Il buon cuore - Anno X, n. 22 - 27 maggio 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Religione Società Amici del bene

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UNA PRIMIZIA DEL “DON BOSCO„



Ci è data facoltà di pubblicare alcune fra le prime pagine del libro «Don Bosco» di Filippo Crispolti che uscirà fra giorni, edito dalla «S. A. I. D. Buona Stampa» di Torino. Il libro incomincia così:

L’8 dicembre 1841, un giovane prete, Don Giovanni Bosco, accoglieva nella sagrestia della chiesa di S. Francesco d’Assisi in Torino un ragazzo povero ed abbandonato, proponendo d’insegnargli tutte le feste un po’ di catechismo. Questi minimi inizi ebbe l’opera esteriore di lui.

Quali ne fossero gli sviluppi, si può vedere da una statistica compilata vent’anni dopo la sua morte, che avvenne il 31 gennaio 1888. Presso all’agonia egli aveva detto: «Si sarebbe potuto fare di più, ma lo faranno i miei figli.» Con ciò egli aveva adottato per suo anche quello che in suo nome si sarebbe fatto dopo di lui. Ed a ragione, poichè rare volte nella storia si è visto che i continuatori di un uomo abbiano serbato altrettanto forte ed amato il suo spirito: che siano stati obbedienti con altrettanta giocondità alle parole di lui vivente. Quindi tutte le istituzioni, che s’intitolano da D. Bosco oggi, si debbono a lui riportare, non solo perchè egli le fondò e le condusse a buon punto, ma perchè anche negli ulteriori accrescimenti egli le volle e le ispirò.

L’opera sua messa in cifre è dunque questa: In Italia i suoi sacerdoti conducono 32 ospizi di beneficenza per giovani studenti e artigiani, vere scuole professionali d’arti e mestieri, 29 collegi-convitti, 19 pensionati e scuole pubbliche con un complesso di 10,923 alunni; oltre a ciò 61 oratori festivi con 13530 giovani. All’estero, cioè nelle regioni civilizzate d’Europa, d’America, d’Asia, d’Africa, 72 istituti per educazione agricola o industriale con 5170 alunni: 106 collegi con 5888, 95 Esternati con 12819, 115 oratori festivi con 24883.

Nelle missioni pei selvaggi della Pampa, delle Patagonie, della Terra del Fuoco, di Medez e Qualaquiza nell’Equatore, del Matto Grosso nel Brasilepun migliaio circa di questi sacerdoti, coll’aiuto delle sue Suore di Maria Ausiliatrice, reggono parrocchie, chiese, collegi, ospedali, asili, osservatori, che in pochi anni hanno elevato alla luce nostra 80000 indigeni. Nei vari luoghi poi ove si estende l’emigrazione italiana sorgono case che fondate appositamente, o cumulando questo ufficio cogli altri, assistono circa 150.000 connazionali nostri nell’Argentina, 6o,000 nell’Uruguay, ioo,000 nel Brasile, 70,000 negli Stati Uniti dell’America del Nord, 35,00o in Europa.

Ciò, per dare un’idea della beneficenza di Don Bosco. Quanto all’attività per il culto, basti dire che da lui e dai suoi preti furono erette circa trecento chiese e cappelle nuove. Quanto alla sua attività per la cultura, basti Aggiungere che egli non contento d’aver scritto di sua mano volumi e volumi di storia civile ed ecclesiastica, di pietà, di svariatissimi ammaestramenti, sparse per il mondo ventiquattro scuole tipografiche, la maggior delle quali è a Torino con dodici macchine sempre in moto; scuole da cui escono opere di liturgia, teologia, oratoria e soprattutto libri scolastici e letture per la gioventù ed il popolo. Ed egli lo fece, senza che i milioni assorbiti allora e di continuo da questa opera immane, siano provenuti e provengano da nessun patrimonio stabile, da nessuna rendita fissa. Il pensarci fu ed è rimesso alla Provvidenza.

Senonchè le cifre non possono dare che un lato dell’opera stessa. È necessario trarre dalla loro materialità ciò che contengono di valore spirituale.

