Il buon cuore - Anno X, n. 24 - 10 giugno 1911/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 24 - 10 giugno 1911 Religione

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VERDI CRISTIANO

Nel 1836, a 27 anni, mal soffrendo di vivere a Busseto una vita angusta e mediocre, Verdi aveva cercato un posto d’organista a Monza. «E tuttavia, egli diceva, la mia natura non è fatta per la musica di chiesa.....» Egli non si sentì inclinato da quella parte che trentasette anni dopo, nel 1873, sotto il peso del dolore per la morte di Alessandro Manzoni.... Così nella terza delle sue conferenze su Giuseppe Verdi, Camillo Bellaigue s’è accinto a discorrere della parte più austera dell’opera di lui: la cronaca religiosa. Alcuni spartiti di carattere sacro, scritti durante il suo tirocinio di Busseto, non contano..., Quando Rossini morì, nel 1868, Verdi dettò un Libera, che doveva fondersi in una messa, scritta da parecchi in collaborazione. Per ragioni materiali la Messa non fu eseguita, ed il Libera restò tra le sue carte. Egli l’esumò, quando la notizia della morte di Alessandro Manzoni venne, fulminea, a risvegliargli nell’animo, un’onda appassionata di religiosità lacrimosa. L’autore dei Promessi Sposi non ebbe mai ammiratore più devoto dell’autore di Rigoletto. «Voi sapete, scriveva Verdi nel 1867, quanto e come io veneri quest’uomo, cui si deve, a mio parere, non soltanto il più gran libro del nostro tempo, ma uno dei più grandi libri che sieno mai usciti da cervello umano.... V’è, sovratutto questo, che quel libro è vero, così vero come la verità. Ah! se gli artisti potessero comprendere una buona volta questo vero, non ci sarebbero più musicisti dell’avvenire e del passato; nè più pittori veristi, realisti, idealisti; nè più poeti classici e romantici; ma poeti veri, pittori veri, musicisti veri.»

Un anno più tardi dopo aver incontrato Manzoni: «Che potrei dirvi, come spiegarvi la sensazione deliziosa, indefinibile, nuova che ha prodotto in me la presenza di questo santo come voi lo chiamate? Mi sarei messo a ginocchio davanti a lui, se si potessero adorare le creature umane.»

Così egli volle onorarlo di là dalla vita. Appena seppe, il 23 maggio 1873, nella sua villetta di S. Agata, che Manzoni era morto, Verdi partecipò al sindaco di Milano il suo desiderio di consacrare una messa di Requiem alla memoria dei grande scrittore. Composta a Parigi, durante l’estate del 1873, l’opera fu eseguita per la prima volta il giorno dell’anniversario funebre, il 22 maggio 1874 a Milano, nella chiesa San Marco.

«Il Requiem un po’ troppo vantato di Mozart, la Messa in si minore di Bach e quella in re di Beethoven, tutte e due ammirevoli, il Requiem gigantesco di Berlioz, costituiscono quattro esemplari ineguali e famosi d’un genere nel quale il Requiem di Verdi non figura senza gloria. Il suo posto, come quello degli altri citati, non è punto in chiesa: tutto concorre ad allontanarnelo di là: le dimensioni, lo sviluppo, il carattere, lo stile, senza parlare dell’elemento orchestrale. So bene, che una chiesa accolse per la prima volta il Requiem in memoria di Manzoni, ma fu anche l’ultima: la sala di concerto parve, subito dopo, luogo più adatto per quella commemorazione patetica e sacra insieme.»

