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IL BUON CUORE 299


re, perchè egli veda la gioia dei figli, perchè goda del lieto spettacolo di tutta la nazione festante. Soldati e cittadini formano come un’immensa quadriglia che si restringe e si allarga sul cui ritmo s’intonano nuovi inni di guerra. La cosa dura a lungo e chissà quando avrebbe termine se a Nicola non venisse in mente d’interromperla. Il re, difatti, improvvisamente esce dal palazzo e tra gli evviva formidabili viene nel mezzo della piazza salutando tutti, sorridendo e stringendo la mano ai più vicini. Ad un tratto sale su di uno sgabello e arringa la folla.

Non è niente: re Nicola tiene un comizio, un grande comizio al quale prende parte tutto il popolo. La folla si pigia intorno all’oratore, si arrampica su per i muri, sale sugli abbaini delle case circostanti e poi si fa silenziosa.

Il re fa un lungo discorso; rileva il significato di questo avvenimento — ogni parola è seguita da un formidabile applauso — e poi dice: «Ma voi credete che tutto sia finito? E che l’opera nostra si esaurisca con questo caduco giorno di gloria? No, figli miei; bisogna continuare nell’aspra opera ed aver sempre nel cuore la spina della giornata di domani. Il Montenegro è piccolo nei suoi confini, ma è grande per il suo valore e voi dovete raddoppiare questo valore per raddoppiare la grandezza della patria».

Nicola — urla uno dalla folla con molta disinvoltura — dicci allora che dobbiamo fare.

E’ cosa semplicissima, o miei ragazzi — risponde il re. — Dovete essere buoni, onesti, laboriosi: dovete pregare Iddio acciocchè protegga il Montenegro e dovete essere fedeli alle vostre donne e dovete imparare da esse ad esser virtuosi come è virtuosa la Milena, mia signora, che ci guarda e ci ascolta.

E un formidabile urlo saluta la regina che è affacciata al balcone ad assistere al comizio tenuto dal suo augusto consorte. Il quale, dopo altre poche parole, si ritira nel palazzo.

Ma la gazzarra nella piazza — oramai è il tramonto — continua; gli uomini impugnano la sciabola sguainata e ballano una specie di saltarello accompagnandolo con urla quasi selvagge, mentre, tra la folla, alcuni montanari imitano lunghi nitriti di cavalli, belati di pecore ed emettono dei suoni gutturali interminabili, stranissimi.

Però comprenderete bene che questa storia non può durare in eterno. Siamo sotto le finestre del palazzo sovrano gremito di ospiti i quali da sei o sette ore si deliziano di questi spettacoli. Come si rimedia? Da noi una squadra di buoni poliziotti con dei sonori pugni risolverebbe la questione e sgombrerebbe la piazza. Qui, a Cettigne, niente di tutto questo: Nicola si affaccia di nuovo al balcone e dice: — «Ora basta, figliuoli; andate a vedere i fuochi sui monti». Un formidabile evviva e dopo due minuti la piazza è deserta.


«Balbanska tzaritza».

Ma i fuochi della montagna si accenderanno più tardi. Ho tutto il tempo di andare a vedere, se non a sentire, l’ultimo atto della ‘’Balbanska tzaritza‘’ l’imperatrice dei Balcani, — il grande poema drammatico
di re Nicola che la compagnia croata di Zagabria recita da alcuni giorni nel piccolo teatro di Cettigne alla presenza del popolo entusiasta.

Io non starò a narrarvi la lunga e dolorosa istoria dei figli del principe Ivano. Un giorno me la son fatta spiegare, perchè tutti qui la cantano, ed ora sono come perseguitato dall’eterna e monotona nenia sul cui ritmo la leggenda si adagia mollemente e s’insinua nelle orecchie e nel cervello. Andate al bazar ed il vecchio rapsoda — lurido, dalle occhiaie vuote e chiuse — ve la canta, accompagnandola sulle vibrazioni dell’unica corda lamentosa della sua guzla; entrate nelle osterie e nei cafana e certamente troverete, in un angolo, un gruppo di sfaccendati che, canticchiando, la mormorano; vi avvicinate ad una abitazione privata e probabilmente ascolterete un coro di monelli e di donne che sempre sullo stesso motivo vi tesseranno nuovamente le lodi dell’eroina Danitza.

Francamente, con tutta la curiosità che poteva ispirarmi re Nicola autore drammatico e con tutto il desiderio di ascoltare una compagnia eccellente, per quanto croata, di abilissimi comici quale è quella di Zagabria, pure, non ho avuto il coraggio di sentire tutti e cinque gli atti del dramma regale; e mi son contentato delle ultime scene. Vi faccio, perciò, grazia del resto limitandomi a dirvi che sono avvenute cose deplorevolissime. Dei due figli di Ivano, uno, Giorgio, s’innamora di una straniera, la figlia di un doge di Venezia e il popolo, come è facile immaginare, non è molto lieto di questa unione; mentre molto si attende dal valore ardimentoso di Stanco — l’altro figlio d’Ivano — che ha sposata Danitza, l’imperatrice dei Balcani, la più bella fanciulla della Montagna Nera. Smonchè Stanco, avido di potere e desideroso di godimenti, di fasto e di libera vita, cede alle lusinghe dei turchi che in quel momento guerreggiavano con il Montenegro e tradisce la patria.

L’ultimo atto della a Balbanska tzaritza» rappresenta appunto la disperazione, il dolore e la vergogna della bella Danitza — l’immagine viva della patria montenegrina — quando apprende il tradimento dell’uomo perdutamente amato. E con tutto l’amore, l’odierà, lo perseguiterà e questo contrasto di amore e di odio scoppia feroce, in terribili invettive, quando l’eroina apprende che la patria diletta è stata sconfitta dal turco. Ma lo stesso Stanco è rimasto mortalmente ferito e s’incontra sul campo di battaglia con Danitza che soccorre tutti i feriti, ma si rifiuta di soccorrere lui. Scena drammaticissima: Danitza scioglie un ultimo ardente inno d’amore alla patria diletta e di esecrazione al traditore amante e scompare nelle acque gorgoglianti della Moratscia che la trascinano, lontano, verso il mare....

Io non vi so dire il delirio della folla dinanzi alla conclusione eroica del lavoro, nè vi so dire gli interminabili zivio! che salutano ogni frase più ardente e caratteristica che la bella Danitza (è impersonata da una meravigliosa attrice) pronunciava; solamente posso dirvi che la vecchia, la bella e fiera anima montenegrina, che oggi ci appare quasi assopita nella visione di un sogno lontano, palpita tutta e nuovamente dinanzi alla rievocazione delle sue glorie, dei suoi fasti