Tanti numeri d’edifici, d’uomini, di monete significano pane, lavoro, dignità, sapere, fede, virtù dati ad una gioventù copiosissima, che non avrà il dolore di dover ripetere come un rimpianto ciò che a Don Bosco sacerdote novello dissero alcuni giovani carcerati:

«Se vi avessimo conosciuto prima, non saremmo qua dentro.»

Significano beneficio a selvaggi per farli diventare cristianamente civili, e ad emigrati cristiani e civili per salvarli dal pericolo di farsi in qualche modo selvaggi. [p. 172 modifica]Significano un’anonima ed umile e munificente prodigalità suscitata in cooperatori innumerevoli, sull’esempio di quei primissimi che, quando Don Bosco doveva vestirsi chierico, gli donarono chi il cappello, chi la veste, chi il pastrano, chi le calze o le maglie o le scarpe, un commutatore della ricchezza e un elevatore di essa.

Significano migliaia di suoi sacerdoti e di sue sorelle, che abbandonarono tutto per seguire lui; per dare al bene, da lui promesso agli uomini, la testimonianza delle loro vesti, dei loro voti, del loi o improbo lavoro e anche della loro vita. Poichè fra le opere sue vi è pur quella dell’assistenza dei lebbrosi in Colombia, cioè ad Agua de Dios, a Contratacion e a Cano de Loro. E chi si chiude in quei lazzaretti sa quale sorte gli può essere serbata: sa che probabilmente dovrà morirvi per lenta distruzione, oggetto di ribrezzo a sè ed agli altri, non meno degli assistiti.

Ora, non è opportuno conoscere bene addentro come visse ed agi un uomo capace di cose così straordinarie? Parrebbe a prima vista che l’aver a fare con un nostro contemporaneo, di cui avemmo sott’occhi la persona e le azioni, ce ne dia già notizie sufficienti; ma è un’illusione. Per lo più i contemporanei famosi non si conoscono se non dal giorno in cui la loro fama sorse, restando così nell’ombra quei loro primi anni, dai quali precisamente questa fama successiva trasse gran parte della sua ragione. Dippiù la gente che assiste allo svolgersi delle loro grandi opere pubbliche, abituandosi ora per ora ad un tale progresso, abbia pur esso del prodigioso, non ne prova quell’improvvisa meraviglia, che è stimolo a rendersi conto minuto dei fatti e degli uomini. Cosicchè avviene spesso che i personaggi meno ben conosciuti siano appunto quelli che ci passarono accanto.

Don Bosco ebbe una fortuna, o meglio l’ebbero coloro che un giorno avrebbero cercato notizie minute dell’esser suo. Si raccontò da sè stesso e fu raccontato da molti altri. Dirò anzi che intorno a lui si organizzò presto un sistema regolare di storia continua. Quindi è fra gli uomini famosi uno dei pochi di cui pochissima parte sia rimasta nell’ombra; uno dei pochi, che con tenue fatica possa venir ricordato tutt’in una volta ad un pubblico vasto. ............

La copia delle notizie certe che si hanno di lui è tanta che la difficoltà non sta nel raccogliere ma nello scegliere. Senonchè chi affronta una tal difficoltà ha il compenso di prevedere che qualunque sia la sua arte di scelta ne risulteranno sempre alcune cose immancabilmente utili o piacevoli.

Infatti, come nella musica sembra di tanto in tanto che le combinazioni delle note siano esaurite, e poi viene un genio a trarne armonie o melodie imprevedibili, così nelle industrie della carità sembra a volte che non ci sia più spazio ove abbiano campo d’insinuarsi i novatori, e vengono gli uomini, quali Don Bosco a mostrare coll’esempio che v’era spazio ancora che essi hanno potuto muoversi con singolare ampiezza e libertà. E chi contempla e ne resta ammirato, prova un grande conforto; poichè ne impara, che non vi sono età e condizioni pubbliche le quali possano rendere impossibile o superflua l’azione della santità; che essa appena si mostra sa trovare il luogo suo.

Nè minore è il conforto, se si osserva che variando i tempi questa santità non ha da essere fabbricata con ricette nuove, nè preparata con radicali riforme di quella religione di cui deve alimentarsi. Quando si vede Don Bosco, vissuto ai nostri giorni, in mezzo alla stessa inquietitudine spirituale donde nascono le tentazioni di tutto rinnegare o di tutto rinnovare; quando, dico, lo si vede trarre le sue attitudini ai tempi nuovi da una virtù che non si deriva da nessun tempo perchè è di tutti i secoli cristiani, allora si comprende che può bensì variare il terreno ove esercitarla, ma non ha bisogno, nè ragione nè diritto d’esser variata essa stessa, tanta ne è perpetua la fecondità e l’adattabilità.

