Il buon cuore - Anno IX, n. 33 - 13 agosto 1910/Educazione ed Istruzione

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Gli ultimi giorni di Carlo Alberto

14 maggio - 28 luglio 1849


Dalla penna dell’egregio avvocato cav. Attilio Fontana, redattore capo della Perseveranza, è uscito questo magnifico studio, che lumeggia egregiamente la mesta figura dell’infelice Re Carlo Alberto.

Il 14 e 31 maggio 1849 Carlo Alberto, nella Villa d’Entra Quintas, ricevette rispettivamente l’indirizzo della Camera dei Deputati e del Senato del Regno. Di questi indirizzi, vibranti di patriottica commozione, e delle caratteristiche risposte date da Carlo Alberto non disperante nel trionfo della causa italica, parlai l’anno scorso nella Perseveranza (n. 132). Fu precisamente in questo periodo di tempo che il Re, spossato dal lungo viaggio di circa un mese da Novara ad Oporto, cominciò a sentirsi male. E il male, con alternative di alti e bassi, di cupi scoraggiamenti e di care speranze, nel mese di giugno, andò sempre più aggravandosi col sopravvenire e svolgersi del luglio.

Sulla scorta di quanto scrisse il conte Luigi Cibrario, membro della Commissione senatoriale recatasi in Portogallo, delle lettere del sig. E. De Launay, incaricato d’affari sardo presso quella Corte, e dalle Memorie inedite del dott. Alessandro Riberi, credo non senza commozione ed interesse rievocare nei loro particolari gli ultimi giorni di esilio e di vita del Re Magnanimo.

La malattia.


La malattia che portò al sepolcro Carlo Alberto, pare fosse di antica data. Nei primi anni del suo regno egli era stato tormentato assai tempo dalla renella, che più tardi scomparve. Fu anche più volte tormentato da minacciose bronchiti. Ma covava maggior insidia nel basso ventre, offeso da un’antica malattia, consistente in una lenta infiammazione dell’apparato venoso abdominale, specialmente del circolo venoso del fegato e della vena porta in tutte le sue ramificazioni viscerali. Il processo di questa malattia poi aveva trovato un terreno favorevole nei pochi riguardi del Re per la propria salute. Egli, infatti, non s’era mai indotto a temperare l’alacrità del lavoro od i rigori delle sue osservanze religiose, nè la rapidità dei viaggi, nè la temerità con cui sfidava l’inclemenza delle stagioni. Aggiungansi poi le fatiche durate nelle due campagne del 1848 e del 1849, gli affanni ed i dolori morali per certe nere ingratitudini e follie, la terribile catastrofe di Novara, il viaggio rapido e disastroso da Novara ad Oporto, fatto, specie negli ultimi giorni, a dorso di cavallo, viaggio che esacerbò l’irritazione dei vasi emorroidali, stabilendovi un processo flogistico che più non si potè arrestare.

I medici, Francesco d’Assiz Souza e Fortunato Martins da Cruz, dapprima chiesti al letto dell’illustre infermo, [p. 261 modifica] formularono questa diagnosi: S. M. essere travagliata da bronchite e da dissenteria d’indole pessima, che potea terminare all’improvviso con una perforazione degli intestini; aver perduto gran quantità di sangue nel viaggio ed essere caduta in uno stato di marasma; l’edema alle gambe essere un cattivissimo indizio; S. M. esser in pericolo non imminente ma forse non lontano. Cattivi pronostici fece pure il dottor Kessler, medico del Re di Portogallo, ritenendo Carlo Alberto etico in ultimo grado. Il giorno 30 giugno giunse a Villa d’Entra Quintas il dott. Alessandro Riberi, già medico particolare del Re.


La serenità di Carlo Alberto.

