pelasgi, che non erano una razza speciale come gli aborigeni d’una regione, quali i pellirossi di America, ma semplicemente gli anziani d’un popolo qualunque (poichè Pelargos o Pelasgos si compone di Paleos, vecchio, e Argos, canuto), quando vedevano crescere a dismisura le loro tribù, talchè i pascoli più non bastavano le greggi nè la terra agli uomini, bandivano una primavera sacra: il che importava che tutti i nascituri di quel dato anno, appena giunti ad età congrua, dovevano lasciare senza alcuna eccezione il suolo natìo e, portando con loro tutte le loro proprietà, dovevano andarsi a stabilire in una qualche terra lontana, in un paese più fertile. Così i padri Aria, abbandonato l’altopiano del Pamir, spingendosi innanzi gli armenti, in bianche, interminabili file, andavano verso i confini del mondo, là dove il sole si celava, a gettare le basi profonde di una grande, incrollabile civiltà.

Alla stessa guisa probabilmente avvenne che una numerosa e forte tribù d’Ibero-Celti del ramo Fenicio, navigando nel Tirreno e approdando o a Luni o a Meona penetrò nel centro d’Italia, fino là, in alto,

Nel crudo sasso infra Tevere ed Arno
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lasciando alla località il nome di Faltesona, o sorgente d’acqua. Ed ecco una serie di vocaboli destinati a marcare filologicamente l’itinerario di questa tribù nomade e le sue relative fermate. Così, mantenendo sempre nelle denominazioni dei luoghi di sosta la desinenza ron (acqua o fiume); chiamò Verona, nel Casentino, quella che oggi chiamiamo Vernia o Verna, Alerona un ampio colle nell’orvietano, Mont’alerona, oggi Mont’alera, ameno castello sopra il Trasimeno. E certo, trovando la terra pingue e generosa, la tribù prosperò: talchè ben presto si fece sentire il bisogno di trovar nuove sedi, per sfollare i luoghi abitati e rendersi così a vicenda men difficile la vita. Ed ecco che alcune genti della tribù si spingono verso il settentrione e si stabiliscono in luoghi che chiamano Verona, sull’Adige, e Arona, sul lago Maggiore.

Mentre queste parole si avvicinano per la loro parte terminale, ve ne sono altre che si associano intorno ad una fonte comune di origine per la lor parte radicale. Così di Boulogne, porto d’approdo d’un’altra tribù susseguente a quella, si vede ripetuta la radicale in Boemia (Boi dell’Ems), in Bojaria (Baviera – Boi ed Avari), in Bologna (colonia Bojorum).

E si potrebbero citare esempi simili a centinaia.

Ma un altro campo ancora ci attende, campo inesplorata e feracissimo di documenti per la nostra istoria. Non sono solo i monumenti filologici dovuti ad esempi di assimilazione fonetica quelli che ci debbono interessare, ma tutto quel materiale fornito dalla tradizione e dalle leggende che fa dell’Umbria, in ispecie, una regione feconda ed inesauribile d’indagini.

In quella che il poeta, nel canto undecimo del «Paradiso», descrive

fertile costa d’alto monte pende,
quasi senza dubbio si può ravvisare la così detta costa di Drexe, che rimane a destra di chi, uscendo da Porta Perlici in Assisi, scende a Pian della Pieve per poi proseguire il suo cammino verso il colle eletto.

