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IL BUON CUORE | 267 |
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Questo passo evangelico contiene ricca messe di ammaestramenti; uno fra gli altri, ha una importanza speciale, perchè colpisce una deficienza largamente diffusa fra le persone pie: la eccessiva fiducia riposta nelle sole osservanze esteriori.
Quante volte avviene di vedere persone che si fanno scrupolo di tralasciare un Rosario, di non accendere un lume al Crocifisso o alla Madonna e che non hanno rimorso di mancare di carità, di umiltà, di lealtà.
Ogni volta che un’anima interiore è costretta a osservare di coteste inversioni non può a meno di provare un senso di pena profonda.
Questa è una delle verità più importanti che i sacerdoti, gli educatori dovrebbero inculcare, dilucidare: ne guadagnerebbero la vera e soda pietà e la vera e soda educazione e parecchie dolorose contraddizioni fra una pratica più minuziosa e accurata e una vita più o meno ricca di grandi e piccole immoralità sarebbero evitate.
Il Fariseo non si gloria che di osservanze esteriori e solo di esse si compiace, ma, scompagnate dalle virtù morali, non gli ottengono l’approvazione divina.
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Dunque non omettere la pratica e non tralasciare la intima moralità e, sempre, essere umili e sentire la profondità della propria miseria.
Solo i mediocri sono superbi; ogni grande in virtù e in sapienza è grande anche in umiltà.
Solo un orecchio affinato nota le più sottili sfumature: solo un’anima interiore e amante del bene nota le più lievi deficienze morali e non se le perdona e non trova mai d’aver adeguato l’ideale della perfezione.
.....Così si vive la vita dello spirito! Essa non è un cristallizzarsi, un trincerarsi, ua accomodarsi, un compiacersi, ma è moto continuo di ricerca, di sforzo, di ascensione.
Educazione ed Istruzione
Fatti antichi e parole moderne
Si allungano per la campagna sconfinata e silenziosa gli acquedotti, simili a vecchi giganti addormentati: su l’aspra china dei monti si levano verso il cielo, nidi di falchi e di civette, le ultime vestigia di qualche maniero feudale: corrosi dal dente delle onde e del tempo i ponti vetusti scompaiono e della antica storia di un tempo e d’una nazione nulla più resterebbe se non un pallido e malsicuro intreccio di ricordi e di tradizioni. Ma vi son bene dei monumenti storici che non paventano cambiar di costumi o di dominazione, che
Una richezza inesauribile di denominazioni topografiche che possano ricordare il soggiorno più o meno lungo di genti non indigene in un dato luogo, più che ad ogni altro paese, spetta all’Italia: e ciò perchè la nostra terra fu quella maggiormente calpestata da piede straniero.
Il profumo dei suoi fiori e dei suoi frutteti volava lontano lontano sulle ali dei venti e destava in genti estranee l’ignoto senso di una ignota terra da cercare: la chiarità del suo mare dal murmure sommesso ed armonioso invitava i popoli dei lidi non propri all’avventurosa ricerca: la purezza del suo cielo splendeva tanto che Io splendore arrivava anch’esso lontano in fugaci ed acciecanti bagliori, penetrando fra le capanne di piota e fango, nell’oscurità delle vergini foreste millennarie, gittando negli animi barbari e vissuti in ogni tenebra il desiderio ardente della luce. Ed ecco che le incursioni che si protrarranno poi attraverso una lunga teoria di secoli, s’iniziano: sono primi i Pelasgi, dalla corporatura enorme e dell’aspetto di belva indomata, che con le braccia possenti pongono l’un sull’altro enormi massi di pietra, a circondare il luogo dove dimorano: e poi giù giù per tutte le età altri di favella e di colorito diversi, diversi di civiltà e di religioni. Ma se brama di conquista spinse, in epoche più recenti, gli stranieri verso l’Italia, qual ragione avrà indotto i primi incursori ad abbandonare la loro terra natale? I Pelasgi, che non erano una razza speciale come gli aborigeni d’una regione, quali i pellirossi di America, ma semplicemente gli anziani d’un popolo qualunque (poichè Pelargos o Pelasgos si compone di Paleos, vecchio, e Argos, canuto), quando vedevano crescere a dismisura le loro tribù, talchè i pascoli più non bastavano le greggi nè la terra agli uomini, bandivano una primavera sacra: il che importava che tutti i nascituri di quel dato anno, appena giunti ad età congrua, dovevano lasciare senza alcuna eccezione il suolo natìo e, portando con loro tutte le loro proprietà, dovevano andarsi a stabilire in una qualche terra lontana, in un paese più fertile. Così i padri Aria, abbandonato l’altopiano del Pamir, spingendosi innanzi gli armenti, in bianche, interminabili file, andavano verso i confini del mondo, là dove il sole si celava, a gettare le basi profonde di una grande, incrollabile civiltà.
Alla stessa guisa probabilmente avvenne che una numerosa e forte tribù d’Ibero-Celti del ramo Fenicio, navigando nel Tirreno e approdando o a Luni o a Meona penetrò nel centro d’Italia, fino là, in alto,
- Nel crudo sasso infra Tevere ed Arno