E intanto si gode il meraviglioso spettacolo d’una vita tutta coerente dall’infanzia alla morte; che non è composta d’eroismi saltuari, come quella di gran parte degli eroici profani anche ammirabili, ma è un eroismo solo senza interruzioni che lo spezzino; senza vanaglorie che distraggano dalla meta lo sguardo dell’eroe per farlo indugiare in ozi di compiacenza sopra sè stesso; senza impacci di passioni che disperdano la sua attività in molteplici strade. Si gode il meraviglioso spettacolo d’una vita in cui una tale unità non sta soltanto nel dominio unico della virtù; ma nella armonia delle virtù più diverse e talvolta apparentemente opposte fra loro; le quali non sono raggiunte da una volontà che corra loro dietro una per una e poi le tenga serrate fra loro con agitazione scrupolosa e a fatica; ma sono colte tutte insieme, per un ardore di carità che tutte insieme le supera e le fonde, restando distinta, spontanea, e sopratutto amabile, l’indole dell’uomo che è fatto così loro suddito e loro padrone.

F. Crispolti.

L’ELOGIO DEGLI ALBERI

Un tempo gl’italiani amavano davvero, d’un amore vigile e profondo, i loro alberi che rendevano più magnifici i nostri paesaggi, e più ridenti le altitudini silenziose dei nostri monti, ma quest’amore parve, poi, spegnersi, un poco alla volta, nell’anima loro, sì che essi hanno potuto assistere, con impassibile e triste indifferenza, allo scomparire lento e inesorabile dei meravigliosi e rigogliosi boschi, che sino ad un’epoca non troppo remota, popolavano ogni angolo della nostra regione, rendendola ancor più bella e più pittoresca.

Sembra, ora, che quest’amore per gli alberi vada novellamente facendosi strada nello spirito italiano: e a far sì che una coscienza forestale risorga, al fine, e si affermi vigórosamente, il Touring pubblicava poco tempo fa una bella monografia illustrata da quadri e da fotografie. Questa interessante ed utile pubblicazione parve rispecchiare bellamente le intenzioni di quanti aspirano, oggi, a veder di nuovo le pendici dei nostri [p. 173 modifica]monti popolate di quei boschi che furono un giorno barbaramente distrutti, di quei boschi che potrebbero novellamente risorgere, ridando beltà a tanta parte del paese nostro, diventando larga inesauribile fonte di reddito e protezione indispensabile pel pubblico bene.

Anche uno scrittore nostro, che ha anima di poeta, oltre che essere uno scienziato valoroso, Antonino Anile, in un suo recente libro: Vigilie di arte e di scienza, dedicava tutto un capitolo ad esaltare gli alberi, notando come la nostra patria, se non avesse gran parte della sua colonna vertebrale apenninica completamente denudata, sarebbe dieci volte più produttiva, più ricca e più salubre di quel che non sia. Parla, lungamente, questo scienziato, dei benefici effetti delle foreste, apprendendo a chi lo ignora come gli alberi favoriscano il liquefarsi delle nevi, abbrevino la durata dell’inverno e diminuiscano il pericolo delle innondazioni. Io non istarò qui, o lettori, a ripetervi tutti i grandi, innumerevoli vantaggi, e dirvi come il rimboschimento delle nostre montagne brulle dovrebbe essere, cotte lo è nelle altre regioni, una delle nostre più grandi e continue preoccupazioni. A me che delle foreste adio imaginare di più la verde intensa poesia, l’intermittente ombra, la voce ampia e stormente, piace ripetervi dell’Anile questa pagina, ch’è il più bello e poetico e imaginoso elogio degli alberi.