Questa regione ove nel principio dell’evo di mezzo si contesero fra loro il dominio d’Italia Goti, Bizantini, Longobardi, Franchi e Svevi oggi è quasi deserta. Ma dalla terra digradante di clivo in clivo, in valli amenissime e in dirupi orridamente belli, attraverso cui discendono con suadente melodia, all’ombra diafana e cortese di salici e di ligustri, argentei rivi d’acqua, sale verso il cielo, che è tutto un inno superbo di luce, il canto della gloria e dell’amore. Sospirano le aure tra le chiome degli alberi, sospira il lago sopra la riva ghiaiosa e del Subasio verde alla turrita Aperusia, dal Glitunno sacro alla umile e grande Assisi, sopra il frastuono delle false divinità agresti danzanti intorno ai rivi sacri, tenue una voce risuona nel canto delle creature e l’anima mite di Francesco si esala attraverso i cieli in un profumo di fiori, in sussurro d’acque, in una festa di cielo, in una gloria di sole. Attraverso gli incanti di tanta poesia la nostra mente ritrova le memorie del passato e su di un rudero viscoso ricostruisce tutta la grandezza e tutto l’obbrobrio d’una età: mentre tutto intorno canta la soavità della vita, mentre tutto intorno si agita e ribolle in un possente rigoglio, scende nei freddi, silenziosi regni della morte, e l’anima nostra nella stessa luce del sole inorridisce del buio d’una tomba! Poichè, come dicevo, l’Umbria è ricchissima di interessanti monumenti filologici: ad ogni passo che fate, una memoria sorge: ad ogni volger d’occhi un fantasma d’altri tempi biancheggia innanzi a voi.

Sogni d’altri tempi voi vivete, allora. Lo stesso vocabolo Drexe che molti spiegano per tres ecclesiae, i ruderi delle quali non ho potuto rinvenire, può spiegarsi anche, e io credo con maggior probabilità di indovinare il giusto, con drei hechsen, le tre streghe: e in questo nome, originato da chissà quale leggenda alludente forse a guerrieri così invincibili da esser ritenuti incarnazioni di streghe, voi rivedete tutta un’epoca piena di superstizioni e di pregiudizii, di grandi ardimenti e di strani terrori. Continuando la strada alla sinistra di Gualdo (Wald), si trova presso Ca-de-cu, casa di Francescuccio, un cumulo di terra prativa, a forma di pan di zucchero, e di così giuste proporzioni da far credere che sia una collinetta artificialmente composta per nascondere probabilmente un ipogeo. Essa è chiamata dai contadini dei dintorni Mietola, forse da mittol, valle di mezzo. A sinistra ancora, sotto Porziano, si vede un antichissimo casale chiamato Renbù o Rambò, molto facilmente da regenbogen, arcobaleno. Avvicinandosi poi

al colle eletto dal beato Ubaldo
s’incontran due paesi: Casacastalda, senza dubbio da Statthalterhaus, casa del governatore, e più oltre Jommici da Jonmich, nome bizantino. E qui giova notare che son parecchie le località le quali conservano quasi intatto il loro nome bizantino: oltre a Jommici infatti c’è l’odierno Anifio dal bizantino Aniff e di altri di cui pel momento non mi sovvengo. Ma questi sono i due nomi più importanti poiché forse dati a perpetuare la memoria di due prodi dell’armata di Narsete che ivi raggiunsero i Goti fuggenti dopo la disfatta di Totila ad capras.

Nel decimoquarto secolo i figli di Albione lasciarono anch’essi un’orma indelebile del loro passaggio e precisamente nel territorio perugino, vicino a Ponte S. Giovanni. Un giorno Giovanni Acuto (Hawkwood) si trovava accampato con le sue bande in quei paraggi. Era d’inverno: il freddo era intenso. Allora quegli uomini si dettero a recidere le piante di scopiglio, che crescevano tutto intorno formando dei ricchi e folti scopeti. E allora, quasi per gratitudine alla terra che nel più gran rigore invernale aveva dato loro di che scaldarsi, quegli avventurieri posero, a memoria del fatto, il nome di Brushwood a quella regione, nome che poi si è italianizzato nell’odierno Brufa. Nè basta. Lì presso sono i colli di Miralduolo e Montevilio, nomi che ricordano la grave sconfitta ivi subita dai fuorusciti perugini. E Lu Sepulcru (Colfiorito), Ossaia e Sanguineto, al Trasimeno, non sono tanti altri monumenti filologici che perpetuano il ricordo storico delle battaglie quivi combattute e perdute da Centenio e da Flaminio? Al [p. 269 modifica]Sanguineto alcuni critici moderni han voluto contestare l’origine del nome: ma delle prove evidenti stanno a confortare la mia opinione che è quella del resto che di generazione in generazione si tramandano questi buoni abitatori. Una prima prova è che nei dintorni si rinvenne la celebre statua di bronzo dell’arringatore, forse portata via da Arezzo, o per onorare il presunto trionfo a Roma del console, o per servirsene come palladio; una seconda prova è che recentemente è apparso, qual nuovo testimonio, nello stesso territorio della vetusta Contea Ranieri di Montegualandro, un piccolo busto di bronzo, rappresentante molto probabilmente Flaminio stesso, che qualche centurione avrà nel bollore dell’ira, quando più veemente e feroce la strage infuriava, gittando lungi da sè nella fanghiglia del rivolo rosso di sangue che Byron così efficacemente ricorda in alcuni suoi versi:

Ma un rio cui poca è l’onda e poco il letto,
dai torrenti che allor corser di sangue,
ebbe il suo nome, e il Sanguineto accenna
il loco ove sgorgò da le secate
vene, la terra ad inondar, quel caldo
fiume che rosse fea l’acque dolenti.

E finalmente un’altra curiosità filologica ci si offre in alcuni vocaboli di origine punica coi quali una tribù nomade il cui idioma era il Barlogair-na-saor, soffermata sulle rive del Trasimeno, non più oltre di pochi secoli fa, chiamò e distinse i luoghi del suo momentaneo stanziamento.

Il fatto dunque di adottare forzatamente espressioni straniere, così comune in Italia, non è che il frutto e la conseguenza di eventualità storiche. Il dominatore si impone al dominato con ogni forma di superiorità: talvolta importa usi e costumanze proprie: talvolta introduce e incoraggia nuove religioni: spessissimo, e il caso è il più comune, lascia delle parole a segnare e a ricordare il suo passaggio. Quest’ultimo fatto, però, se deve chiamarsi storico nelle cause che lo hanno determinato, non può dirsi altrettanto nelle conseguenze che da queste cause son derivate. Stando a contatto di stranieri, anche oggi si verifica lo stesso fatto di secoli passati, si apprendono delle parole dei loro idiomi, si ripetono e si usano: così abbiamo dei nostri connazionali emigrati a Marsiglia i quali parlano e scrivono una lingua tutta loro speciale, infarcita di parole francesi a desinenze italiane e di parole italiane a desinenze francesi.

È questo un fatto puramente naturale che solo una volta, fra tanti secoli, ha acquistato le proporzioni di un vero e proprio fatto storico. Quando cioè le aquile romane, aperto il volo su tutto il mondo conosciuto, portavano col trionfo delle armi il trionfo di un idioma e di una civiltà: civiltà che ha informato e informa di sè quasi tutta la moderna vita; idioma che ha creato e alimentato l’armonia e la grazia, la dolcezza e la forza, il colorito e il profumo del grande gruppo glorioso delle lingue neo-latine.

Alessandro Picelier.



