Il buon cuore - Anno IX, n. 45 - 5 novembre 1910/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 45 - 5 novembre 1910 Religione

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La morte di E. Dunant

IL FONDATORE DELLA «CROCE ROSSA»



La sera del 24 giugno 1859, quando il fragore delle cannonate e lo strepito della fucilleria si spensero, mentre l’ombra avvolgeva le colline insanguinate di San Martino e di Solferino, un giovane turista ginevrino, che sorpreso dalla battaglia era rimasto tutto il giorno nelle vicinanze di Solferino, assistendo con l’animo sconvolto dall’orrore e dalla pietà alla spaventosa carneficina svoltasi intorno alla «Spia d’Italia», ridiscese solo soletto verso Castiglione. Nel silenzio solenne dei campi gemiti acuti, voci angosciate, imploranti la pietà d’un sorso d’acqua, si levano dai petti di migliaia di feriti invisibili abbandonati tra i solchi, dietro le siepi, nei fossi, dove erano caduti. Le scarse ambulanze militari non potevano bastare all’opera immane di raccogliere, visitare, medicare, operare circa trentamila feriti sparsi da San Martino a Guidizzolo. Era d’altronde la sorte comune dei feriti di quei tempi. Medici e infermieri militari, non protetti da alcuna legge di guerra e trattati da belligeranti al pari dei feriti, si spingevano innanzi sotto il fuoco nemico a raccogliere i caduti della lor parte, rischiando ad ogni momento la vita. Nè i luoghi dove si raccoglievano i feriti erano meglio salvaguardati; ogni nazione aveva bensì una bandiera particolare per designare gli ospedali e le ambulanze, ma nessuno era tenuto a conoscerla e a rispettare una legge d’umanità che non era affatto obbligatoria. E medici e infermieri potevano essere massacrati e tratti prigionieri come nemici presi con l’armi in mano.


I FERITI DI SOLFERINO.

A tutto questo pensava Enrico Dunant — del quale è stata annunziata ora la morte avvenuta a Heiden sul lago di Costanza — mentre scendeva da Solferino a Castiglione la notte del 24 giugno 1859. Fin dall’adolescenza Enrico Dunant s’era occupato di opere caritatevoli. Nato a Ginevra l’8 maggio 1828, discendente da una famiglia che aveva dati molti probi magistrati alla vecchia repubblica ginevrina, nipote del fisico Daniele Colladon — noto per i suoi studi sulla trasmissione del suono nell’acqua e per l’impiego dell’aria compressa nel traforo delle montagne — Enrico Dunant aveva ricevuto dalla madre, donna nobilissima e intelligentissima, insieme con una accurata educazione letteraria, certi principî di generosità e di bontà che dovevano rimanere indelebili nell’animo suo. D’animo generoso e cavalleresco, entusiasta delle idee umanitarie contenute nel Vangelo, egli aveva già fatta propria la causa dei miseri e degli oppressi. Aveva già pubblicato uno studio sugli schiavi nei paesi musulmani e negli Stati Uniti d’America, i vinti della pace, e s’era fatto fervido campione del pacifismo e della fratellanza universale, quando si trovò per caso — come dicemmo — ad essere testimone oculare della battaglia di Solferino, una delle più sanguinose che la storia moderna ricordi.

L’impressione d’orrore provata durante i combattimenti e nella notte, si rinnovò terribile l’indomani. Dovunque cadaveri, dovunque feriti orribilmente straziati dai proiettili, dalle baionette, stritolati dai cannoni spinti a corsa pazza attraverso ai campi, calpestati dai cavalli. Gli infermieri militari aiutati dai contadini trasportavano i feriti nei villaggi e nei borghi più vicini: Carpenedolo, Castel Goffredo, Medole, Guidizzolo ne riboccavano. A Castiglione era addirittura un inferno; migliaia di feriti s’erano trascinati a piedi a Castiglione o v’erano stati portati dal campo di battaglia con le barelle, coi muli, con le scarse vetture disponibili. L’ingombro era enorme; i feriti s’ammucchiavano dappertutto su strati sottili di paglia nelle Chiese, nelle scuole, nelle case e il personale sanitario mancava.


«LE MONSIEUR BLANC».