Quando si bada ai caratteri che distinguono la musica «religiosa» dalla musica «di chiesa» si vede che il Requiem verdiano ha tutte le libertà, permesse alla prima ed all’altra vietate. «Una messa di Requiem o soltanto una messa comune offre, accanto alla preghiera e confusa ad essa, un elemento drammatico al quale, nei capilavori citati, un Beethoven, un Bach stesso non rimasero insensibili. Expecto resurrectionem mortuorum! Bach ha cangiato quest’affermazione dogmatica della risurrezione generale in una pittoresca, impressionante visione. Per il movimento ed il colore, [p. 186 modifica]il Beethoven del Crucifixus ci sembra il rivale d’un Rubens: lo sorpassa, forse, quando alla fine d’una semplice preghiera come l’Agnus Dei, soltanto al nome di quella pace implorata, per rendercela ancora più desiderabile, evoca la guerra, col suono delle trombe che Shakespeare avrebbe chiamate «orride.» Così non ci stupiremo pel fatto che Verdi, il quale era, per temperamento e per essenza, musicista teatrale, ha fatto del Requiem un’opera, non di misticismo e d’unzione, ma d’azione, di passione, se s’intendono con questa parola, riferendoli a Dio, quei movimenti, quegli slanci dell’anima che sono il dolore e la paura, la speranza e l’amore. E poi, chi oserebbe affermare che il musicista del Requiem, trattando il soggetto secondo la propria natura, l’abbia snaturato in qualche cosa? Invano si cercherebbe nei suoi canti una sola di quelle contraddizioni splendide, una svia di quelle menzogne, gioconde, se è lecito così dire, alle quali si abbandonarono, prima di lui, ciascuno in uno Stabat celebre, Rossini costantemente e Pergolesi una o due volte. Ma, persino nello Stabat rossiniano, si riconosce e si subisce la logica del genio di una razza, i diritti onnipossenti di un’arte che doma il suo soggetto invece di sottomettersi ad esso. Ricordate la prima cosa che Enrico Heine, scendendo di Germania, incontrò in Italia. Sulla sponda della via egli vide un gran Crocefisso di legno, intorno al quale era spuntata una vigna. Ed era, racconta il poeta viaggiatore, una cosa terribilmente dolce l’osservare come la vita abbracciasse la morte, come la verzura lussureggiante della vigna ornasse il corpo sanguinoso e le membra crocifisse del Salvatore. «La musica italiana anche sacra, anche funebre, somiglia volentieri a questa croce e nella loro arte come sulle strade del loro paese, piacerà sempre ai musicisti d’Italia che la vita abbracci la morte con una terribile dolcezza.»

Tutte le frasi del Requiem rivelano, attraverso il commento di C. Bellaigue, la natura ricca e spontanea del Cigno di Busseto. Il conferenziere sa ritrovare, talvolta, nelle pagine immortali, le tracce stesse dello stile religioso per eccellenza, lo stile gregoriano.

Tredici anni dopo il Requiem, Verdi scriveva lo Stabat.

Inferiore al Requiem, lo Stabat è inferiore anche ad un altro Stabat, a quello di Pergolese. Per convincersene, basterebbe prendere in Pergolese ed in Verdi il terzetto finale:

Quando corpus morietur

Fac ut anima donetur

Paradisi gloria.

Sulla melodia di Pergolese, la parola Paradisi si posa con dolcezza, con ùna tristezza squisita. Mezzo luminosa, mezzo oscura, sembra dividersi tra la terra ed il cielo, tra la sofferenza che s’esaurisce e la felicità che si avvicina. Tutto ciò è adorabile ed è puramente intimo. Affatto diverso è l’effetto che Verdi ha cercato ed ha ottenuto. Egli enuncia la parola con maggiore lentezza e con minore unzione di quel che faccia Pergolese. La sostiene, l’amplifica con un progresso che va sino allo sbocciare totale della tonalità, dei valori e dell’intensità sonora. E ci dà, inoltre, come una sensazione di gloria e d’apoteosi. Verdi ci porta, così, dall’esterno, quell’emozione, che Pergolese risvegliava raccoglieva nella parte più intima dello spirito nostro.

Più ricco di sostanza musicale dello Stabat è il Te Deum. Esso è anche più bello. L’intonazione liturgica vi crea un motivo centrale donde deriva e dipende l'insieme, la forza consueta di Verdi vi si prepara e vi si accumula a poco a poco. Una salmodia a mezza voce comincia col riunire, a mano, tutti gli elementi sonori: invita gli angeli, gli arcangeli, i cherubini, i serafini, tutti gli ordini, tutte le gerarchie celesti, a formare un innumerevole coro, donde sgorga un triplice e magnifico Sanctus. Vengono allora tenere effusioni, seguite da richiami, così unanimi alla misericordia, alla benedizione, che sono veramente l’espressione delle suppliche d’un popolo, d’una folla. La frase musicale s’allarga a mano a mano che s’innalza a preghiera comune, il ricorso universale. Quale che sia la maestà delle parole del testo: Salvum fac populum tuum. Benedic haereditati tuae.... la curva melodica è sempre abbastanza vasta per abbracciarle.

Ma il Te Deum non rende soltanto grazie, esso domanda anche grazia, alla fine; esso implora scongiura. Ed appunto la più bella parte dell’opera è la preghiera finale, prima piena di spavento, quindi di speranza: Dignare Domine.... «Degnatevi, o Signore, di conservarci senza peccato in questo giorno e abbiate pietà di noi.» Per impetrare questo favore supremo, le voci si riuniscono e si stringono insieme. Si fanno austere, e come oscure: sovra una nota bassa, lugubre e ritmica come di marcia funebre, esse pongono come un'antifona cupa. Come certi quadri dipinti, il quadro musicale è a vari piani. Ai gemiti di quaggiù lassù rispondono altri lamenti; e s’acquetano alla loro volta. Allora una voce, una sola ripiglia. Si direbbe la voce di una anima dimenticata, ma che non vuole la si dimentichi. In te Domine, in te, in te speravi. Tre volte, sulla stessa nota, con una forza crescente, questa voce getta la sua invocazione solitaria, che una tromba, isolata anch’essa, ripete e ancor più rafforza. E la voce umana e la voce di rame bastano per riunire ancora una volta le altre voci e strappar loro, a tutte insieme, il grido supremo di un’invincibile speranza.