ECHI E LETTURE


La regina di Spagna ha voluto assistere alla solenne Messa d’adorazione all’Escorial, una delle cerimonie più belle del Congresso Eucaristico: fu cosa eminentemente suggestiva. All’entrata della Regina nel tempio, ricevuta dall’Alcade e dal Rettore, la folla rimase quasi meravigliata nel vedere la a inglese in mantiglia nera avanzarsi verso l’altar maggiore, fermarsi alla balaustra e prostrarsi non sull’inginocchiatoio preparato, ma sulla pietra nera: la Regina rimase col rosario in mano per oltre mezz’ora in quell’atteggiamento di preghiera: e quando dal coro una voce sacerdotale — di sacerdote inglese — incominciò la Corona, la Regina partecipò con tutti i pellegrini all’atto di fede collettiva: quindi ricevette la Santa Comunione. Dopo un’ora di medita. zione, uscì dal tempio, e come giunse al Patio de los Reyes la folla non potè più contenere l’entusiasmo e scoppiò in applausi clamorosi. La Regina, che era accompagnata dalla Principessa Luisa d’Orléans — narra il Momento — mentre la folla l’investiva col suo entusiasmo sonoro, piangeva: ci fu un momento in cui, le due auguste Dame, uscenti sull’esplanada de la Lonicon col priore degli Agostiniani, don Miguel Campos e col Conte d’Aybar, dovettero essere difese dall’impeto della moltitudine che voleva toccare colei che ha cinta la corona di Spagna e prega finalmente come una espanola! Le due signore Auguste col piccolo seguito uscirono dalla maggior porta del collegio fra una selva di bandiere e di vessilli popolari e operai, mentre garrivano al vento festanti i 500 stendardi dell’Adoracion notturna. Un vecchio basco si avvicinò e offerse alla Regina un fiore gridando: Los catolicos bascos deben defender a todo trance a Cristo e a Espana! Il vecchio basco gettò in aria il berretto, in segno d’entusiasmo: quando la Regina seppe che il popolano era quasi centenne e aveva assistito a tutti i lavori del Congresso con un fervore cristiano e civile rarissimo, lo richiamò a sè e volle baciarlo in fronte. Il popolano restituì il bacio paterno: uno per la Regina, uno per il Re, gli altri per i figli che son nati e che nasceranno. E si congedò col saluto cristiano della tradizione spagnuola più antica e più gloriosa. — Ave Maria purissima — disse il vecchio. — Sin pecado concebida — rispose pronta la Regina. — La folla che applaudiva pareva un oceano in tempesta.

Fa caldo: la società romana dei ventilatori a domicilio ha esaurito i medesimi. E li aspettiamo dall’estero. Ma adesso ci arriva una delle solite notizie refrigeranti che ci raffredderà anche gli entusiasmi per il ventilatore. Sì, fa caldo: ci sono i ventilatori, i quali vorrebbero essere utili nei locali dove c’è molta gente, per l’areazione dell’ambiente. Ma ecco gli esperimenti dei signori Sartory e Filassier, comunicati nel gennaio scorso alla Societa di biologia, che mostrano come i ventilatori non facciano che aumentare il numero dei bacteri nell’aria. In una camera d’osteria di cento metri cubi, prima di mettere in movimento il ventilatore [p. 270 modifica]v’erano 18 mila bacteri per ogni metro cubo d’aria, dopo un’ora di ventilazione 42 mila, dopo 2 ore 65 mila: fermato il ventilatore, dopo altre 2 ore il numero dei bacteri era sceso a 21,000. In una sala di caffè di 125 mc. il numero dei bacteri aumentò da 22,000 a 48,000. Ma vi sono anche dei rimedi: il prof. Fischer, libero docente dell’Università di Berlino, ha applicato negli ospedali un ventilatore a ozono, in modo che la quantità di ozono unita all’aria non superi l’uno per mille della quantità di ossigeno. Con meno di 85 watts si toglie qualsiasi cattivo odore dalle sale di ospedali, di scuole, di convegno. Così afferma il Correspondant.

LA SANTA CAPPELLA


STUDII STORICI


(Continuazione, vedi numero 32).

Tomaso d’Aquino stava terminando una confutazione del Vangelo Eterno (libro ereticale la cui pubblicazione preoccupava molto i teologi d’allora) allorchè si bussò alla sua porta ed entrò il novizio frate Antonio. Il pallido viso di quest’uomo tradiva una sì viva emozione che Tomaso ne fu quasi in timore.

— Oh, padre mio, padre mio! benedetto sia Iddio, perchè se voi lo volete, i miei piani riguardo alla Santa Cappella saranno realizzati: mi viene offerto un mezzo infallibile e sicuro.

— E quale?

