Il buon cuore - Anno IX, n. 38 - 17 settembre 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 38 - 17 settembre 1910 Religione

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Le Feste caratteristiche di Cettigne


Riportiamo dal Corriere d’Italia, questa smagliante descrizione, uscita dalla penna di Giulio Seganti:

Il fragore di una magnifica cavalcata ha svegliato stamane la città festante. I cavalieri montenegrini dell’Erzegovina — la terra di dominio austriaco — son venuti sui piccoli cavalli, traversando valli e monti, affrontando ogni disagio, lasciando dietro di loro, nell’ animo del nuovo padrone, un sospetto; e tutto per salutare il «gospodar», per rivolgergli un augurio nella grande solennità, per riaffermargli le speranze che hanno in lui e per dimostrargli che il fatto storico di due anni addietro ha fatto rimanere adamantina la loro fede nel grande ideale panserbo che tutti li anima e che un giorno... chissà?

I cavalieri erzegovini, bianchi di polvere, neri di sole, madidi di sudore sotto le grevi vesti di lana grezza dicono tutto ciò, caracollando sui loro cavalli, sotto il balcone di Nicola che dall’alba li attende con ansia ed ascolta il loro messaggio. E il loro messaggio è semplice: è un canto, è un inno di guerra che intuonano a gran voce, solennemente, sguainando le sciabole mentre tutta la truppa saluta militarmente. Uno di loro, ad un tratto, si stacca dal gruppo, agita il berretto montenegrino e gli altri come per incanto, tacciono; è l’oratore incaricato dai compagni. Parla brevemente in serbo con un accento vibrato e con gesto solenne. Che cosa dice? Un vicino me lo spiega; sono parole pericolose che a un dipresso suonano così: «Signore — dicono al re — i tuoi figli che attendono la redenzione ti salutano e ti augurano vita, insieme a Milena tua signora e nostra, fino a che il sole tramonti per l’ultimo giorno; noi viviamo in pace nella nostra terra soggetta e in pace vi torneremo a vivere; ma quando tu lo voglia, o Nicola, ad un solo tuo cenno, le nostre armi son tue. Zivio, gospodar».

Ma Nicola che pure è un ottimo oratore e che quando parla non ha peli sulla lingua, questa volta ha capito il latino, o meglio il serbo degli irredenti suoi figli e con un sorriso e con un Fala! — Grazie — se l’è cavata abilmente.


Canti di guerra.

La folla intanto rigurgita per le vie larghe e assolate di Cettigne; non si circola più, non si può più entrare in un caffè. Quell’entusiasmo che non riuscivo a trovare i primi giorni è venuto finalmente ed esplode in mille manifestazioni strane, singolari, pittoresche. Da due giorni, da tutte le montagne del Montenegro, da tutta la Czernagora vengono Carovane di centinaia di uomini che entrano in città in corteo, vestiti degli abiti più belli e carichi delle armi più ricche ed antiche; e procedono alla testa di altissimi vessilli, cantando.

Son sempre canti di guerra e canti che ricordano tutta l’epopea recente e tutta la gloriosa liberazione del turco invasore. Ma non è un canto clamoroso che scuota e che abbia quella viva intonazione marziale che forse sarebbe nel nostro carattere. Il canto di guerra per il popolo montenegrino è cosa abituale, fiorita sul labbro fin dalla nascita; son le donne, le madri che ricordano — accudendo alle umili faccende domestiche — le glorie militari dei vecchi morti e degli sposi lontani «che son sulla cima dei monti per vedere se il nemico serpeggi fra gli sterpi della valle». E come noi, trattenendoci in un caffè, parliamo di politica o di letteratura, così questi montanari, assisi in gruppi di venti o trenta intorno ad un tavolo del cafana cantano; una parte di essi dice una strofa e l’altra risponde, dopo che un solista l’ha intonata. Ma cantano senza scomporsi, senza gridare con un tono quasi triste, lento, continuando a fumare tranquillamente l’eterna sigaretta e sorbendo lentamente la birra e il rachì. [p. 298 modifica] Sembra quasi che in questa nenia gli uomini si addormentino e camminar per le vie e udire d’ogni parte, da cento cafana rigurgitanti, lo stesso canto produce un’impressione strana. Forse questo popolo di guerrieri ricorda troppo le sue glorie militari e le dure battaglie combattute; e si riposa. E nel riposo, nella tregua oziosa, dimentica le nuove battaglie pacifiche che deve combattere per aggiungere ai magnifici ricordi del passato la gloria di nuove conquiste moderne, più civili e più utili e delle quali un popolo — sia pure minuscolo come il Montenegro — non può fare assolutamente a meno.


L’omaggio del popolo.