Verdi scriveva un giorno nel 1892 ad Hans di Bülow:

«Voi siete felici, voi altri, di essere ancora i figli di Bach, laddove noi!... Eppure noi, figli di Palestrina, avemmo, un tempo, una grande scuola, che fu proprio nostra. Se potessimo ritornare ad essa!»

Vi ritornò egli stesso e con una mano, due volte pia, volle scrivere alcune pagine di musica sacra e di musica alla Palestrina. Dapprima una Ave Maria (testo latino) o piuttosto due Ave, poichè ripetuta a quattro parti vocali senza accompagnamento, come composta sovra una scala enigmatica. Quindi le Laudi alla Vergine, la preghiera di San Bernardo al principio dell’ [p. 187 modifica]ultimo canto del Paradiso di Dante, parafrasi dell’Ave Maria, paragonabile a quella del Pater noster con cui s’apre il canto undecimo del Purgatorio. La caratteristica particolare e nuova di questi tre pezzi consiste della polifonia pura.

Un giorno al suo pianoforte, nel salotto di S. Agata, il maestro ne mostrava, e spiegava al Bellaigue stesso le corrispondenze armoniche. «Egli, il gran melodista ottuagenario, che pei più belli dei suoi canti si era contentato d’una voce unica, ricordo, sorrideva e pareva felice, forse con un po’ di malizia, in fondo, per aver saputo trovare, sorprendere rapporti così sottili, così ingegnosi tra parecchie voci.»

Un problema intimo s’affaccia a questo punto. L’uomo che ha scritto tante pagine ispirate, aveva la fede? Verdi, si chiede Bellaigue, era credente? Egli ne ha espresso il dubbio ad un vivente illustre che uni la sua vita nobilmente a quella di Giuseppe Verdi, e che potette, a lungo, nell’intimità, penetrarne l’anima: Arrigo Boito.... Una lettera diretta da Boito a Camillo Bellaigue porta la data della vigilia di Natale, e dice:

«Ecco, il giorno ch’egli prediligeva tra i giorni dell’anno. La vigilia di Natale gli ricordava le sante magie della fanciullezza, gl’incanti della fede che non è veramente celeste se non quando s’innalza sino alla credulità del prodigio. Questa credulità, ahimè, egli l’aveva perduta come noi tutti, di buona ora. Ma ne conservò più di noi, un ardente rimpianto durante tutta la vita. Egli ha dato l’esempio della fede cristiana con la bellezza commovente delle sue opere religiose, con la osservanza dei riti (ricordi tu la bella testa china nella cappella di Sant’Agata?) col suo illustre omaggio al Manzoni, con le disposizioni pei suoi funerali trovate nel suo testamento: «Un prete, un cero, una croce.» Egli sapeva che la fede è il sostegno dei cuori. Ai lavoratori dei campi, agli infelici, agli afflitti che lo circondavano, si offriva come esempio, senza ostentazione, umilmente, severamente per essere utile alla loro coscienza. Ed ora bisogna arrestar qui questa inchiesta. L’andar più oltre mi condurrebbe più lontano, attraverso i labirinti d’una ricerca psicologica, dove il suo grande essere non avrebbe nulla da perdere, ma dove io stesso temerei di smarrirmi. Nel senso ideale, morale, sociale, Verdi era un grande cristiano....»

Un’altra, una donna di gran cuore che fu tra le più fedeli e le più nobili amiche del maestro, scriveva anche al Bellaigue così:

«La nostra intimità durò sino alla morte. Io ebbi la triste felicità di vegliare al suo capezzale durante i cinque giorni della sua malattia.

«Aveva interamente perduta la conoscenza. Un solo istante mi parve che comprendesse il suo stato. Quando Monsignor Catena, uno dei nostri più degni prelati, lo stesso che aveva chiuso gli occhi a Manzoni, gli offrì la mano, il gran morente gliela strinse, lo guardò sorridendo, quindi chiuse i begli occhi per non riaprirli più quaggiù. Monsignor Catena credette che quel sorriso intelligente e vivido sarebbe bastato per salvare l’anima grande.»