Quasi tutti i medici erano dovuti partire per Cavriana, gli infermieri scarseggiavano: i bravi abitanti di [p. 354 modifica] Castiglione avevano dato a piene mani tutto quello che avevano per i feriti: coperte, biancheria, materassi, pagliericci, bende e medicinali in abbondanza, ma i feriti morivano di sete e di fame e avevano ancora le piaghe aperte e scoperte. Non v’era chi provvedesse a nutrirli, a medicarli. Enrico Dunant, aiutato da poche donne di Castiglione, organizzò i soccorsi. Infaticabile egli percorreva le lunghe corsie tra le file dei feriti, medicando piaghe, distribuendo soccorsi e conforti ai francesi, agli italiani, agli austriaci, agli algerini. — Tutti fratelli! — dicevano le donne di Castiglione che soccorrevano con lui i feriti — e i piccoli soldati francesi trovarono subito il nome giusto per quel fratello di carità che si sacrificava per loro: le monsieur blanc. Enrico Dunant, vestito del suo abito bianco da tourista che sembrava anch’esso un simbolo di bontà, rimase così vari giorni ad assistere i feriti e gli agonizzanti; poi, quando gli parve d’aver messo un po’ d’ordine in quella bolgia, si recò a Borghetto da Mac-Mahon. Gli espose le orribili condizioni in cui si trovavano i feriti e gli chiese il permesso d’impiegare i medici austriaci rimasti prigionieri. Mac-Mahon lo mandò da Napoleone III a Cavriana. L’Imperatore accolse favorevolmente la domanda del filantropo ginevrino e il I luglio prese la seguente decisione, subito comunicata all’esercito:

«I medici e i chirurghi dell’esercito austriaco fatti prigionieri mentre medicavano i feriti saranno messi in libertà senza condizioni qualora lo domandino. Quelli che hanno prestato le loro cure ai feriti della battaglia di Solferino, raccolti nelle ambulanze di Castiglione, sono autorizzati a ritornare in Austria per i primi».

Era un primo, piccolo passo verso la neutralità dei feriti, delle ambulanze e del personale sanitario: il sogno che Dunant agitava nell’alacre mente dal giorno della battaglia.

LE DAME MILANESI.


Tornato a Castiglione, Durant scrisse alla contessa De Gasparin, pregandola di formar subito un Comitato di soccorso a Ginevra. Pochi giorni dopo fu a Milano e nel salotto della contessa Verri, ma Borromeo per nascita, alla presenza di molte dame della nobiltà milanese, tra le quali la contessa Giulia Taverna — zia del generale conte Taverna poi presidente della Croce Rossa italiana — e le signore Boselli, Sala-Taverna e Uboldi de’ Capei esponeva la sua idea di un «labaro o segno distintivo o sacro, salvaguardia dei medici e garanzia di una specie di tregua di Dio», grazie al quale i feriti in guerra sarebbero stati rispettati, raccolti e curati senza pericolo. Quelle dame ed altre ancora portanti i più bei nomi di Lombardia passarono dei mesi intieri al capezzale dei feriti. Le signore Taverna e Verri-Borromeo, rimasero in corrispondenza col Dunant, e si adoprarono, seguendo i suoi consigli, a fondare un Comitato italiano permanente per soccorrere i feriti in guerra.

Certo il simpatico appoggio delle dame milanesi fu per Dunant un primo incoraggiamento a perseguire il suo grande ideale.

Da Milano, E. Dunant tornò a Ginevra dove scrisse

quel suo terribile libro, ormai tradotto in tutte le lingue, Un souvenir de Solferino che faceva fremere tutta l’Europa rivelando con poche pagine spaventosamente vere gli orrori del campo di battaglia. Victor Hugo gli scriveva: «Voi amate l’umanità e servite la libertà. Applaudo ai vostri nobili sforzi». E i Goncourt scrivevano nel loro giornale: «E’ un sublime che tocca le più intime fibre. E’ più bello, mille volte più bello di Omero, della ritirata dei diecimila, di tutto. Solo alcune pagine della ritirata di Russia possono reggere al paragone.... Si finisce questo libro lanciando una maledizione alla guerra».

Era quello che voleva Dunant. Commossa la pubblica opinione europea, egli svolse l’idea umanitaria che aveva inspirato il «Souvenir» in molti articoli di giornale e in vari opuscoli, nei quali propugnava la creazione in tutti gli Stati di Comitati permanenti per soccorrere i feriti in guerra, l’alleanza internazionale di codesti Comitati e la neutralizzazione dei feriti, dei malati e del personale e del materiale delle ambulanze e degli ospedali.