Ho assistito oggi, verso il mezzodi, mentre il sole maggiormente folgorava, ad uno sfilamento di autorità e di semplici cittadini, di soldati e di stranieri, di donne e di fanciulle dinanzi alla casa del nuovo re. Stamane, di buon’ora, Nicola con Milena, soli, senza i figli e senza il corteggio dei dignitari e del corpo diplomatico, già si erano recati nella piccola cappella rustica gettata là sul piano di Cettigne, sotto il monte, nella quale cinquanta anni addietro il forte soldato aveva impalmata la donna bellissima, cantata da poeti e immortalata, nei suoi quadri, da Cermak, il famoso pittore serbo; ed era riuscita una cerimonia semplice, toccante e tanto più caratteristica perchè in questo ambiente, ogni cosa gentile, nel contrasto di tanta forza maschia e rude, assume un maggior rilievo. Ma più tardi, dopo il rito d’amore e di pietà, re Nicola ha voluto vedere tutto il popolo accorso da ogni parte del suo regno per rendergli omaggio; il popolo è passato sotto il balcone urlando, gridando, tirando dei baci ai sovrani che sorridenti lo guardavano e dicendo ognuno una frase di saluto, un complimento e una esortazione al re a far sempre cose maggiori per la grandezza del Montenegro.

Sfilano i gruppi dei contadini e dei pecorari dalle ampie vesti villose; sfilano i cittadini di Podgoritza e di Niegosch negli abiti nazionali rossi e d’oro; sfilano gli albanesi del Montenegro, figure strane che nel quadro vivo di tutto questo immenso campionario di costumi orientali si distinguono per i loro corsetti scuri per le ampie vesti di tela bianca; sembrano tante ballerine che da un momento all’altro si debbano lanciare nel vortice di una danza. E agli albanesi seguono i turchi di Dulcigno e di Scutari con i fez e con i turbanti bianchi, dalle iridescenti vesti di seta e dalle armi d’argento finemente cesellate, cariche di pietre preziose.

Spicca tra gli altri un moro d’inverosimile altezza, meravigliosamente vestito, dalla faccia camusa, quasi bestiale. Domina il gruppo del suoi amici e lo guida. Appena giunto dinanzi al re dice: «Nicola, sono uno dei tuoi pochi sudditi neri; t’auguro che i tuoi domini si estendano fin nell’Africa, fin dove è la culla che mi generò. Affila bene le armi, o padre» E dette queste parole ha intonato un zivio formidabile, con una voce cavernosa alla quale ha fatto eco tutta la folla.

E la folla è continuata a passare. Sono circa quarantamila persone alloggiate in una città che ne contiene appena cinquemila. Passano altre tribù; gruppi di donne, dal petto ricoperto di perle e d’argento, fanciulli che urlano disperatamente, popes dalla lunga barba nera, dalla capigliatura cadente. Poi, finalmente, vengono i soldati.


I soldati della gloria.

Il re è sempre affacciato al balcone con a fianco Milena. Passano le prime compagnie dei fantaccini dalle rudi e un po’ brutte uniformi russe, e poi vengono i corpi speciali e poi le armi scelte ed in fine appare di lontano il gruppo dei veterani del 1860; quelli che erano sotto le armi quando Nicola salì al trono. Il ministro della guerra, Martinovich, ha voluto richiamarli a Cettigne per dare al quadro militare di questi giorni una magnifica pennellata di colore e per rievocare nell’anima del re i ricordi migliori e più gloriosi....

Poveri vecchi cadenti! Portano a stento il fascio delle armi dinanzi alla cintura e son carichi di medaglie — non di quelle lucide dell’odierna commemorazione — ma di vecchie medaglie annerite, di vecchi segni di gloria. Alcuni sono zoppicanti, altri camminano con l’aiuto del bastone, o appoggiati al braccio di giovani donne; ed hanno tutti lo sguardo vivo e lucido per l’emozione e per il ricordo. Uno di essi è cieco e brancola innanzi contro il chiarore del sole e sembra la figura sacra di un eroe tutelare; ha i capelli bianchissimi spioventi sulle spalle e due rosse cicatrici sulla fronte. Tutti lo guardano, gli toccano con la mano il lembo della zimarra verdastra e dicono parole di ammirazione.

Saranno cento fra tutti questi vecchi soldati e rappresentano tutta la storia militare del nuovo Stato oggi assurto alla dignità di regno. Il popolo, nella sua incoscienza, capisce tutto ciò ed un fremito percorre da un capo all’altro la piazza che è nera di folla fluttuante e rumoreggiante.