— Or ora il caso mi fece incontrare con un giovane fornito di disposizioni stupefacenti per l’architettura, e che, grazie alla sua intelligenza, due o tre settimane mi metteranno in grado di secondare le mie vedute. Una volta ben istruito, io lo indirizzerò al Sovrano con questo progetto: la stranezza del fatto ecciterà vivamente l’attenzione del re; si incaricherà questo giovane della costruzione dell’edifizio ed io potrò dirigerlo nell’esecuzione, sconosciuto, ignorato da tutti e senza mancare al voto che io ho fatto nelle vostre mani.

— Ma questo è un ingannare il re, è una menzogna!

— Dopo questo, o padre mio, vi giuro che non mi occuperò più d’altro che della mia salute, che d’espiare i miei peccati. Oh, dite! dite che acconsentite, non è vero?

Tomaso d’Aquino esitò ancora alcuni istanti, poichè l’idea d’una bugia, per quanto innocente, ripugnava al suo carattere. Ma ricusarvisi era perdere un’anima; e cedette per uno di quegli accomodamenti che gli spiriti anche più rigidi e più retti sanno trovare al bisogno.

— Il giovane, senza far conoscere l’autore del progetto, non dirà però che è suo....

— Non lo dirà punto, non lo dirà, padre mio. Voi acconsentite, non è vero?

Ed un’ora dopo, frate Antonio seduto nella sua cella accanto al giovane Pietro, l’iniziava a misteri artistici compresi da quest’ultimo con una intelligenza meravigliosa. Era uno spettacolo strano che quest’uomo, poc’anzi assassino per gelosia d’artista, spogliavasi al momento di tutto il suo sapere per investirne un fanciullo. Nulla stava a pari all’ardore del maestro all’infuori dell’entusiasmo dello scolaro.

— Pietro, affrettati, — diceva frate Antonio, — poichè un altro potrebbe passarci avanti, un altro potrebbe arrivare sino al Re e far aggradire il suo progetto; allora, figlio mio, addio alla tua gloria; addio alla nostra bella Chiesa! Affrettati adunque ad iniziarti ai misteri dell’arte massima; poichè non è soltanto un edifizio che noi dobbiamo costruire, ma è anche un libro, un libro contro il quale sfogherà invano i suoi attacchi la gelosia, più temibile anche degli anni. Studia bene la facciata; imprimi nella memoria fino il minimo di questi gerolifici per spiegarli al Re. Là, vedi, si racchiudono tutti i simboli di cui il nostro maestro padre Tomaso d’Aquino vive una parte nel suo celebre trattato Secreta Alchimiae magualia. L’angelo di destra che tuffa la sua mano in una nube, raffigura lo spirito celeste senza il cui soffio la grand’opera diviene impossibile; l’altro che mette le sue dita in un vaso, personifica la terra in cui nascondonsi i tesori cui deve fecondare l’occhio del cielo, il sole. Le altre figure collocate tra i due angeli, sono le operazioni che si succedono fino al compimento del mistero senza secondo; undici angeli le pregano ginocchioni, significano undici giorni di macerazioni; dodici che si involano, significano dodici giornate d’ebullizione; l’estremo giudizio, coi buoni da una parte e i cattivi dall’altra, indica la separazione delle sostanze inutili e degli elementi puri; finalmente sul pilastro che separa i due balconi si eleva una statua di Cristo vittorioso; è il successo, è la grande opera compiuta.

In così dire egli prendeva in mano, pezzo per pezzo, particolare per particolare, il suo disegno per spiegarlo a Pietro che, otto giorni dopo avrebbe ingannato il più abile architetto per la giustezza e l’intelligenza con cui dimostrava l’assieme e le parti della chiesa in progetto. Impiegava i termini tecnici senza esitare e con una precisione che provava quanto perfettamente egli ne conosceva e sino alle minime sfumature; finalmente, sulle osservazioni stupefacenti di sagacia che gli faceva il giovane, frate Antonio introdusse diverse modificazioni al suo piano.