Un altro testimonio della morte silenziosa ricorda qui ancora Camillo Bellaigue. Nel suo elogio funebre di Verdi, ecco come si esprimeva Giuseppe Giacosa: Le cose circostanti non potevano più nulla sui sensi del moribondo, privo di ogni comunicazione col mondo ch’è il nostro. Ed io pensavo allora che, sotto quella vasta fronte, nel silenzio delle percezioni esterne, il colpo di folgore aveva dovuto risvegliare, richiamare in folla, dal fondo degli abissi della memoria e scatenare, lasciando loro il campo libero, le innumerevoli immagini, accumulate durante una vita di ottant’anni.

Tutte queste immagini, conclude il conferenziere illustre, avevano sicuramente, un volto, una voce. La maggior parte erano umane, figure dí passione, d’amore, di dolore. Ma una, forse, santa e divina, avrà ripetuto il grido da luí già esaltato: «In te, Domine, speravi!» E l’ultimo sospiro di quella grande anima vi avrà risposto.

Domenico Russo.

LA FRIVOLEZZA



ANDREA CHÉNIER



Madre al vano Capriccio e al lusinghiero
Prestigio, a lei sempre s’aggira intorno.
L’alata Fantasia. Ninfa di corpo
Flessuoso, e di luce e d’aura avvolta,
Agile è più dell’onda, e più del lampo
Rapida, e inquieta come terso specchio,
Che al sol baleni. Ad ogni breve istante
Ella si muta, e porporina or sembra
Ora d’argento; ora s’infiamma al vago
Della rosa colore ed or scintilla
Di tinte vivacissime azzurrine.
Con volo incerto ed inegual discende
A precipizio, chè un buon duce mai,
Mai non ebbe la Diva. I trasparenti
Sogni, labil drappello ingannatore,
Le accarezzar co’ vanni sfavillanti
Le membra, e ognora accanto a lei si stanno
In faccenda i Sorrisi. Impasta l’uno
Dalle bocche balsamiche i profumi,
L’altro il giovin splendor dei labbri ardenti,
E il terzo, ch’è solingo e senza cure.
Soffia alla punta di sottil cannello
Onde in aereo globulo si svolga
Una minuta stilla d’acqua. In questa
Corte, che la Follia sempre tien viva,
Va e viene ella, regina, e canta e tace
E guarda e ascolta, e obblia, tutta rapita
In veder mille volte e in mille parti.
Dipinto il suo sembiante entro a’ cristalli

Di cui rifulge e brilla il suo palagio.

Pietro Caliari.


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DOPO UN ANNO DI REGNO

Vi sono spettacoli negli annali di ogni grande monarchia che nessun mutamento da medioevali a moderne associazioni potrà mai offuscare. La luce e l’ombra che accompagnano ogni nuova accessione al trono si confusero ieri ancora una volta quando ai rintocchi delle campane che annunziavano il servizio funebre in ricordo del defunto Re, rispondeva il rombo dei cannoni della torre salutanti il primo anniversario di regno di Giorgio V.

Pochi minuti prima di mezzanotte dodici mesi or sono la funerea notizia che aveva corso per la gigantesca città insonne, portava insieme con la tristezza del tramonto l’alito roseo di un’alba nuova. Ed è a quest’alba che tutti gli sguardi sono oggi rivolti. La memoria dei sovrano defunto è ancora viva nei cuori di questi sudditi fedeli, l’impressione della sua influenza non è ancora passata, col tempo; pure, dobbiamo confessarlo — ed è umano, del resto — più che all’eredità del passato il cuore è sensibile ai vaghi miraggi del futuro. Ed anche questa brava gente, a malgrado del suo tradizionalismo classico, tende il collo e lo spirito in avanti. Un fiore di memoria su la tomba del sovrano morto, ma rose rose rose sul sentiero che le porte dell’avvenire dischiudono al sovrano novello. C’è persino il sole, oggi, a simboleggiare, in questa primavera della natura, la primavera del nuovo regno: l’auspicio sembra fausto e il popolo, raccogliendolo, ne gode: nessuna nube fa più paura, nè meteorica nè politica (contro le prime si è provveduto con assicurazioni a... contanti, contro le seconde si provvederà nel caso con opportune vacanze): il cielo è arridente, i cuori si levano, i forestieri arrivano: il lutto è finito e: God save the King!

Uno sguardo retrospettivo su questo primo anno di regno non turba la rosea visione del futuro. Re Giorgio può vantarsi a diritto delle simpatie che ha saputo suscitare intorno alla sua persona in così breve volger di tempo. Un anno fa esisteva fra il nuovo sovrano e il suo popolo una certa quale freddezza: si conoscevano poco ancora, ma rotta appena la prima esitanza, il resto è venuto da sè e molto più agevolmente e rapidamente di quanto si sarebbe potuto aspettare, data la difficoltà enorme di sostituire nel cuore del popolo la bonomia sorridente e geniale di Re Eduardo e d’imporsi alla pubblica estimazione in circostanze politiche così ardue e spinose quali da molte generazioni non avevano accompagnato il sorgere di un nuovo regno in Inghilterra.