«Anche senza sapere con qual segreto ritmo pulsino le linfe sotto la dura cortice, l’albero, nel semplice suo aspetto, è una di quelle meraviglie vegetali che la natura offre alla gioia dei nostri sensi. Mentre il primaverile sorriso, chiusosi sui rosei mandorli, indugia ancora sulle cime tremule dei peschi biancofioriti, non parrà strano ch’io distolga per poco l’attenzione delle quotidiane cure per dischiudere ai lettori l’orizzonte verde rigato di file d’alberi tanto più alti nel cielo per quanto più profonde le oscure radici s’immergono nella terra. Per questa doppia espansione l’albero raffigura l’ansia dell’alto che è tanto più viva per quanto più dolora la nostra anima.

«L’albero e l’uomo sono le due meraviglie della vita. Un albero adolescente è come un bambino; e quando si veste di sole e mette le prime foglie ed apre le prime gemme floreali, diffonde attorno l’istessa dolcezza che viene agli occhi infantili lucidi tra i petali rosei delle palpebre. Poi, l’albero si rafforza, espande i suoi rami, si riveste di un’ampia capigliatura e mormora le prime parole e freme e canta nei venti con voci sinfoniche che Beethoven amava sentire correndo per le patrie foreste. E notando poco dopo che le nazioni più ricche sono quelle che conservano nel proprio seno tracce di foreste antiche ed espandono al sole l’ampio onduleggiare di chiomate foreste nuove, l’Anile ricorda che la parola più alata di Cristo fu detta nel sermone della montagna, tra gli alberi.

Il pino è uno di quegli alberi che adunano in sè una grande bellezza ed una intima e pur possente poesia. Per questo lo amo e lo prediligo fra tutti, nella famiglia arborea. Il pino è un albero schiettamente italico, non solo, ma direi quasi campano. In poche regioni d’Italia esso è così frequente come fra noi. Circonda e fa da vigile scolta alle case ed alle ville, ammicca lungo le pendici dei monti e dei colli, fiancheggia le infinite vie campestri, costeggia le prode erbose dei fiumi, corona i laghi, si svolge in lunghe file mormoranti lungo il risonante mare. Ed i pineti danno agli occhi ed all’anima una delle poche visioni che la sollevino davvero nel cerchio d’una poesia nobile e soggiogante: dai pini di Ravenna che formano la divina foresta dantesca celebrata nel Purgatorio, a quelli che in Roma augusta circondano le ville sontuose e si sollevano alti nei parchi pieni di marmi e di memorie, dai pini cari a Gabriele d’Annunzio che sorgono alla foce della Pescara e alla marna di Pisa dinanzi all’Adriatico, sino a quelli che a Napoli si slanciano nel loro gagliardo ed esile tronco dalle colline dei Camaldoli, di San Martino, di Capodimonte, dai pini del Vesuvio, meravigliosamente descritti da Matilde Serao, a quelli giganteschi di villa Patrizi, quest’albero maestoso prediletto da Virgilio latino che lo disse acta ad sidera, rivela quasi un’anima a colui che giunge a comprenderne l’intima e possente bellezza. E non vi sembri strano, o lettori, quel ch’io dico: il pino ha un’anima. Quale fremito occulto, intenso, vibrante, par che circoli nelle fibre di quel tronco annoso che, pieno di un musicale ritmo, si solleva da terra, agile ed alto verso il cielo, come preso da un desiderio possente di salire, di ascendere, di slanciarsi incontro all’infinito azzurro! E poi che ha superato tutte le cose che lo circondano, gli alberi o le case, ed è già nel dominio dell’aria, quel tronco solitario spiega mille braccià al cielo, come per stringerlo tutto nel suo vasto amplesso, come per berne tutta la dolcezza diffusa, come per dire ad essa un’ascosa parola che gli uomini non debbono ascoltare, come per carpire al tramonto gli ultimi aneliti della luce, e sentire gli ultimi voli e gli ultimi trilli! Ma quegli aerei rami, profumati d’incenso, che ospitano le cicale ebbre di canto e dispiegano ai venti ed ai voli la loro chioma un po’ grigia, e quel tronco che ordinariamente si slancia così dritto e maestoso verso l’alto, sono, talvolta, contorti e disuguali. Allora la linea che negli Atri pini noi vediamo elevarsi con tanta musicale armonia e tanta nobile purezza, par qui che perda il suo ritmo consueto e voglia rivelarci, invece, lo sforzo di un’anima che vorrebbe ascendere, più libera e più dritta, verso l’alto, e che, invece, malamente rinchiusa in quei rami e in quel tronco, invano tenta slanciarsi al cielo....