Ma Nicola è l’uomo della situazione e comprende che, in simile circostanza, con un niente, con un semplice gesto, del resto naturale e sincero, si possono moltiplicare le simpatie che già gode. Ed ecco che, ad un tratto il re si ritira dal balcone, scende rapidamente al pianterreno del palazzo e corre sulla via, in mezzo alla folla, verso il gruppo dei veterani. I poveri vecchi circondano il «gospodar» e lo abbracciano, lo baciano, piangendo, delirando d’entusiasmo e lo soffocano di nuovi abbracci e di nuovi baci, mentre tutta la fiumana del popolo che circonda, non urla più, non applaude ma singhiozza, ma piange di commozione — nella visione eroica di tutta la gloria del Montenegro — mentre di lontano una musica militare scandisce le note cadenti e tristi dell’inno che un vecchio poeta serbo cantò, per la prima volta, sui campi di battaglia e che poi divenne l’inno della nazione....


Il comizio di re Nicola.

Questa giornata di tripudio è interminabile. Occorre qualche minuto di sosta e mi allontano dalla «Dworska ùlitza» — la via del palazzo — per ritornarvi più tardi, dopo qualche ora.

Lo spettacolo è cambiato: niente più cortei, niente più discorsi; ma si balla. Si balla sotto le finestre del [p. 299 modifica] re, perchè egli veda la gioia dei figli, perchè goda del lieto spettacolo di tutta la nazione festante. Soldati e cittadini formano come un’immensa quadriglia che si restringe e si allarga sul cui ritmo s’intonano nuovi inni di guerra. La cosa dura a lungo e chissà quando avrebbe termine se a Nicola non venisse in mente d’interromperla. Il re, difatti, improvvisamente esce dal palazzo e tra gli evviva formidabili viene nel mezzo della piazza salutando tutti, sorridendo e stringendo la mano ai più vicini. Ad un tratto sale su di uno sgabello e arringa la folla.

Non è niente: re Nicola tiene un comizio, un grande comizio al quale prende parte tutto il popolo. La folla si pigia intorno all’oratore, si arrampica su per i muri, sale sugli abbaini delle case circostanti e poi si fa silenziosa.

Il re fa un lungo discorso; rileva il significato di questo avvenimento — ogni parola è seguita da un formidabile applauso — e poi dice: «Ma voi credete che tutto sia finito? E che l’opera nostra si esaurisca con questo caduco giorno di gloria? No, figli miei; bisogna continuare nell’aspra opera ed aver sempre nel cuore la spina della giornata di domani. Il Montenegro è piccolo nei suoi confini, ma è grande per il suo valore e voi dovete raddoppiare questo valore per raddoppiare la grandezza della patria».

Nicola — urla uno dalla folla con molta disinvoltura — dicci allora che dobbiamo fare.

E’ cosa semplicissima, o miei ragazzi — risponde il re. — Dovete essere buoni, onesti, laboriosi: dovete pregare Iddio acciocchè protegga il Montenegro e dovete essere fedeli alle vostre donne e dovete imparare da esse ad esser virtuosi come è virtuosa la Milena, mia signora, che ci guarda e ci ascolta.

E un formidabile urlo saluta la regina che è affacciata al balcone ad assistere al comizio tenuto dal suo augusto consorte. Il quale, dopo altre poche parole, si ritira nel palazzo.

Ma la gazzarra nella piazza — oramai è il tramonto — continua; gli uomini impugnano la sciabola sguainata e ballano una specie di saltarello accompagnandolo con urla quasi selvagge, mentre, tra la folla, alcuni montanari imitano lunghi nitriti di cavalli, belati di pecore ed emettono dei suoni gutturali interminabili, stranissimi.

Però comprenderete bene che questa storia non può durare in eterno. Siamo sotto le finestre del palazzo sovrano gremito di ospiti i quali da sei o sette ore si deliziano di questi spettacoli. Come si rimedia? Da noi una squadra di buoni poliziotti con dei sonori pugni risolverebbe la questione e sgombrerebbe la piazza. Qui, a Cettigne, niente di tutto questo: Nicola si affaccia di nuovo al balcone e dice: — «Ora basta, figliuoli; andate a vedere i fuochi sui monti». Un formidabile evviva e dopo due minuti la piazza è deserta.


«Balbanska tzaritza».

Ma i fuochi della montagna si accenderanno più tardi. Ho tutto il tempo di andare a vedere, se non a sentire, l’ultimo atto della ‘’Balbanska tzaritza‘’ l’imperatrice dei Balcani, — il grande poema drammatico di re Nicola che la compagnia croata di Zagabria recita da alcuni giorni nel piccolo teatro di Cettigne alla presenza del popolo entusiasta.