La sua propaganda fruttificò: il 9 febbraio 1863, la Società ginevrina d’utilità pubblica formò una Commissione per studiare il problema praticamente; altri Congressi umanitarî se ne occuparono; il ministro della guerra prussiano von Roon, il fedele collaboratore di Moltke, accordò il suo appoggio a Dunant, il Re di Prussia gli promise d’aiutarlo. Napoleone III era già guadagnato alla causa della Croce Rossa.

LA CONVENZIONE DI GINEVRA.


Dal 26 al 29 ottobre 1863 son passati appunto 47 anni da allora — si riunì a Ginevra la prima Conferenza internazionale per il trattamento dei feriti in guerra, approvando il principio della formazione dei Comitati nazionali di soccorso e dell’invio degli infermieri volontarî, distinti da un bracciale bianco con la croce rossa, sui campi di battaglia. La conferenza formulava anche il voto della neutralizzazione degli ospedali, delle ambulanze, del personale sanitario e degli abitanti che soccorressero i feriti; e chiedeva inoltre l’adozione della bandiera bianca con la croce rossa come distintivo comune per i servizi di sanità di tutti gli eserciti.

E anche questi voti venivano realizzati dal successivo Congresso internazionale di Ginevra, che, sedendo dall’8 al 22 agosto 1864, approvava l’ormai famosa convenzione per la neutralità dei feriti, dei malati, del personale e del materiale sanitario in guerra.

La Croce Rossa era ormai un fatto compiuto.

Enrico Dunant dopo aver peregrinato per tutta Europa allo scopo di assicurare il trionfo della sua idea e di fondare i primi Comitati nazionali, ritenendo compiuta l’opera sua, si ritrasse in disparte e... fu dimenticato, come spesso avviene a chi persegue nobili ideali senza fini interessati, a chi dà l’opera sua non per sè, ma per gli altri. E per molti fu una sorpresa apprendere, nel 1901, che lo Storthing svedese aveva assegnato una metà del premio Nobel per la pace a un signore Enrico Dunant, che molti anni prima era stato semplicemente il fondatore della Croce Rossa.... [p. 355 modifica]

Indegna gazzarra attorno al corpo di un Santo


Siamo adunque nella fase più acuta d’una controversia che si trascinava da anni; più, il conflitto si è allargato fino ad invadere i giornali, le sagrestie, le canoniche, le case private, con quanto guadagno della serena dignità del dibattito, ognuno può immaginare solo da quel po’ po’ di passione campanilistica, di torbido, di indecente, di empio che se ne va dicendo in questi giorni.

Per onorare un Santo se ne bistrattano tre; vale a dire, i due in causa — S. Vittore e S. Satiro — e quel S. Carlo che, voluto far servire come autorità perentoria della causa, perchè pesce grosso, e magari per intrecciargli nella gloriosa corona una gemma di più, in occasione del III centenario della canonizzazione, ahimè! ne esce malconcio parecchio. La Basilica Ambrosiana non ha mai riconosciuto in S. Carlo — nei riguardi della questione di cui ci occupiamo — neppure la più lontana forza dimostrativa; e l’Autorità di Roma semplicemente non ne tenne mai conto in tanti anni di controversia. È il solito guadagno dell’intervenire per fas o per nefas in certi pasticci, dai quali, non solo i Santi, ma qualunque persona per bene dovrebbero tenersi lontani.

E per onorare un Santo — dobbiamo aggiungere — non si indietreggia da passi compromettenti: ad esempio, la ripugnanza a mettersi in rango, dopo che fu fatta conoscere abbastanza chiara la voce della disciplina; lo sfogo velenoso di malcelata stizza, ricorrendo alla compiacente prestazione di giornali non certo sagrestani. I quali giornali non diedero precisamente esatta l’istruzione superiore; poi, o devono essere stati vittime di abnesia o colpevoli di scortesia.

Hanno riferito per es. che la Commissione nominata qualche anno fa per risolvere la questione dell’ubicazione delle tombe di S. Vittore e S. Satiro, se nella Basilica Fausta inclusa ora nell’Ambrosiana, o piuttosto nella Prepositurale di S. Vittore, intraprese un lavoro condotto colla dovuta ponderatezza e senza preconcetti,.... e per concordi attestazioni diede ragione ai Sanvittoriani con un verdetto competente e spassionato.