Coadiuvato mirabilmente dalla dolce influenza della regina, le cui squisite virtù di donna e di madre e la cui carità illuminata hanno già conquistato tutti i cuori, Re Giorgio si è accinto all’arduo compito con serietà tranquilla e con fermo vigore, dimostrando sin dai primi messaggi rivolti al suo popolo una lealtà aperta ed una sicura coscienza de’ propri doveri — espressi nella più limpida forma, quasi a garanzia visibile della propria sincerità di pensiero e di propositi.

E il popolo oggi gli ricambia questa aperta e cordiale fiducia, avvivata dall’affetto e dall’entusiasmo onde ogni spirito vibra nell’attesa della grande solennità che porrà come un suggello su le promesse ottenute e schiuderà le porte del futuro al realizzarsi degli auspici più solenni e più sacri.

Intanto colla chiusura ufficiale del periodo di lutto, la vita nazionale risorge. La «season» s’apre, quest’anno, con prospettive.... abbaglianti, prendendo, non solo il nome, ma lo spunto di ogni sua manifestazione dalla grande cerimonia reale. Sarà, dopo tutto, una reazione logica al carattere semi-funebre forzatamente assunto dalla «season» decorsa. Non vi parlo del programma che dovete già saper a memoria (credo che la Stefani ve lo ha già annunciato per lo meno venti volte).

Le feste propriamente dette dureranno dal 19 al 30 giugno e svolgeranno tutto il programma di cerimonie.... di cui sopra. In quanto poi alle feste particolari, se mi permettete di disporre di mezza giornata, ve ne prospetterò l’elenco esatto la prossima volta. Inutile dire che la massima curiosità e il più vivo interesse del pubblico si concentrano su quelle cerimonie alle quali gli sarà dato particolarmente d’assistere e, sopratutto, sul gran corteo che attraverserà le principali arterie della City e del Sud della metropoli. Per questo corteo l’attesa ed i prezzi vanno crescendo, prospettivamente, in proporzioni iperboliche.

La polizia, per suo conto, sta pure disponendo per un servizio straordinario di sicurezza pubblica. In occasioni simili, i quartieri eccentrici della metropoli sono quelli che più soffrono del forzato abbandono della polizia, raccolta necessariamente là dove è maggiore il concorso della folla. Si è perciò pensato, per aumentare provvisoriamente il servizio di vigilanza, di fare appello agli agenti in ritiro, che saranno destinati, per qualche giorno, a guardia dei quartieri lontani, mentre il contingente effettivo sarà distribuito nelle vicinanze del Palazzo Reale e lungo l'itinerario del corteo. E che le preoccupazioni della polizia siano giustificate non occorre certo dimostrarlo, quando si pensi al numero dei personaggi reali e delle autorità che converranno in Londra, per l’occasione, da tutte le parti del mondo.

La cerimonia assumerà, certo, questa volta, un’importanza e un’imponenza di gran lunga maggiori di quelle che caratterizzarono la coronazione di Re Edoardo, otto anni or sono, dovutasi rinviare per la malattia improvvisa del Sovrano, e avvenuta quando già la maggior parte delle rappresentanze ufficiali avevano abbandonato la città per far ritorno ai rispettivi paesi.

Ed anche i preparativi sono compiuti, quest’anno, con ordine e con alacrità maggiori: il gran maresciallo non ebbe, come avvenne otto anni or sono, a trovarsi imbarazzato sul da farsi, insieme a tutto il suo personale e a tutte le rispettive amministrazioni.

Dopo il lungo regno della Regina Vittoria, la cerimonia della coronazione del nuovo sovrano si prospettò come una vera incognita agli addetti d’ufficio. Nessuno, [p. 189 modifica]pare impossibile, v’era preparato: le tradizioni eran cadute nell’oblio più profondo: nessun superstite si riuscì à rintracciare che potesse dar qualche informazione su la cerimonia precedente. Si dovettero far ricerche negli archivi di Stato, sfogliar documenti e memorie e risalire, a quanto mi si assicura, fino ai tempi di Guglielmo e Maria (1689).

Pare, invece, che quest’anno siasi trovato ancora qualche superstite di.... otto anni fa. Meno male!