Io non starò a narrarvi la lunga e dolorosa istoria dei figli del principe Ivano. Un giorno me la son fatta spiegare, perchè tutti qui la cantano, ed ora sono come perseguitato dall’eterna e monotona nenia sul cui ritmo la leggenda si adagia mollemente e s’insinua nelle orecchie e nel cervello. Andate al bazar ed il vecchio rapsoda — lurido, dalle occhiaie vuote e chiuse — ve la canta, accompagnandola sulle vibrazioni dell’unica corda lamentosa della sua guzla; entrate nelle osterie e nei cafana e certamente troverete, in un angolo, un gruppo di sfaccendati che, canticchiando, la mormorano; vi avvicinate ad una abitazione privata e probabilmente ascolterete un coro di monelli e di donne che sempre sullo stesso motivo vi tesseranno nuovamente le lodi dell’eroina Danitza.

Francamente, con tutta la curiosità che poteva ispirarmi re Nicola autore drammatico e con tutto il desiderio di ascoltare una compagnia eccellente, per quanto croata, di abilissimi comici quale è quella di Zagabria, pure, non ho avuto il coraggio di sentire tutti e cinque gli atti del dramma regale; e mi son contentato delle ultime scene. Vi faccio, perciò, grazia del resto limitandomi a dirvi che sono avvenute cose deplorevolissime. Dei due figli di Ivano, uno, Giorgio, s’innamora di una straniera, la figlia di un doge di Venezia e il popolo, come è facile immaginare, non è molto lieto di questa unione; mentre molto si attende dal valore ardimentoso di Stanco — l’altro figlio d’Ivano — che ha sposata Danitza, l’imperatrice dei Balcani, la più bella fanciulla della Montagna Nera. Smonchè Stanco, avido di potere e desideroso di godimenti, di fasto e di libera vita, cede alle lusinghe dei turchi che in quel momento guerreggiavano con il Montenegro e tradisce la patria.

L’ultimo atto della a Balbanska tzaritza» rappresenta appunto la disperazione, il dolore e la vergogna della bella Danitza — l’immagine viva della patria montenegrina — quando apprende il tradimento dell’uomo perdutamente amato. E con tutto l’amore, l’odierà, lo perseguiterà e questo contrasto di amore e di odio scoppia feroce, in terribili invettive, quando l’eroina apprende che la patria diletta è stata sconfitta dal turco. Ma lo stesso Stanco è rimasto mortalmente ferito e s’incontra sul campo di battaglia con Danitza che soccorre tutti i feriti, ma si rifiuta di soccorrere lui. Scena drammaticissima: Danitza scioglie un ultimo ardente inno d’amore alla patria diletta e di esecrazione al traditore amante e scompare nelle acque gorgoglianti della Moratscia che la trascinano, lontano, verso il mare....

Io non vi so dire il delirio della folla dinanzi alla conclusione eroica del lavoro, nè vi so dire gli interminabili zivio! che salutano ogni frase più ardente e caratteristica che la bella Danitza (è impersonata da una meravigliosa attrice) pronunciava; solamente posso dirvi che la vecchia, la bella e fiera anima montenegrina, che oggi ci appare quasi assopita nella visione di un sogno lontano, palpita tutta e nuovamente dinanzi alla rievocazione delle sue glorie, dei suoi fasti [p. 300 modifica] guerreschi e delle espressioni migliori e più rappresentative del suo sentimento patriottico e nazionale. E re Nicola, toccando questa molla, animando di questi spiriti il suo poema e lanciando alle folle, nella semplice illusione di una finzione scenica, il potente grido del nazionalismo e del serbismo più vibrante non ha solo fatto opera d’arte, ma sopratutto opera di politica, di propaganda politica. E’ questa, del resto, che a lui preme; dell’arte, in fondo, se ne ride....


Cettigne coronata di fuoco.

E’ notte oramai. Tutta la folla, dopo lo spettacolo teatrale, a poco a poco, si riversa fuori dell’abitato, per i giardini e lungo la villa di Danilo. Saliamo su di una piccola altura e vediamo la città circondata dalla stretta corona di monti neri per l’oscurità e che tagliano nettamente la volta del cielo stellato. Ad un tratto, però, udiamo una fortissima detonazione e vediamo d’improvviso un grande incendio ardere intorno a Cettigne. Come per incanto su tutte le cime dei monti ardono migliaia e migliaia di fiaccole che spandono nella valle un chiarore vivissimo e che delineano, verso il cielo, la linea frastagliata delle cime inuguali.

E’ uno spettacolo meraviglioso, fantastico; non ricordo di aver mai visto qualcosa di simile. Quest’idea, di dar luce, nella notte, a tutta la Czernagora è grandiosa. Sembra quasi che una corona di fuoco, una immensa corona ardente si posi sulla città del nuovo regno per circondarlo di gloria e sembra quasi che questa gloria trovi un altro simbolo nelle immense sigle reali, pure luminose, che sono state incendiate sulla costa del monte.