Nonostante la febbre persistente e la molestia della tosse, tale da provocare il vomito e tutto scuotere quel povero corpo, il Re s’alzava secondo l’usato ogni mattina tra le sette e le otto; le forze lo abbandonavano, ma la volontà non cedeva. E i medici dicevano ch’ei si reggeva in piedi per prodigio. «Egli del rimanente scrive il Cibrario — vedevasi sereno e tranquillo secondo suo costume. Non un lagno usciva dalla sua bocca, non un atto d’impazienza appariva in mezzo ai suoi tormenti. Solo, quando non si poteano dissimulare, ed era interrogato se soffrisse molto, rispondeva che sì, soggiungendo: Conviene aver pazienza, Dio vuol così». «Per altra parte — scrive sempre il Cibrario egli pregiava così poco la vita, e tenevasi costantemente tanto apparecchiato a comparire innanzi al Tribunale del Giudice eterno, che non si preoccupava gran fatto del pensiero della morte. Non solo lungo il giorno, ma sovente nel silenzio della notte scendeva dal letto, e recavasi nella cappella a pregare; e per quanto si studiasse di farlo celatamente, non ingannava il vigile occhio del fido cameriere, che a sua insaputa vegliava gran parte della notte nella camera vicina».


Conversando.

Il conte Cibrario, ch’era sovente ammesso alle udienze di S. M., ci riferisce i temi dei discorsi di Carlo Alberto. Il Re «si compiaceva nel ripetere che la forza e l’avvenire d’Italia stanno nella monarchia di Savoia, purchè quelli che hanno guastato sì alta impresa, e che già suscitano imbarazzi a Vittorio, comprendano una volta il loro errore. Poter il Governo esser libero a un tempo e forte; ma non poter neppure esser libero se non è forte; perchè, invece di protegger gli altri, non basterà neppure a protegger sè stesso contro la preponderanza straniera, e contro le fazioni interne, le quali, se non sono represse, restringono in sè solo la libertà che debbe essere di tutti».

Avendogli un giorno il conte Cibrario confessato che non aveva potuto a meno d’applaudire alla risoluzione da lui presa d’abdicare e d’allontanarsi dall’Italia, perchè questo atto aveva dissipato ogni ombra d’oscurità che ancor rimanesse su qualche punto della sua giovinezza ed impediva che quella setta medesima, che gli aveva attraversato l’alta impresa, gli imputasse a tradimento la sorte infausta delle armi; Carlo Alberto, con vivacità maggiore del solito e battendo colla mano sul tavolino, lo interruppe dicendo: «Ha ragione, ha ragione. Non rammenta come sono stato trattato non dal popolo ma da quella setta a Milano

Ma, avendo il conte Cibrario osservato, che il nome di S. M. sarebbe perpetuamente agli italiani un conforto, una speranza ed una bandiera, il Re sorrise al gentile pensiero.

Altre volte, riandando le tristi condizioni d’Italia, riprecipitata nella discordia e nei disordini, Carlo Alberto abbassava dolorosamente il capo sul petto e sospirava sull’avvenire della patria comune. «Ma poco stante, quasi commosso da profetico senso, battea la mano sul tavolo, e pronunciava questa cara parola: Speriamo!».

Carlo Alberto vagheggiava di scrivere anche le memorie dei tempi che corsero dopo la prima campagna; ma ne fu impedito dalla febbricetta che di continuo lo travagliava, causandogli spesso il tremolo della mano.

Di moltissimo conforto gli riuscivano le lettere dei parenti più prossimi e di molte persone a lui devote, e, in una lettera del 16 maggio al conte Castagnetto, scriveva: «l’intérêt que me montrent encore plusieurs personnes me touche extremement».