A proposito di costumi: sembra accertato oramai (e dico sembra, perchè non si sa mai che può succedere in affari simili) che Re Giorgio porterà alla cerimonia della coronazione lo stesso mantello di drappo d’oro che portò già Eduardo VII. È un indumento pesantissimo e, si capisce, incomodissimo, che ha la forma di una cappa canonicale. Ma è stato tessuto in Inghilterra, e tanto basta. Nel 1902 si sono persino stampate delle fotografie intese a mostrar la finezza del lavoro e la bellezza del disegno. I motivi, per nulla fantasiosi, sono inspirati agli emblemi delle diverse nazioni su le quali regna il Re d’Inghilterra.

Di nuovo, vi sarà invece lo scettro, o per meglio dire, non nuovo, ma.... restaurato. Perchè lo scettro, in sostanza, sarà ancora quello di cui si son già serviti in precedenza tutti i sovrani inglesi dal tempo di Carlo II: solo, in parte, modificato. È un po’ come il famoso coltello di Jeamont, questo scettro: ora gli si cambia il manico, ora gli si cambia la testa. Questa volta toccherà, pare alla testa. Si è deciso, infatti, di ornarlo col più grosso gioiello estratto dal famoso Cullinan, il brillante donato, come sapete, a Re Eduardo dagli africani del Sud.

Siccome però lo stesso Cullinan serve anche, talvolta, ad ornare la corona della Regina o a prestarsi come collier, così si è pensato di affidargli, per questa occasione, una ingegnosa montatura mobile, dalla quale si possa estrarlo a volontà.

Come vedete, anche i sovrani hanno le loro.... piccole trovate economiche.

Un’altra innovazione della cerimonia di quest’anno sarà la scomparsa delle sette fanciulle che, precedendo il corteo, usavano, una volta, seminare di fiori il passaggio dei sovrani. E non si capisce davvero perchè sia stata tolta dal programma questa nota di gentilezza, in luogo di molte altre che rimangono ad appesantire di gravezza inutile e meticolosa la cerimonia forse più faticosa cui debba sottoporsi il sovrano inglese durante il suo regno. Ma in fatto di anomalie, è inutile che vi ripeta ancora una volta quanto e come brillino tutte le organizzazioni e tutti i costumi sociali e politici della Gran Brettagna.

Su di un fatto, invece mi sembra opportuno insistere fin d’ora: sul carattere, cioè, eminentemente esclusivista, che si propone di dare e si darà alla cerimonia della coronazione di Re Giorgio, la quale a malgrado della sua pompa e dell’intervento numeroso di rappresentanze estere, sarà soprattutto una solennità britannica, per non dire essenzialmente insulare.

Innovazione? No. Si sarebbe piuttosto tentati di dire: ritorno al passato. La coronazione della Regina Vittoria, per esempio, fu un affare nazionale, null’altro. I sovrani esteri vi si fecero, è vero, rappresentare largamente, ma, dopo tutto, i sovrani — secondo la tradizione e secondo l’etichetta — non sono altro che.... cugini.

Quando, a più di sessant’anni d’intervallo, ebbe luogo la coronazione di Re Eduardo, si constatò già una grande differenza, la facilità e la rapidità delle comunicazioni rese allora possibile, l’intervento di sovrani di paesi lontanissimi.

Inoltre, vennero allora rappresentati anche le colonie inglesi e l’impero dell’India. Infine, Re Eduardo era un personaggio talmente cosmopolita, che da tutti gli angoli del mondo giunsero personaggi più o meno importanti, più o meno conosciuti da lui personalmente, desiderosi d’assistere alla più imponente ed importante cerimonia del regno. La coronazione di Re Eduardo fu, sotto molti aspetti, una solennità internazionale.

Con Giorgio V, invece, comincerà un’era novella. Gli avvenimenti hanno fatto molta strada in circa dieci anni. Le colonie autonome inglesi si sono federate e sviluppate; una nuova nazione britannica — poichè oramai le colonie non vogliono più esser conosciute come tali e si considerano invece nazioni — è nata nell’Africa australe, aggiungendosi alle nazioni sorelle della Nuova Zelanda, dell’Australia e del Canadà. Queste ultime, d’altra parte, hanno assunto, per proprio conto, una maggiore importanza: sono le sorelle anziane, fiere della loro grandezza e della loro dignità. Esse hanno bisogno, è vero, dell’Inghilterra, la madre patria — e sanno però ancor meglio, dopo che il movimento tariff-riformista di Chamberlain lo ha loro dimostrato — che l'Inghilterra ha egualmente bisogno di loro. Esse non vengono dunque, ora, alla cerimonia della coronazione ed alla conferenza imperiale come semplici figlie sottomesse, ma vi vengono invece come eguali, come associate indispensabili del grande impero britannico.