Fu adunque stabilito che dieci giorni più tardi Pietro andrebbe a presentarsi al Re e a chiedergli di costruire la Santa Cappella.

L’indomani mattina, verso le undici, Pietro vestito tutto a nuovo e recando in mano un rotolo di pergamene s’incamminò verso il palazzo dove Re Luigi IX riceveva in certe ore tutti quelli che desideravano parlargli; poichè egli era affabile con tutti e di facile accesso, affinchè l’ultimo dei suoi sudditi potesse dirgli le sue angustie e sollecitarne appoggio. Frate Antonio non abbandonò già il suo protetto in questa difficile prova; e l’accompagnò non solo fino al palazzo reale, ma anche nei giardini. Giudicate delle emozioni di tutti e due allora che si videro in faccia al monarca, assiso sopra un cuscino di erba, all’ombra di un grande olmo che formava un immenso baldacchino di frondi sulla testa del principe e del seguito. La regina Bianca [p. 271 modifica]stava assisa a destra del Re di cui seguiva i minimi gesti e raccoglieva ogni parola con avidità materna. Ci si sentiva presi di religioso rispetto in presenza di questa principessa, d’una maestosa avvenenza, su cui le vesti vedovili che mai avea lasciato da dopo la morte di Re Luigi VIII, effondeva una non so quale misteriosa tristezza a cui prendevasi parte senza volerlo. Un lungo velo candido temperava il brio dei suoi occhi spagnuoli, e la mano piccola e delicata sgranava lentamente un rosario portato a lei da un pellegrino che l’aveva composto con legno tolto alle piante del monte su cui Gesù venne tradito da Giuda. Quanto al Re, ognuno chiedevasi come tanta gravità si trovasse sul viso grazioso di un giovane di ventun anni, i giudizii da lui pronunciati erano sempre accolti con mormorii d’ammirazione da farlo paragonare al santo re Salomone.

Due uscieri facevano avanzare uno a uno al cospetto del monarca e secondo l’ordine del loro arrivo, coloro che intendeano indirizzargli qualche supplica. Quando fu;a volta di Pietro, le gambe cominciarono a mancargli; ma riprese coraggio e si inginocchiò avanti al monarca; poi, alzando gli occhi, si sentì rassicurato perchè vide dietro al Re il padre Tomaso d’Aquino. Evidentemente la bella figura di Pietro interessò la Regina e il Re Luigi, poichè si scambiarono tra loro un sorriso. Luigi IX mise un’espressione di bontà tutta particolare nelle parole con cui s’intrattenne col giovane.

— Ebbene, che mi domandate figlio mio?

— Sire, ecco dei progetti per l’erezione della Santa Cappella che voi volete costruire.

— Dei progetti per la nostra Santa Cappella? Io sono curioso di vedere quelli che mi vengono da uno che non ha ancora la barba.

Il Re spiegò i fogli e la regina madre si piegò sulla spalla del figlio per meglio vedere. Entrambi si lascia. rono sfuggire un grido di ammirazione.

— Per il legno della Santa Croce! tutto questo ha del meraviglioso, e nulla di quanto ci mostrarono finora gli architetti venuti d’Alemagna si avvicina a questo disegno. Chi lo ha fatto?

— Io, o Sire.

— Chi ne è l’autore?

Una vampa di fuoco sali al viso di Tomaso d’Aquino che si nascose la testa fra le mani come il condannato cui raggiunge il ferro del carnefice; poichè si sentiva complice d’una menzogna. Quanto a frate Antonio, un sudore diacciato gli bagnava tutto il corpo.

Ma il giovane rispose con voce alta e sicura:

— Non è mio affatto, o Sire.

— E di chi allora, — domandò il Re fra il mormorio di sorpresa di tutti i circostanti.

— Io non lo posso dire, perchè ho giurato sulla mia eterna salute di serbare il segreto. — Ma, — prosegui egli con nobile orgoglio, — che vostra Maestà mi incarichi di dirigere i lavori, e colla grazia di Dio, io li farò degnamente eseguire e in modo da guadagnarmi lode, o Sire.