Il popolo montenegrino folleggia pazzamente in questa notte di gioia; il municipio della città ha invitato cinquemila persone ad una festa notturna. Tutto il popolo di Cettigne si sta sfamando con i cibi più ricchi più ricercati e si sta dissetando con lo champagne che corre a fiumi ed inebria la folla già delirante di entusiasmo per avere l’anima ripiena del pensiero della grandezza nazionale che, questa notte, solennemente celebra.

Ma vedete: in fondo alla gioia spunta sempre il veleno di un qualche pensiero amaro; e noi stessi non sappiamo liberarcene e ne siamo tormentati. Ci sembra quasi che, con questa giornata ormai storica, il ciclo, per lo meno, un ciclo della gloria del Montenegro sia compiuto. Si festeggia, nella persona di un sovrano altamente rappresentativo, tutta una somma di eroismi e di glorie di un popolo; di un popolo la cui storia, per ora, ha raggiunto un culmine. Ma niente, per caso — noi ci domandiamo con trepidazione e la domanda forse ha qualche giustificazione — dietro tanta luce di gioia e di gloria si nascondono i primi sintomi del decadimento, o di una profonda trasformazione?

Giulio Seganti.



Ricordatevi di comperare il 19.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che uscì in questa settimana.



SODALIZIO ARTISTICO


A Milano si è costituito un nuovo cenacolo musicale. Per render noto lo scopo del minuscolo sodalizio fondato da Luigi Abbiate, Arrigo Pedrollo, Carlo Percivati, Elisabetta Oddone, Carlo Censi, Gino Nastrucci, avv. Samuele Segrè, basterà riprodurre un articolo dello Statuto di quella Société Nationale di Parigi, che, sorta per iniziativa di due musicisti (Romain Bussine e Camille Saint Saëns), conta quarant’anni di vita gloriosa.

«Lo scopo che si propone la società è di favorire la produzione e diffusione di tutte le opere musicali a serie, edite ed inedite di compositori nazionali; d’incoraggiare e di mettere in luce, secondo le proprie forze, tutti i tentativi musicali, di qualunque forma essi siano, purchè lascino intravvedere nell’autore, delle aspirazioni elevate ed artistiche. Sarà dunque fraternamente, coll’assoluto oblìo di se stessi, e col fermo proposito di aiutarsi a vicenda con tutto il fervore, che gli associati concorreranno, ognuno nel suo campo d’azione, agli studi ed alle esecuzioni dei lavori che saranno chiamati a scegliere e ad eseguire».

La sede provvisoria della Società è presso l’avv. Samuele Segrè — Via Fatebenefratelli, 13 — Milano.

Il sentimento religioso dell’ex-ministro Morin


RICORDI PERSONALI


Il compianto ex-ministro Morin, come quasi tutti gli uomini di mare, ha conservato fresco nell’animo suo fino alla morte il sentimento religioso, sentimento che, non faceva pompa di sè con pratiche esteriori ma appariva profondo a chi ebbe la fortuna di godere della sua intimità. All’inizio della sua vita marinara una sua sorella, piissima gentildonna, gli aveva donato una bella medaglietta in oro della Madonna, Stella maris. Questa effige egli volle sempre seco ed ebbe occasione di dire una volta alla sorella che si meravigliava che dopo tanti anni egli ancora la conservasse: «Ti garantisco che questa medaglietta mi ha sempre portato fortuna non solo nella mia vita marinara ma anche nel non meno procelloso mare della politica».

Durante il suo soggiorno a Roma strinse parecchie cordiali amicizie con alti prelati e a chi si meravigliava che lui, soldato amasse conversare con preti, rispondeva: — Sono, i preti, le persone con cui io sento di avere maggiore affinità. Anch’essi sono soldati, anche essi ubbidiscono agli ordini di un capitano. Tutto sta a trovarli buoni... ma a questo ci penso io.

Quando si fondò il Lloyd sabaudo raccomandò che i nuovi piroscafi fossero benedetti con solennità, che si provvedesse perché a bordo i passeggeri potessero usufruire liberamente dei servizi divini e che si usassero trattamenti di favore e tariffe ridotte ai missionarii d’ambo i sessi inviati dalle case italiane fra gli infedeli.

Durante la sua ultima malattia il Morin volle avere accanto a sè il sacerdote, il quale ascoltò, poche ore prima della morte la sua confessione e non si allontanò dal letto fino a che l’ex-ministro non fu spirato.