Scrivendo, la mia mente è invasa dalle mirabili visioni mirate in Campania Felice: pini sottili ed arditi che aprono la loro chioma all’azzurro; fughe di pini che par s’inseguino e s’abbraccino, poi, in un senso di amore: pini solitari e contorti, o ricoperti d’un foltissimo manto di edera fedele.... Di queste innumerevoli visioni ricorderò ai miei lettori soltanto due. Una è quella di alcuni pini esistenti nel real bosco di Capodimonte ed è stata così descritta — assai meglio di quei ch’io possa fare — da Angelo Conti: a «C’è un prato fra gli altri, nel quale vivono ancora due pini, [p. 174 modifica]di cui le edere hanno teneramente soffocato lo sviluppo e trasformato l’aspetto. Il tronco è interamente nascosto dall’enorme sviluppo delle erbe parassite: i rami, due o tre rami soli, che hanno potuto aprirsi un varco nell’intrico dell’edera vittoriosa, sembrano contorcersi in alto, in attitudine quasi umana, simile a quella di Laocoonte che si divincola invano fra i serpenti....» E del solenne albero italico ricorderò anche una foltissima selva che esiste a mezz’ora da Napoli ed è poco conosciuta, ma addirittura stupenda.... Questo pineto costeggia, un cento metri lungi da Calvizzano, piccolo paese bianco a nord di Capodimonte, un alveo deserto di acque, ma tutto giulivo di verde. Sono snelli ed alti pini che svettano, in una fuga celere ed infinita, sino all’estremo limite dell’orizzonte. Io ho spesso indugiato a mirare il bellissimo spettacolo di questo lungo e folto pineto che versa sull’anima un rallegrante senso di forza, di poesia e di bellezza. E non esagero dicendo che il tramonto calante dietro l’alta cortina di questi alberi dona all’anima una consolazione intensa.... Tutti gli spiriti avidi di una visione che li sollevi anche per poco dal pelago delle volgarità quotidiane, potranno trovare in questo spettacolo magnifico una nuova, e forse, insospettata fonte di serenità e di delizia. E sentiranno anch’essi, come io ho sentito che, insieme alle linfe vitali, qualcosa di nobile e di austero ascende, in quei pini, lungo i tronchi arditi, verso il cielo di cobalto. E il ritmo di cui palpita quell’ascesa, cullerà la loro anima in un senso nuovo di gioia e di poesia.

Alberto Cappelletti.

ECHI E LETTURE

Se le nostre ben composte righe di stampa parlassero! che strana e varia poesia degli occhi sulle pagine di un giornale moderno! E quanta serenità arguta e piacente negli occhi che leggono... gli Echi e letture che giorno per giorno andiamo raccogliendo! E che colori! L’armonia dello sguardo sta nel colore. Gli occhi presentano delle caratteristiche, che allo sguardo di uno studioso possono dare un perfetto ritratto morale della persona a cui appartengono. Il primo problema su cui si sono fermati i.... competenti, è stato quello dell’ereditarietà del colOre della pupilla, secondo la nota legge del Mendel. Lo scienziato A. Droz ed i coniugi Davemport han confortato con esperienze numerose la legge emessa dal Mendel, ed in base alle loro esperienze positive, noi sappiamo oggi che l’occhio bruno rappresenta un carattere dominatore e, quindi, è trasmissibile, mentre, al contrario, l’occhio azzurro rappresenta un carattere destinato ad essere sottomesso, e, quindi non è trasmissibile. Dal colore degli occhi dei genitori si può conoscere decisamente il colore degli occhi che avranno i figli. Se gli occhi dei genitori saranno di colore diverso, quelli dei figlioii assumeranno, per atavismo, la tinta degli occhi dei nonni. Certo esistono delle leggi che determinano dal colore degli occhi la natura di un carattere. Secondo esse, gli occhi neri, profondi e ben incavati indicano un temperamento passionale ed ardente, nonchè energia, dominio ed ambizione.... Il nero è il colore del terribile. Gli occhi neri in un viso bianco rappresentano la tempesta nell’aurora; in un viso pallido la notte nel crepuscolo; in un viso bruno la fiamma che si sviluppa da una pira. Lo dice la Voce del cuore che.... non sbaglia.