Il cuore di frate Antonio batteva con tale violenza da spezzarne il petto; Tomaso d’Aquino ringrazia Dio d’avere salvato da una menzogna il giovinotto come aveva di già salvato Daniele dalla fornace ardente.

— Sire, — rispose il giovane Pietro, — questo è il segreto d’un mio benefattore e ne va della salute di un’anima. Preferii dirvi la verità anzichè assicurare con una bugia l’esito del mio progetto per quanto tale riuscita potesse decidere di tutta la mia vita; ma mi sono richiamato le parole della vostra augusta madre, ch’era preferibile morire al commettere un peccato mortale.

Un mormorio favorevole dei circostanti accolse codeste parole cotanto cristiane, la cui citazione inoltre non mancava certo nè di finezza nè di opportunità.

— Che dite voi di tutto questo, o Padre Tomaso, — chiese il Re volgendosi al domenicano.

— Io dico o Sire che lo Spirito Santo si è degnato di effondere la sua luce su questo giovane e salvare da una bugia alla quale, io religioso, non ebbi difficoltà ad esporlo, poichè o Sire, io conosco il suo segreto. Dio ha messo in lui la sua sapienza.

Il Re si intrattenne alquanto e a voce bassa colla Regina madre e chiamò il padre Tomaso d’Aquino. Durante questo dialogo gli altri si allontanarono rispettosamente come voleva l’etichetta di corte. Poscia Luigi fè cenno ai circostanti di avvicinarsi e disse:

— Come ti chiami tu?

— Pietro di Montreuil.

— Ebbene, Pietro di Montreuil, noi rispettiamo il tuo segreto e ti nominiamo nostro architetto reale per la costruzione della cappella del nostro palazzo. Da domani, i materiali, gli operai e il denaro necessarii saranno messi a tua disposizione, volendo che da oggi in sei anni abbia luogo l’inaugurazione di questo luogo di preghiera. Va in pace adunque, e non dimenticare mai per quali vie misericordiose il Signore ti ha portato, da una condizione povera ed umile, all’onore di costruire un tempio al vero Dio. Va, resta sempre fedele ai doveri di cristiano e odia la menzogna.

Pietro di Montreuil, col paradiso in cuore, si allontanò in compagnia di P. Tomaso d’Aquino, perchè frate Antonio nel timore di tradirsi per emozione si era ricondotto alla porta del palazzo dove aspettare il suo protetto. Tutti e tre poi tornarono in silenzio al convento di S. Domenico e si raccolsero nella cella di P. Tomaso.

— Pietro, disse allora frate Antonio, tu hai salvato l’anima mia togliendomi l’unico dolore che potesse riattaccarmi alla terra; l’opera mia non morrà. Intanto io vado ad espiare nella penitenza il delitto che ho commesso e che tutte le lagrime della mia vita mi cancelleranno forse dal libro che l’angelo della vendetta produrrà al giudizio finale.... Pregherò Dio per te e gli chiederò i lumi dello Spirito Santo affinchè tu compia degnamente la grand’opera di cui ti ha incaricato. Se le mie lezioni e la divina arte che Dio pose in te non saranno bastanti, vieni a bussare alla porta della mia cella, i miei consigli ti aiuteranno. Ma non venire se non l’esige la necessità, capisci? poichè io voglio morire al mondo, obliare tutto ciò che non è se non vana gloria e fumo; voglio inabissarmi nel mio pentimento. Si, lo giuro per la SS. Trinità, quind’innanzi non rivolgerò più a nessuno, nemmeno a P. Tomaso, delle domande sull’edifizio che tu sei per costruire. Addio, giovinotto, e che il ciel t’aiuti.

Pietro scioglievasi in lacrime, e si inginocchiò innanzi a frate Antonio che posò le mani tremanti sul capo del giovane e mormorò una breve preghiera.

(Continua).

(Trad. di L. Meregalli).




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