Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 24 - 10 giugno 1911.pdf/2

186 IL BUON CUORE


il Beethoven del Crucifixus ci sembra il rivale d’un Rubens: lo sorpassa, forse, quando alla fine d’una semplice preghiera come l’Agnus Dei, soltanto al nome di quella pace implorata, per rendercela ancora più desiderabile, evoca la guerra, col suono delle trombe che Shakespeare avrebbe chiamate «orride.» Così non ci stupiremo pel fatto che Verdi, il quale era, per temperamento e per essenza, musicista teatrale, ha fatto del Requiem un’opera, non di misticismo e d’unzione, ma d’azione, di passione, se s’intendono con questa parola, riferendoli a Dio, quei movimenti, quegli slanci dell’anima che sono il dolore e la paura, la speranza e l’amore. E poi, chi oserebbe affermare che il musicista del Requiem, trattando il soggetto secondo la propria natura, l’abbia snaturato in qualche cosa? Invano si cercherebbe nei suoi canti una sola di quelle contraddizioni splendide, una svia di quelle menzogne, gioconde, se è lecito così dire, alle quali si abbandonarono, prima di lui, ciascuno in uno Stabat celebre, Rossini costantemente e Pergolesi una o due volte. Ma, persino nello Stabat rossiniano, si riconosce e si subisce la logica del genio di una razza, i diritti onnipossenti di un’arte che doma il suo soggetto invece di sottomettersi ad esso. Ricordate la prima cosa che Enrico Heine, scendendo di Germania, incontrò in Italia. Sulla sponda della via egli vide un gran Crocefisso di legno, intorno al quale era spuntata una vigna. Ed era, racconta il poeta viaggiatore, una cosa terribilmente dolce l’osservare come la vita abbracciasse la morte, come la verzura lussureggiante della vigna ornasse il corpo sanguinoso e le membra crocifisse del Salvatore. «La musica italiana anche sacra, anche funebre, somiglia volentieri a questa croce e nella loro arte come sulle strade del loro paese, piacerà sempre ai musicisti d’Italia che la vita abbracci la morte con una terribile dolcezza.»

Tutte le frasi del Requiem rivelano, attraverso il commento di C. Bellaigue, la natura ricca e spontanea del Cigno di Busseto. Il conferenziere sa ritrovare, talvolta, nelle pagine immortali, le tracce stesse dello stile religioso per eccellenza, lo stile gregoriano.

Tredici anni dopo il Requiem, Verdi scriveva lo Stabat.

Inferiore al Requiem, lo Stabat è inferiore anche ad un altro Stabat, a quello di Pergolese. Per convincersene, basterebbe prendere in Pergolese ed in Verdi il terzetto finale:

Quando corpus morietur

Fac ut anima donetur

Paradisi gloria.
Sulla melodia di Pergolese, la parola Paradisi si posa con dolcezza, con ùna tristezza squisita. Mezzo luminosa, mezzo oscura, sembra dividersi tra la terra ed il cielo, tra la sofferenza che s’esaurisce e la felicità che si avvicina. Tutto ciò è adorabile ed è puramente intimo. Affatto diverso è l’effetto che Verdi ha cercato ed ha ottenuto. Egli enuncia la parola con maggiore lentezza e con minore unzione di quel che faccia
Pergolese. La sostiene, l’amplifica con un progresso che va sino allo sbocciare totale della tonalità, dei valori e dell’intensità sonora. E ci dà, inoltre, come una sensazione di gloria e d’apoteosi. Verdi ci porta, così, dall’esterno, quell’emozione, che Pergolese risvegliava raccoglieva nella parte più intima dello spirito nostro.

Più ricco di sostanza musicale dello Stabat è il Te Deum. Esso è anche più bello. L’intonazione liturgica vi crea un motivo centrale donde deriva e dipende l'insieme, la forza consueta di Verdi vi si prepara e vi si accumula a poco a poco. Una salmodia a mezza voce comincia col riunire, a mano, tutti gli elementi sonori: invita gli angeli, gli arcangeli, i cherubini, i serafini, tutti gli ordini, tutte le gerarchie celesti, a formare un innumerevole coro, donde sgorga un triplice e magnifico Sanctus. Vengono allora tenere effusioni, seguite da richiami, così unanimi alla misericordia, alla benedizione, che sono veramente l’espressione delle suppliche d’un popolo, d’una folla. La frase musicale s’allarga a mano a mano che s’innalza a preghiera comune, il ricorso universale. Quale che sia la maestà delle parole del testo: Salvum fac populum tuum. Benedic haereditati tuae.... la curva melodica è sempre abbastanza vasta per abbracciarle.

Ma il Te Deum non rende soltanto grazie, esso domanda anche grazia, alla fine; esso implora scongiura. Ed appunto la più bella parte dell’opera è la preghiera finale, prima piena di spavento, quindi di speranza: Dignare Domine.... «Degnatevi, o Signore, di conservarci senza peccato in questo giorno e abbiate pietà di noi.» Per impetrare questo favore supremo, le voci si riuniscono e si stringono insieme. Si fanno austere, e come oscure: sovra una nota bassa, lugubre e ritmica come di marcia funebre, esse pongono come un'antifona cupa. Come certi quadri dipinti, il quadro musicale è a vari piani. Ai gemiti di quaggiù lassù rispondono altri lamenti; e s’acquetano alla loro volta. Allora una voce, una sola ripiglia. Si direbbe la voce di una anima dimenticata, ma che non vuole la si dimentichi. In te Domine, in te, in te speravi. Tre volte, sulla stessa nota, con una forza crescente, questa voce getta la sua invocazione solitaria, che una tromba, isolata anch’essa, ripete e ancor più rafforza. E la voce umana e la voce di rame bastano per riunire ancora una volta le altre voci e strappar loro, a tutte insieme, il grido supremo di un’invincibile speranza.

Verdi scriveva un giorno nel 1892 ad Hans di Bülow:

«Voi siete felici, voi altri, di essere ancora i figli di Bach, laddove noi!... Eppure noi, figli di Palestrina, avemmo, un tempo, una grande scuola, che fu proprio nostra. Se potessimo ritornare ad essa!»

Vi ritornò egli stesso e con una mano, due volte pia, volle scrivere alcune pagine di musica sacra e di musica alla Palestrina. Dapprima una Ave Maria (testo latino) o piuttosto due Ave, poichè ripetuta a quattro parti vocali senza accompagnamento, come composta sovra una scala enigmatica. Quindi le Laudi alla Vergine, la preghiera di San Bernardo al principio dell’ul-