L’ESPOSIZIONE TRAGICA

Le polemiche che fervono in Francia pro e contro l’idea d’una nuova esposizione universale a Parigi per il 1920, han rimesso negli spiriti il ricordo della più splendida e della più drammatica insieme delle mostre gigantesche, in cui si dettero convegno tutti gli sforzi dell’ingegno umano, l’esposizione di Parigi del 1867. Il ricordo della grande antenata sarà forse dissonante tra gli echi delle feste inaugurali dell’Esposizione romana?

La storia semplice assume qui il colore ed il fremito dell’antica tragedia.... Sentite!

I discorsi dei vecchi francesi sono così tristi nel loro tessuto antonomastico! Se l’anno 1870 è per essi l’année terrible, il 1867 è l'«anno dell’esposizione». Prima di quella che precluse in modo così melanconico agli orrori della Débacle, a Londra ed a Parigi stessa, tre esposizioni universali erano state organizzate. Quella del 1867 le eclissò tutte per un doppio motivo: per lo sfarzo di una magnificenza mai vista prima, pel soffio violento d’una febbre d’irrequietudine, che fu sul punto di spazzare e sperdere ogni cosa.

Era sorta come una città incantata su quell’immenso Campo di Marte, ricco dei ricordi gloriosi del primo impero; lambito per un lato dalla Senna e comunicante, dall’alto, per numerose vie con l'interno della capitale. Il comitato ordinatore, che aveva alla sua testa Federico Le Play, l’economista insigne della «Riforma sociale» lo aveva trasformato in un parco gigantesco, seminato di chioschi e di padiglioni pittoreschi, graziosi, fantastici. Nel mezzo sorgeva l’edifizio principale della Esposizione. Era un’immensa costruzione circolare d’un sol piano, che copriva da solo una estensione di sedici ettari. L’apparenza esterna era poco elegante, ma quanti tesori ingegnosi all’interno! Ognuna delle mille zone concentriche era consacrata ad una delle grandi classificazioni dell’industria. E le vie disposte a raggiera, separavano tra loro le mostre dei diversi popoli. Prima di giungervi si sostava attirati dalle costruzioni, dalle seduzioni più capricciose: fari, teatri, serragli, templi egiziani, portici greci, pagode cinesi, cottages inglesi, villaggi olandesi, isbahs russi, capanne svedesi. Predominava l’Oriente con le sue moschee, i suoi caffè, i bazars, e una serie infinita d’imitazioni bizantine. In un punto era messo un accampamento di Arabi, in un altro, una tribù cosacca coi suoi cavalli, poi Messicani, [p. 175 modifica]Tunisini, Cinesi, Egiziani e Turchi.... In altri chioschi s’era raccolta tutta la varietà dei mercanti di piacere di Parigi! il più straordinario campo di fiera, che mai abbia visto il mondo. Ed in mezzo alla folla delle avventuriere, travestite in spagnole, bavaresi, olandesi, sgusciava la silhouette del pastore che distribuiva bibbie, del fakiro incantatore del muezzin, del bonzo. Sola, come un oasi, dove si raccoglieva di preferenza la folla infantile, un giardino d’Armida, sorto in riva alla Senna, offriva nel topore delle serre tutti i sorrisi di Flora, e nei bacini iridati, tra i boschetti artificiali, e nelle gabbie gigantesche, le meraviglie della popolazione acquea ed alata.

Quanti biasimi non sollevò contro gli ordinatori l’incanto vario di quel vestibolo incantatore. I biasimi eran fondati sul fatto che una gran parte dei visitatori s’arrestavan là senza varcare le soglie dell’edilizio centrale, dove l’Esposizione aveva la sua vera sede. Ma lo spettacolo anche lì dentro era fatto per compensare i più tenaci. Lungo un settore splendeva l’arte dei cristalli di tutti i paesi. Milioni e milioni di valori s’ani mucchiavano nella sezione scintillante dei diamanti. E di qua e di là, per le lunghe sale, s’allineavano gli sforzi umani verso le nuove scoperte, le nuove applicazioni industriali. Accanto agli antichi apparecchi a vapore, si mostravano le macchine docili e due nuovi agenti motori: il gas e l’aria compressa. Un nuovo metallo, leggero e resistente, purificato e bianco come l’argento, minacciava di sostituirlo; l’alluminio, e nuova anch’esso o quasi, nella sezione dedicata alla chimica, appariva una sostanza, destinata ad inaugurare tutta una nuova terapia umana: l’acido fenico.