Vi è un’associata principale, senza dubbio, ma essa non ha più l’antica autorità materna: non ha che l’autorità, diremo così, di un’azionista la cui quota, nel fondo comune, è più forte di quelle degli altri. Se, individualmente, questa parte è ancora più considerevole di ciascun’altra presa separatamente, dal punto morale, materiale, potenziale, le parti riunite degli altri le fanno però da.... contrappeso.

È ora la prima volta che ciò si vede e si constata. Mai, sino ad oggi, nella storia dell’Inghilterra e de’ suoi possedimenti, l’importanza delle colonie era sembrata tale quale oggi luminosamente appare. Non è soltanto il Re dell’Inghilterra che verrà coronato il 22 giugno, ma il capo di tutte quelle nazioni unite, associate che costituiscono l’Impero britannico. Le colonie — The Dominions — per dar loro il nome ch’esse vogliono oggi portare — intendono di essere associate alla politica inglese come conseguenza logica, naturale della loro associazione della difesa imperiale. Nuovi e più stretti e più saldi vincoli si apprestano a maggiormente unire e fondere le diverse parti dell’Impero; ecco perché è lecito affermare che il regno e la coronazione di Giorgio V segnano il principio di un’era [p. 190 modifica]novella. La coronazione di Giorgio V sarà sopratutto una solennità britannica imperiale, o, se vi piace meglio, imperialista. E sarà questo carattere eminentemente specifico che lo distinguerà dalle due cerimonie precedenti.

Gli stranieri — i barbari — vi assisteranno ancora, ma saranno semplici spettatori al banchetto, veramente estranei alla gran festa esclusiva della famiglia britannica. È per le colonie che la madre patria ha fatto le spese a suon di milioni: per esse ella riserba i suoi più dolci sorrisi, per esse ella dispiegherà le sue grazie.... E fra queste, naturalmente, le sue forze navali e militari: un modo come un altro per significare il gradimento della visita.... senza sottintesi incresciosi.

Rodolfo Rampoldi.

Semplici verità

Alle Donne del Popolo Italiano.

Dopo le Cose Piane di quel tesoro d’educatrice, che è la signora Maria Pezzè-Pascolato, ecco un’altra pubblicazione educativa, che porta in fronte il caro nome dell’esimia scrittrice veneziana, accomunato a quello d’una sua valente collaboratrice, signorina T. Combe, pseudonimo di Adèle Huguenin, la quale esercita nella Svizzera un vero apostolato a beneficio del suo popolo. Questo volumetto delle Semplici Verità, edito da G. Barbera di Firenze, conta 154 pagine e costa una lira. Ma quante belle, sante, utilissime verità contiene in ogni pagina, in ogni periodo!

Le Autrici si rivolgono alle Donne del Popolo Italiano con una praticità singolare, e, senza far prediche, colla forma eletta, coll’amenità del bozzetto, coll’opportunità dell’occasione, coll’efficacia e l’evidenza dell’esempio, con parlanti similitudini, provano quanto bene si possa fare e quanto male si possa evitare nel corso della vita in tutte le età e in tutte le condizioni. Sì, in tutte le condizioni, perchè le Semplici Verità, parlate dapprima tra amiche, in una piccola scuola di campagna, poi in una grande società operaja di città, sono tali da riuscire in pratica utilissime a tutti senza distinzione.

Ecco il sommario della preziosa pubblicazione:

I. — Semplici verità. — Se volessimo.... — La storia di un campo di sterpi e d’uno storno addomesticato. Il nostro peggior difetto. — Un proverbio di Re Salomone. — Quel che accadde all’Assunta. — Per far amare la casa.

II. — La tela di ragno. — Certe frange e certe amiche. — Bugie. — Un vecchio lupo. — Il Maggiore Romani. — La storia di Ceccone. — Altre mosche nel ragnatelo. — La famiglia Pini.

III. La fortuna. — La paglia e il piombo. — La fortuna principia dalla speranza. — Avanti che suoni la nostra ora. — Spinaci ed insalata. — I due fratelli. — Un terno al lotto. — La vecchia Vittoria e la bambola rotta.

IV. — La casa. — Leggendo i giornali. — Cercate la donna. — Una lucerna spenta e una spazzola che non si trova. — Sull’orlo del precipizio. — Per un geranio. — Il sacrificio dell’Edvige Galli.

V. — Il nemico. — Due sventurate. — Perché Ciencio Bianchi l’aveva con le donne. — Righetto. — Le spiegazioni del Maggiore Romani. — Il diavolo e l’acquavite. — La migliore difesa.

Riportiamo anche la bella pagina di Avvertenza, che l’esimia signora Pascolato fa precedere:

«Prima d’esser parole scritte in un libro, queste furono parole parlate, tra amiche, in una piccola scuola festiva di campagna, in una grande società operaia di città. Le ho riunite qui, perchè società operaie e biblioteche popolari sovente me lo domandano.