Attendeva l’arrivo del Duca di Genova, e ne manifestava la propria compiacenza col governatore civile, ma poi soggiunse: «Ma no, il Duca di Genova non può, non deve venire. Egli ha un comando nell’esercito, e la pace non è fatta. Ma conoscerete il Principe di Carignano, che non è rattenuto da questa considerazione. E’ un principe di rare qualità, e che m’è molto caro». Pure, racconta il Cibrario, volle la sorte che l’arrivo di S. A. R. fosse, per una combinazione d’infauste congiunture, indiretta occasione di grande dolore. Erano le cinque pomeridiane del giorno 30 di giugno, quando il telegrafo, ch’era sul campanile della chiesa dos clerigos, avverti che presentavasi alla foce del Douro un vapore da guerra sardo. S. M. ch’era molto afflitta, perchè il giorno prima aveva letto nei giornali francesi pessime nuove della salute di Re Vittorio, all’annunzio dell’arrivo di quel legno, imaginando chissà quali tristi notizie, si sentì rimescolare tutto il sangue, fu invaso da un risentimento febbrile maggiore dell’usato e in tale spavento rimase per ben tre ore; che tante ci vollero perchè la marea fosse cresciuta al punto da permettere l’ingresso al Monzambano, recante il Principe di Carignano, il dott. Riberi ed il cameriere di S. M. Bertolino.


Le memorie del dott. Riberi.

Il dott. A. Riberi raccolse religiosamente i pensieri e le conversazioni di Carlo Alberto, consegnandone la memoria ad uno scritto tuttora inedito, posseduto dagli eredi. Il prof. Costanzo Rinaudo, che se n’è, per gentile concessione, potuto valere in una sua conferenza, ne trascrisse alcuni passi così interessanti da farci desiderare la pubblicazione dell’intiero scritto, siccome quello che può immensamente aiutarci a penetrare nell’animo dell’infelice Sovrano.

Ecco un passo, per esempio, in cui Carlo Alberto dà ragione del suo volontario esilio:

«Da lungo tempo io ho fatto giustizia delle [p. 262 modifica] grandezze di quaggiù, egli diceva; da lungo tempo io ho riposta la mia felicità altrove che in queste; da lungo tempo io anelava alla vita ritirata; la causa italiana fu la sola ragione che me ne distolse. Non è quindi a meravigliare, se dopo gli infortuni d’Italia, io abbia riparato in questo lontano e quasi isolato paese, dove speravo di vivere una vita calma e ritirata, la quale migliora l’uomo».

Carlo Alberto conosceva a fondo le cause dell’infortunio d’Italia. Scrisse, a questo proposito, il dott. Riberi:

«Carlo Alberto, nominando l’Italia, era solito aggiungere l’aggettivo infelice o povera, e dire, che la condotta di alcune Potenze, le quali per gelosia o per non mai sazia invidia le avevano sconsigliatamente ritirato il loro aiuto; le importune idee di repubblicanismo, le quali distrussero le forze e rimescolarono i fili della matassa per modo da perdere il capo del bandolo; le rivalità dei popoli e lo spirito di municipio spento solo di nome; l’effeminatezza di alcune provincie, derivata da lunga inerzia e da molle vita; l’astioso puntiglio delle caste è delle parti; lo spirito di partito, che non sa neppure perdonare le virtù del partito opposto; la burbanza insensata di non poche persone potenti per ingegno, ma in cui l’egoismo tenne luogo di amor patrio e di virtù cittadina; l’intemperante presunzione di molti, i quali ripudiando il retaggio della sapienza passata si diedero stoltamente a credere, che la scienza politica avesse aspettato la loro venuta al mondo per balbettare con le loro prime parole; la soverchia temperanza dei moderati, i quali conoscendo le idee morali e politiche non ebbero il coraggio di rivelarle e di bandirle; la licenza e le improntitudini del giornalismo erano state le cause dell’infortunio d’Italia...»

Chi oserebbe ora negare che Carlo Alberto non avesse perfettamente ragione? Ma con tutto questo egli non disperò mai nel trionfo finale della causa italiana, certo che le tristi esperienze del passato avrebbero valso a creare quello spirito di concordia, la cui mancanza era stata una delle più grandi cause delle nostre disfatte. Infatti, dice il dott. Riberi, Carlo Alberto, a questo proposito, non senza invocare sull’opera sua il giudizio spassionato della storia, conchiudeva:

«Che l’ultima lotta, quantunque sventurata, in cui la fortuna era mancata a lui e non lui alla fortuna, sarebbe stata la stella condottiera degli Italiani; l’Italia pensante, operosa ed armonica cercasse nel passato la causa del suo avvenire; la sua sorte, sebbene ridotta all’esilio spontaneo in Oporto e al letto di morte, dover essere invidiata ora o più tardi da quei capi di Governo, i quali, dopo aver o iniziato il movimento italiano o presovi parte, lo disertarono; lui per certo non invidiare la loro; lasciare di ciò il giudizio all’imparziale storia, a quella storia che non sarà scritta per adulare un secolo o per incensare i vincitori».