Il Morin non faceva mistero con alcuno di questi suoi sentimenti e soleva dire che «un non degenerato figlio [p. 301 modifica] di Colombo deve pensarla così». Grande influenza sulla vita intima dell’ex-ministro ebbe la sorella, donna di altissimi sensi, alla quale egli era legato da un’affezione veramente commovente. Ho letto io una lettera che il compianto senatore scriveva a lei non molti anni fa da Genova in termini tenerissimi. «Tu che sei lontana dal chiasso della metropoli — scriveva il Morin alla sorella che villeggiava presso un’amica in Piemonte — potrai vivere un po’ più di quella vita intima che io amo tanto e che ho vissuto nelle lunghe notti sul mare. Io ti invidio. Il silenzio della campagna è alto e solenne quasi quanto quello del mare e ci è dato da Dio perchè ci ricordiamo un po’ di noi stessi dopo esserci per tanto tempo distratti a pensare agli altri».

CONSUETUDINI CHE SI PERDONO


Il rifugio prediletto


Sono ormai rarissimi quelli che vivono tutto l’anno in una solitudine composta secondo i loro gusti e i loro bisogni, rari quelli che dopo nove mesi di lavoro tornano con abitudine non interrotta al medesimo romitaggio e vi passano tutte le vacanze.

Il bisogno della meditazione o del raccoglimento, di vivere in se stessi e non negli altri, di scrutare nella calma la propria anima ed ascoltare fra il silenzio della natura, le voci più profonde e dare una forma limpida alle grandi verità che fra la vita tumultuosa lampeggiano e spariscono, il bisogno di isolarsi per sentirsi, è ormai molto raro. Pochi sanno quale aiuto sia a scoprire gli angoli più nascosti del proprio spirito, il tornare ogni anno per qualche mese nel medesimo luogo, in un recesso reso famigliare dalla lunga consuetudine. Là ogni oggetto è noto; quindi all’anima non giunge dall’esterno nessun eccitamento a disciogliersi dall’introspezione.

Chi di noi può dire che cosa egli vale, che cosa egli, sa, quale è la sua potenza scrutatrice, se non si allontana di quando in quando dal mondo, se non cessa dalla febbre di conoscere il prossimo e il di fuori e non si rifugia di tratto in tratto in sè?

Il ripiegarsi dell’anima su sè stessa pare ormai incompatibile col rifiuto della nostra esistenza. L’età cristiana che s’è aperta con tanto ardore di contemplazione e di raccoglimento, sembra finita. Non ci sono più spiriti che facciano delle vere confessioni. È cessato anche l’ultimo eccitamento a questo; il romanticismo. La malinconia è esulata dai nostri cuori, spaventata dai dileggi dei forti e dei cantori della civiltà meccanica: alla malinconia che si apparta e si scruta e si compiace di sè, è succeduta la nevrastenia che, mancandole la serenità necessaria per gustare l’amaro piacere della tristezza osservata in ogni sfumatura, cerca di piacersi cogli eccitamenti e finisce col suicidio.

Così noi diventiamo superficiali, mobili e senza profondità, come le nostre macchine. La nostra vita si esaurisce quasi tutta nelle relazioni col mondo.

Ognuno di noi sente il bisogno di leggere ogni giorno, anche a più di duemila metri, un grande giornale, e senza questa lettura a nessuno di noi pare di essere veramente vivo; ma pochi di noi sentono il bisogno di leggere ogni sera il giornale della loro anima. Noi perdiamo così una parte del senso della nostra individualità, e la più preziosa: l’anima deve vivere anzitutto di se stessa, poi degli altri. È proprio vero che è più importante sapere quali sono i rapporti fra la Spagna e il Vaticano, che sapere qual’è il nostro atteggiamento di fronte a un problema dello spirito, di quali sentimenti, di quali pensieri siamo capaci? Io vorrei conoscere l’uomo colto che sa rinunciare, senza rimpianti, per due mesi alla lettura dei giornali: quello dovrebbe avere una potenza di vita interiore ben singolare. In tre giorni si riacquistano le notizie perdute in due mesi di astinenza dalle gazzette; ma tre giorni all’anno non basterebbero per scoprire la propria anima.

Se la nostra letteratura si arresta quasi tutta all’apparenza delle cose e degli nomini o si accontenta di rimaneggiare verità acquisite, molta colpa ne ha questa nostra vita troppo sociale. Il romanziere che non conosce se stesso, non conosce nemmeno il prossimo. Ricordo che qualcuno si maravigliò che il Manzoni, con una così scarsa esperienza del mondo, sia penetrato così addentro nell’indole de’ suoi personaggi: è una meraviglia che non ha ragion d’essere: ognuno di noi ha in sè, in germe o sviluppati, tutte le tendenze e tutti i sentimenti umani: quindi chi conosce bene il suo cuore, si profonda con pochi sguardi in quello del prossimo. La vita sociale scompagnata dall’abitudine della meditazione su se stessi, basta appena a conoscere le occupazioni e le consuetudini degli uomini, non a sentirne le passioni e a scrutare le cause delle loro azioni.