Ora è a sapersi che nel 1860 un’altra Commissione, in cui figuravano Cornalia e Stoppani, fece un identico lavoro e venne anch’essa ad un verdetto — opposto però a quello della Commissione recente.

Leggendo il Rapporto Stoppani-Cornalia, si trova che quei galantuomini lavorarono anch’essi spassionatamente; e giudicando così a occhio e croce, e prescindendo del valore individuale di quei sommi scienziati, crediamo di trovarci innanzi ad un lavoro d’indagine condotto colla dovuta ponderatezza e senza preconcetti, e alla serenità d’un verdetto competente e spassionato forse un po’ più di quelli dell’ultima Commissione; però se non è odioso fare confronti.

Ebbene, quello che ci sorprende è il fatto che i giornali — taluni almeno — che pure devono conoscere Stoppani e Cornalia, e se li ebbero amici nei tempi dei tempi, non accennino a ricordare il loro lavoro del 1860, o ricordandolo, di trovarsi a disagio in causa della involontaria scortesia: forse premuti dall’adagio: Amicus Plato, amicus Cicero, sed magis amica Veritas?...

Ci sorprende anche più un altro fatto; quello di stizzirsi, fare la voce grossa, con una implicita patente di asinità a quanti non riconoscono la base granitica su cui è impostato il verdetto dell’ultima Commissione: i grandi studii fatti su autori e fonti del XVI secolo. Per noi questi studii, se non son proprio e soltanto dotte chiacchere, via, non sono niente convincenti. Non già solo adesso e perchè l’Autorità suprema mostri di non farne gran conto; ma anche prima che arrivasse questa inclusa affermazione.

Che cosa volete signori avversarii, quando non si ha senso critico, scientifico ecc. non si può essere di certe vedute come queste vostre. Piuttosto ci stupisce che voi che avete il monopolio del senso critico, scientifico ecc. e avete fatto studii così luminosi, non siate stati ascoltati. Un vostro articolista, quando scrive che il lavoro della Commissione ultima, in causa delle istruzioni del Vaticano è stato distrutto, ci sembra dica poco; dovea dire che quel lavoro fu considerato come un mucchio di cose inconcludenti.

Possiamo ben dire a chiunque desiderasse di conoscere la controversia non alla superficie, ma a fondo, di rivolgersi alla Commissione ultima per avere visione di quel Riassunto dei lavori tanto decantati: là troverebbero anzitutto che le conclusioni di taluni studii non hanno, a detta stessa del Riassuntore, nessuna forza dimostrativa in favore dei Sanvittoriani, e quindi manca la concorde attestazione. Là troveranno che il Riassuntore aggiusta un tantino il latino in bocca a quel messere che — forse coll’intento nobile di tentare vie nuove, forse per schivare luoghi comuni, e forse per non ripetere le baggianate di quel miserabile sognatore di Biraghi — ha creduto di poter asserire che il S. Vittore che figura nel mosaico della Basilichetta Fausta in S. Ambrogio, non è già S. Vittore, ma un Redentore. Geniale trovata che fece ridere anche i polli.

Nei lodati studii c’è la conclusione del lavoro anatomico — che il corpo di santo giacente nella Prepositurale di S. Vittore è proprio di S. Satiro per un certo segno nel teschio rispondente ad un segno che aveva il vero S. Satiro in vita. Noi non avremmo il coraggio civile di far tanto conto delle somiglianze. Guardate: la maschera di Voltaire somigliava stranamente al Beato Curato d’Ars; e quel fossile che nel 1908 è stato scoperto in Francia (V. The Month, aprile 1909) somigliava stranamente a Gambetta; stando alla somiglianza chissà che conclusioni si dovrebbero tirare da qui a qualche secolo, e che scambii, e che allegre confusioni!

Forse è stato un grande errore non pubblicare in esteso quei dotti lavori e sottoporli al giudizio del pubblico. Si sarebbe potuto avere un referendum e ritardare il colpo di grazia. — Ma del senno di poi son pien le fosse; ora è inutile il consiglio.

