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186 | IL BUON CUORE |
Tutte le frasi del Requiem rivelano, attraverso il commento di C. Bellaigue, la natura ricca e spontanea del Cigno di Busseto. Il conferenziere sa ritrovare, talvolta, nelle pagine immortali, le tracce stesse dello stile religioso per eccellenza, lo stile gregoriano.
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Tredici anni dopo il Requiem, Verdi scriveva lo Stabat.
Inferiore al Requiem, lo Stabat è inferiore anche ad un altro Stabat, a quello di Pergolese. Per convincersene, basterebbe prendere in Pergolese ed in Verdi il terzetto finale:
Quando corpus morietur Fac ut anima donetur |
Più ricco di sostanza musicale dello Stabat è il Te Deum. Esso è anche più bello. L’intonazione liturgica vi crea un motivo centrale donde deriva e dipende l'insieme, la forza consueta di Verdi vi si prepara e vi si accumula a poco a poco. Una salmodia a mezza voce comincia col riunire, a mano, tutti gli elementi sonori: invita gli angeli, gli arcangeli, i cherubini, i serafini, tutti gli ordini, tutte le gerarchie celesti, a formare un innumerevole coro, donde sgorga un triplice e magnifico Sanctus. Vengono allora tenere effusioni, seguite da richiami, così unanimi alla misericordia, alla benedizione, che sono veramente l’espressione delle suppliche d’un popolo, d’una folla. La frase musicale s’allarga a mano a mano che s’innalza a preghiera comune, il ricorso universale. Quale che sia la maestà delle parole del testo: Salvum fac populum tuum. Benedic haereditati tuae.... la curva melodica è sempre abbastanza vasta per abbracciarle.
Ma il Te Deum non rende soltanto grazie, esso domanda anche grazia, alla fine; esso implora scongiura. Ed appunto la più bella parte dell’opera è la preghiera finale, prima piena di spavento, quindi di speranza: Dignare Domine.... «Degnatevi, o Signore, di conservarci senza peccato in questo giorno e abbiate pietà di noi.» Per impetrare questo favore supremo, le voci si riuniscono e si stringono insieme. Si fanno austere, e come oscure: sovra una nota bassa, lugubre e ritmica come di marcia funebre, esse pongono come un'antifona cupa. Come certi quadri dipinti, il quadro musicale è a vari piani. Ai gemiti di quaggiù lassù rispondono altri lamenti; e s’acquetano alla loro volta. Allora una voce, una sola ripiglia. Si direbbe la voce di una anima dimenticata, ma che non vuole la si dimentichi. In te Domine, in te, in te speravi. Tre volte, sulla stessa nota, con una forza crescente, questa voce getta la sua invocazione solitaria, che una tromba, isolata anch’essa, ripete e ancor più rafforza. E la voce umana e la voce di rame bastano per riunire ancora una volta le altre voci e strappar loro, a tutte insieme, il grido supremo di un’invincibile speranza.
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Verdi scriveva un giorno nel 1892 ad Hans di Bülow:
«Voi siete felici, voi altri, di essere ancora i figli di Bach, laddove noi!... Eppure noi, figli di Palestrina, avemmo, un tempo, una grande scuola, che fu proprio nostra. Se potessimo ritornare ad essa!»
Vi ritornò egli stesso e con una mano, due volte pia, volle scrivere alcune pagine di musica sacra e di musica alla Palestrina. Dapprima una Ave Maria (testo latino) o piuttosto due Ave, poichè ripetuta a quattro parti vocali senza accompagnamento, come composta sovra una scala enigmatica. Quindi le Laudi alla Vergine, la preghiera di San Bernardo al principio dell’ul-