Nel riparto delle arti del vestito, trovava il suo riflesso una lotta che si combatteva in quegli anni sul mercato del mondo, la lotta atletica tra l’industria del cotone e quella della seta da un lato, e l’industria della lana che tendeva già a sostituire da per tutto, i suoi propri tessuti. E là accanto anche si apriva una sezione, verso la quale andavano gli sguardi delle anime preoccupate dalle vergini dell’accentramento industriale, una sezione, dove si mostravano i prodotti dell’industria familiare, svolgentesi accanto al focolare domestico, sotto il tetto di paglia, nell’isolamento puro del borgo e della capanna: merletti venuti di Fiandra o dall’Alvernia o dalla Normandia, ricami di San Gall o d’Appenzell... Ed i sociologi, che non prevedevano allora lo strazio delle lagrime ignote» che doveva far condannare il lavoro a domicilio quarant’anni più tardi, si chiedevano allora pietosi: Quanto tempo ancora Vago muliebre e l’umile telaio a mano potran lottare contro la macchina dominatrice?

Certe sale mostravano già la tendenza che porta le democrazie ad attingere nell’antico tutto ciò che possa rendere venerabili le cose nuove. Gli artisti del legno, i decoratori, i tappezzieri esponevano, infatti, il risultato di mille sforzi convergenti, diretti a riprodurre i tipi del Medio Evo e della Rinascita cosi nei soggetti, come nei disegni e nei colori. La mania dello stile Luigi XV cominciava allora; e quella del gotico assumeva una nuova voga. E tra la mobilia nuova di forma, le sedie e le poltrone a sdraio scandalizzavano le nobili matrone....

Intento a circondarsi di un’aureola di amico delle classi operaie, il secondo impero non aveva disdegnato di offrire un largo spazio ai mestieri modesti, ai fabbricanti di oggetti a buon mercato, nè di far posto, come in una apoteosi, ai documenti cronologici della storia del lavoro. Ma, accanto ad essa, accanto alla sezione delle belle arti, ove dominava, capolavoro unico — tra la mediocrità francese — il Napoleone morente dell’italiano Vincenzo Vela, tra la riproduzione dei prodotti esotici, e le gallerie dei monumenti d’oltre Alpe e d’oltre mare, una sezione risaltava come un incubo: quella degli istrumenti da guerra. La Francia vi aveva esposti le sue tende, i suoi forni di campagna, i pezzi tipici della sua artiglieria; ma vicino a lei la Prussia mostrava i suoi ordigni nuovi, ed un cannone mostruoso attirava, come una sfida, gli sguardi della folla errante, un cannone uscito dalle officine Krupp di Essen, un cannone prussiano....

(Continua).

Domenico Russo.

LA CUTRETTOLA



ANDREA THEURIET



Cinto di verdi giunchi e di mente,
Il mulin gira, destando lente
Note, a fior d’acqua.
De’ scolatoj l’eco risponde,
Che lì han lasciato, presso alle sponde,
Le lavandaje.
Madamigella cutrettoletta
Mira la vaga sua gorgieretta
Nell’acqua limpida,
E, in alto e in basso, senza mai posa
Agita e svolge la flessuosa
Coda per l’aria;
Sicché, a vederla sì ardita e bella,
Par che un maestro sia di cappella,
In cotta e tunica,
E del mulino guidi e governi
Le assidue voci e i moti alterni
Dei bassi trespoli.
Co’ suoi bei gesti indifferenti
D’affascinarvi par che si attenti,
E già vi ammalia.
Dalla riviera verso l’amena
Landa la gaia fata vi mena,
E da voi partesi.
Corre e svolazza sulla sottile
Sabbia, e s’invola quindi, simile
Al desiderio,
Che sempre sempre a noi precede
E da noi fugge, quando si crede

Poter raggiungerlo.

Pietro Caliari.