E allora che cosa dobbiamo ritenere? Quello, che è di certezza assoluta è che S. Satiro venne sepolto nel territorio della città di Milano; è moralmente certo che fu sepolto nella zona di città che attualmente coprono le [p. 356 modifica] Parrocchie di S. Vittore, S. Vincenzo in Prato, S. Lorenzo e S. Ambrogio. È una presunzione maggiore e più bene poggiata quella che S. Satiro sia stato sepolto vicino alla Basilica Ambrosiana per il fatto che i tre fratelli Marcellino, Ambrogio e Satiro protestarono di volersi tenere uniti in vita ed in morte. Ambrogio e Marcellino riposano nella Basilica Ambrosiana, e perchè non anche S. Satiro? Chi potrà essersi rifiutato di rispettare una così tenera e giusta protesta?

Venne un invito dall’alto perchè le due parti contendenti addivenissero a composizione amichevole, scambiandosi quelle reliquie di Santi per cui lottarono tanto; qualora in realtà non le abbiano ancora, e nell’ipotesi che le reliquie scambiate siano proprie le autentiche di S. Satiro e di S. Vittore, la grande controversia verrebbe accomodata un pochino. Ma, e l’onore?.... e l’amor proprio?

Ad ogni modo, qualunque possa essere la base su cui poggiava la nostra presunzione, noi oggi ci troviamo in una posizione senza confronto migliore di quella degli avversari:

a) Se non possedevamo il corpo di S. Satiro, colle istruzioni dell’Autorità suprema ne veniamo in possesso;
b) Se già lo possedevamo realmente, facciamo in più l’acquisto delle, reliquie preziosissime di un altro Santo;
c) E cedendo il corpo d’un altro dei nostri santi, se esso è quello di S. Vittore, noi ci prendiamo una soddisfazione di legittimo orgoglio, in quanto sostenemmo di avere anche le spoglie di quel martire celeberrimo; comunque facciamo un bel gesto di cortesia.
d) Col di più di una coscienza tranquilla; perchè quel po’ po’ di scandalo, di penosa impressione, di indecenze e di empietà suscitate dalla pubblicità di questi giorni, certo non fummo noi nè a volerlo nè a provocarlo. Però chissà se certi signori avranno scrupoli per certe inezie!....

***

SCELTA DELLO SPOSO


...Pensate un poco, o padri di famiglia,
Se cosi s’usa ancora al tempo nostro;
Io sento dir che se avete una figlia,
Volete maritarla a modo vostro,
E non guardate poi se le somiglia
Lo sposo, o s’egli è un asino, od un mostro;
Se uguali sien tra lor, se l’uno vada
Dell’altro a sangue, a ciò non vi si bada.


Sento dir che il marito a lei scegliete
Non colle sue, ma colle vostre mire;
Che il vostro genio consultar solete;
Se a voi lo sposo aggrada, io sento dire
Che il nodo é fatto; e pur voi non avete
Né da vegliar con lui, nè da dormire;
E non avete mica ad esser dui
In una carne, o genitor, con lui.


Sento dir che se trovasi uno sposo
Che si contenti d’una scarsa dote,
Allor si stringe il laccio doloroso
Che altri che morte sciogliere non puote;
Al più cercate che sia facoltoso,
Cercate quanto all’anno egli riscuote;
Quasi bastasse, a rendere contento
D’uno ragazza il cuor, l’oro e l’argento.


E voi sapete ben che ciò non basta,
E la mettete in un gran brutto imbroglio,
Mal se acconsente, e peggio se contrasta,
Chè vien sempre ad urtare in uno scoglio,
E talor si risolve a viver casta
Per disperazione e per cordoglio;
Si chiude in una cella, benché ne abbia
Poca voglia, ed uccel non sia di gabbia....


Vi son taluni che sotto pretesto
Di dar la figlia a un uomo di consiglio,
Colla speranza ch’abbia a morir presto

La danno ad un che ha già canuto il ciglio;

E per essa saria più sano e onesto
Il conservar di castitade il giglio,
Che il perdere, con lunga penitenza,
Di verginella il nome e l’apparenza.


Ed altri, per paura di macchiare
Il sangue che le scorre nelle vene,
Sprezzando ognuno ch’abbia del volgare
Danla ad uno che è nobile, o si tiene,
Ma che intanto non ha pan da mangiare,
E che fa magri pranzi e magre cene;
E di fumo la moglie poveraccia
Pascer si può, se non se ne procaccia.

N.B. — Questi versi sono presi dal poema Il Cicerone di Gian Carlo Passeroni, il buon abate milanese del secolo XVIII. Dello stesso poema è pure tratto lo squarcio che pubblicammo nell’ultimo numero col titolo Educazione dei figli.