La vita in mezzo al mondo lascia troppo poco tempo per la scoperta di verità che vogliono invece molto agio o molta tranquillità per essere svelate. Ciascuno di noi per poca tendenza che abbia alla riflessione, può ricordarsi d’avere intravveduto qualche volta, per lo stimolo d’un caso improvviso, di un forte dolore, d’una grande gioia una verità superiore a quelle che si sogliono dire nei salotti o nelle passeggiate cogli amici; ma egli è rimasto solo un momento non basta perchè una verità balenata si formi in un’espressione limpida.

Al desiderio di conquistare queste verità psicologiche nascoste è sottentrato in noi il desiderio di accumulare il maggior numero possibile di sensazioni e di verità pratiche. Ma il cambio è tutto in perdita. Le verità pratiche sono le verità delle scienze positive; e tutti sanno che non c’è scienza più provvisoria d’una scienza positiva.

Ora noi vogliamo esperimentare non noi stessi, ma il mondo, il più possibile. Perciò un rifugio ci pare angusto, ci pare una prigione. Uno Xavier De Maistre che scrivesse ora il suo «Voyage autour de ma chambre» ci parrebbe poco concepibile. La nostra anima s’è istirilita: essa non trova più in se stessa una fonte abbastanaa abbondante per vivere.

Noi passiamo nove o dieci mesi a trafficare o a lottare cogli uomini, e quando giunge l’ora del riposo, il [p. 302 modifica] nostro bisogno più vivo non è quello di ritrovarne noi stessi, ma di mutare ambiente, di cambiar compagnia, di vedere altri luoghi. Viviamo cogli orecchi e cogli occhi, poco coll’anima. È vero che mai come ai nostri tempi le città si sono fatte deserte nell’estate: ma è anche vero che col caldo le abitudini cittadine si trasportano sul mare o sui monti e che è difficile giungere in un albergo a duemila metri dove non si ritrovino tutte le abitudini sociali che è umanamente possibile mantenere a quell’altezza. Qualcuno, molti, dicono di volere almeno per un po’ abbandonare i legami affaticanti della vita civile: ma quanti si ricordano di questo proposito quando la diligenza non porta i giornali aspettati, quando vedono che alle nove di sera cessa la vita in un paese di montagna o che un commensale giunge in ritardo alla table d’hote?

E quanti si accontentano d’una sola stazione climatica? Pochi giorni bastano per stancarci d’una dimora deliziosa. Ci manca la calma necessaria per scrutarne le bellezze più riposte, per intonare la nostra anima coll’ambiente. Ci assilla il pensiero che la vita passa, che essa è breve e il mondo è tanto vasto, e rifacciamo le valigie e partiamo. Così ci illudiamo di viaggiare e di conoscere quanto più possiamo della terra; e facciamo come il lettore avido e svogliato che crede di conoscere molti libri perchè ha cercato di indovinar la trama di molti scorrendoli coll’occhio, o come il visitatore d’una grande pinacoteca che dice d’averla vista perchè ha passeggiato davanti alle quattro pareti di tutte le sue sale.

Ogni dimora prolungata in un luogo solitario è per la maggior parte di noi una prigione.

Siamo troppo abituati alla varietà incessante delle sensazioni, per poterci facilmente assuefare a sensazioni sempre uguali; e anche siamo troppo abituati a ricever dall’esterno mutabile lo stimolo della nostra vita spirituale, perchè ci riesca facile imporre alla nostra anima quella vita non passiva ma fortemente attiva che consiste nel cercar colla meditazione e colla contemplazione i motivi di sensazioni nuove. Pensare quando ci passa dinanzi il cinematografo dei paesi e degli uomini affacendati, quando l’esterno s’incarica continuamente di suggerirci idee nuove, è una cosa così naturale come un’operazione istintiva; ma pensare a non intorpidirsi quando il luogo in cui viviamo resta sempre uguale e aspetta, per cambiare ai nostri occhi, che noi dedichiamo lunghe ore ad osservarlo, è cosi malagevole come un aspro lavoro fisico. E noi siamo troppo stanchi della vita civile di dieci mesi per aver la forza di volontà che occorre per accingersi alla contemplazione.