«Ma ne’ miei semplici discorsi della domenica, io solevo attingere ogni tanto ad una fonte preziosa; a certi fascicolini gialli, di cui nella Svizzera fu esaurito oramai più di un milione di esemplari.

«Pubblicando ora questo libriccino, avrei potuto fare due cose, tutte e due più facili e più sbrigative; ometterci soltanto i discorsi miei, o tradurre tal quali alcuni degli opuscoli gialli di T. Combe, la illustre scrittrice svizzera, che alla elevazione morale del suo popolo dedica da anni cuore ed ingegno.

«Appunto perchè la signorina Combe scrive per il suo popolo cose vere, pratiche, scrupolosamente esatte e precise, quegli eccellenti materiali non possono però servire, così come sono, al nostro popolo, che ha indole, abitudini, mestieri, leggi, istituzioni tanto diverse. E poi, per avvincere le ascoltatrici (chi abbia qualche pratica di simili riunioni lo sa), bisogna raccontare di aver veduto le cose da noi, coi nostri occhi, di averle udite coi nostri orecchi. D’altronde, troppo mi sarebbe doluto di rinunziare a quella parte dell’opera o dell’idea di T. Combe, che mi aveva aiutata nella mia modesta propaganda educativa.

«Ecco perchè alcune di queste pagine sono mie, altre sono liberamente adattate o imitate, più tosto che tradotte, tal volta prendendo soltanto uno spunto, un suggerimento, tal volta riproducendo larghi brani o racconti interi.

«T. Combe non è il nome vero: la scrittrice che dell’arte sua ha fatto un nobilissimo apostolato, si chiama Adèle Huguenin, e vive e lavora indefessamente in una pittoresca valle del Giura, nel Cantone di Neuchàtel. Mi è caro esprimerle qui la mia riconoscenza per la facoltà concessami di adattare al pubblico italiano non solo queste poche pagine, ma tutta la mirabile opera sua.

«La signorina Combe dice che per convincere bisogna piacere; e però questo primo volumetto è una prova. Se piacerà alle lettrici cui è destinato, un altro lo seguirà a breve distanza; parecchi altri, fors’anche. Ma bisognerebbe che fosse letto col cuore, come col cuore fu scritto, in un fervido desiderio di bene.

«Venezia, maggio 1911.

«Maria Pezzè-Pascolato».

Come si vede, la signora Maria (così è chiamata comunemente a Venezia la nostra autrice, perchè il suo nome dice tutto a tutti), anche in questa pagina, con quell’altruismo che la distingue, attribuisce gran parte del merito alla signorina Huguenin, e noi ammettiamo questa verità come tutte le altre che infiorano l’opera benefica delle due degne amiche. E qui vor remmo presentare qualche saggio delle verità che sgorgano dal principio alla fine del prezioso libretto come da una limpida sorgente, vorremmo dire una sorgente manzoniana, una sorgente di quel grande buon senso che [p. 191 modifica] non si nasconde per paura del senso comune; ma, per non dilungarci troppo, ci limitiamo a suggerire questo simpatico ed utilissimo volumetto alle lettrici non solo, ma anche ai lettori, insomma a tutte le persone che comprendono l’importanza d’una santa missione per l’educazione sociale.

A. M. Cornelio.

Per il cav. avv. EMILIO RADIUS


È trascorso un anno dalla morte del rimpianto avvocato cav. Emilio Radius, e per la mesta ricorrenza, al Cimitero Monumentale, nel campo XII, n. 178, ove riposa la sua spoglia, si è scoperto un bel ricordo marmoreo del Ferradini, che porta un magnifico medaglione in bronzo colle sembianze del defunto, squisitamente modellate dallo scultore comm. Secchi.

Una bella lapide presenta la seguente epigrafe dettata dall’amico A. M. Cornelio:

Cav. Avv. EMILIO RADIUS
TEMPRA INCORRUTTIBILE FULGIDO INTELLETTO
LA VASTA COLTURA LA CARITÀ SOCIALE
LARGAMENTE PROFUSE ALLA GIUSTIZIA
ALL’ASSESSORATO DELL’ISTRUZIONE.
NELL’ETÀ DEL RIPOSO
SUE PATERNE CURE RIVOLSE ALLE GIOVANI LAVORATRICI.
DAGLI INTENSI AFFETTI FAMIGLIARI
PRECORRENDO LA MADRE VENERATA
CONFORTATO DALLE DIVINE PROMESSE
RAPIDAMENTE S’INVOLAVA DA TUTTI RIMPIANTO.

N. 1839 — M. 1910.


Le giovani lavoratrici della Pensione Benefica faranno in giorno festivo una visita alla tomba del venerato presidente.