Perciò anche l’uomo colto nelle vacanze vaga da un albergo alpino ad un altro, da una stazione di bagni ad un’altra, dall’una all’altra regione d’Europa, immagazzina nella sua mente qualche dato di fatto di più e si illude di chiuder nella sua fantasia qualche immagine di più. La vita ci par troppo breve per il mondo così vasto, e noi per correrlo tutto finiamo la vita senza averla vissuta. Siamo cittadini di tutta la terra e non siamo più padroni di noi: non abbiamo più rifugi, non

sappiamo più abbandonare per un mese le preoccupazioni della lotta giornaliera, le ansie e le cupidigie della vita pratica.

Se il lettore ci pensa, sono anch’io uno di questi: tant’è vero che ho scritto un articolo per un giornale durante le vacanze. {{A destra|margine=1em|Attilio Momigliano.

Question Box-Answers


Il Question Box è un libro; che non si abbia a sospettare male davanti alla barbara intitolazione. Il suo formato è quello delle Guide Baedeker, con cui — se si vuole — avrebbe un fondo di somiglianza; giacche è un manuale, è una guida anche questo Question Box, però d’altra materia; ed ha un complessivo di 613 pagine, computate due indici. Di che cosa tratti poi sarà facile capirlo dalla sua modesta storia che prendo a riassumere in due parole.

Nella seconda metà del secolo passato un ex-religioso di un Ordine monastico cattolico, padre Hecker, riprendendo la sua parola, lasciava la famiglia spirituale a cui doveva tutto, per fondare una Congregazione detta dei Padri Paulisti, il cui principale scopo è di predicare Missioni ai non cattolici in New York e dintorni. Ora un particolare sempre osservato in dette Missioni è quello di provocare obiezioni, sempre in materia religiosa, da parte degli uditori, con facoltà di esporle con quella libertà e candore e franchezza che merita l’argomento; i Padri Missionari dal canto loro si presteranno ad accoglierle e rispondervi. E perchè tutto proceda con ordine e allo scopo di facilitare questa forma di apostolato, in ogni Chiesa in cui si tenga Missioni, si mette, d’intesa, alla porta, una cassetta nella quale ognuno possa deporre la sua obbiezione affidandola allo scritto. Ogni sera, all’ultima predica il Missionario di turno legge i biglietti anonimi colle relative difficoltà e vi risponde, dando ad un tempo ed evasione all’Interrogante specialmente interessato, e un’istruzione alla massa degli uditori. Onde il titolo del libro di cui parliamo: Cassetta delle Obiezioni e relative risposte.

In tanti anni di missione si è potuto fare una cernita delle tante obbiezioni, e appuntare le più serie ed importanti. E si domandò se non era il caso — sia per prevenire una ripetizione oziosa delle istesse difficoltà con immensa perdita di tempo, sia per allargare ed estendere per luogo e tempo e persone il benefizio delle risposte dei Missionari — di pubblicare in un volumetto e obbiezioni e risposte. Si trovò che ne valeva la pena. Detto fatto si ordinò la arruffata materia che giaceva in una confusione caotica, in ragione di argomento, di importanza, di correlazione, di derivazione, e ne usci il volumetto che ho sott’occhio; attraente per diverse ragioni. Tanto che in breve volgere di tempo — sette anni credo — è già salita la sua tiratura al 367° migliaio. Il P. Elliott, Paulista esso pure, e autore di quella Vita di Gesù Cristo che è in preparazione di pubblicazione in veste italiana, scrivendomi, mi decanta con enfasi il Question Box, anche per ragione dell’autore del libro, che e il Padre Conway, testa quadra, e dei più dotti della Congregazione Paulista.

È vero che là sul luogo dove ebbe origine e per ragioni locali dovea avere l’onore di andare a ruba; ma anche da noi — per quanto le risposte siano preferibilmente basate sulla S.Scrittura e più adatte a razze meno razionaliste e più tradizionaliste di noi, ma tuttavia agguerrito di richiami storici, di poderosi argomenti di ragione — il libro in discorso sarebbe pure [p. 303 modifica] provvidenziale per tagliar corto con cento difficoltà formatesi più per ignoranza di cose religiose che per razionalismo vero. Ma chi avrà il coraggio di tradurre dall’inglese in nostra lingua e pubblicare un volumetto di tal sorta? Giacchè in fatto di cose librarie oggidì fra noi è tutta, quasi, una questione di coraggio, d’affrontare un rischio di capitale verso un’incognita. Comunque sia, non sarà fatica male spesa anche quella di segnalare semplicemente un libro ignoto e tanto degno di essere conosciuto e letto, e largamente sfruttato dài maestri di Religione o Catechismo che si voglia dire; invece di fossilizzarsi in quell’arido metodo di stereotipate lezioni a domande e risposte — vecchio stile — invece di escludere dall’insegnamento religioso quei soffii di modernità bene intesa che salveranno il Catechismo dal totale naufragio.

L. Meregalli.