La morte del giusto.


Il giorno 3 luglio, in cui il conte Cibrario, in un colla Commissione Senatoriale, prese commiato, fu l’ultimo in cui il Re si alzò. Il male faceva progressi spaventosi e fu anche necessaria un’operazione chirurgica, eseguita dal dott. Riberi, per liberare l’infermo da una postema, che gli si era formata nel ventre. Il Re non emise un gemito, non fece un atto d’impazienza. La salute di Carlo Alberto parve migliorare. Ma fu breve raggio di speranza, che ormai l’ammalato era senza forze. Egli però era consapevole della gravità del suo stato, e un giorno disse quasi scherzando a Riberi:

«Se io venissi a morire adesso, sarei fortunato almeno in questo, che morrei a tempo opportuno».

Il giorno 23 luglio, dopo una notte tempestosissima, l’ammalato parve avvicinarsi al momento supremo. Alle domande del Re, il dott. Ríberi, rispose: «Debbo confessare con dolore che i sintomi da ieri in qua si sono piuttosto aggravati che diminuiti; tuttavia non convien disperare». S. M. gli disse allora: «Caro Riberi, se ho da morire, me lo dica apertamente, perchè avrei qualche disposizione da dare». Riberi finse di non aver udito e parlò d’altro. Ma il Re comprese benissimo quel silenzio e richiese i conforti religiosi. E qui lascio la parola al sig. E. De Launay incaricato d’affari sardo presso la Corte portoghese: «Essendo, come si suole, l’Augusto infermo interrogato sopra le cose della fede, egli diè tali risposte che bene dimostrarono quanto profondo fosse il convincimento che era in lui: indi egli chiese perdono delle offese che aveva recate, come egli lo dava di buon animo e con carità cristiana a quelle che o in generale o in particolare a lui erano venute. Rifattosi quindi sopra i suoi pensieri nel modo il più commovente, aggiunse: «dimentico tutto». «Alle quattro dopo mezzogiorno — prosegue il De Launay nel suo rapporto, 28 luglio 1849 al Presidente del Consiglio dei Ministri in Torino — il vescovo della diocesi colle vestimenta pontificali, dopo aver dette a S. M. alcune parole piene di virtù evangelica per fortificarlo viemmeglio nella rassegnazione e nell’abbandono delle cose terrene, gli diè la benedizione apostolica. Monsignore, nell’uscire dalla stanza del Re, quasi lagrimando, disse: «questa sarà la morte del giusto». «E di vero, bellamente commenta il De Launay, egli non appartiene alla terra che per i suoi patimenti, la sua anima anela già le sfere celesti.»

Il 26 luglio fu giornata di grande abbattimento. Il dottor Riberi ordinò alcune frizioni di rhum, le quali produssero un po’ di sollievo. Ma l’infermo non potè prendere altro che pochi cucchiai d’acqua mescolata con vino di Bordeaux o con caffè. Nella notte però dal 27 al 28 il sonno del Re fu turbato da paurosi fantasmi. Tuttavia nella mattina del sabato, 28 luglio, si notò un certo miglioramento, tanto che S. M. appena vide il dottor Fortunato Martins da Cruz gli disse: «Dottore, oggi sto meglio, molto meglio. Se questo miglioramento continua, spero che in termine di tre o quattro giorni mi si potrà rifare il letto, perché ci sto veramente male». A causa del decubito, infatti, egli aveva guasta in molti luoghi la pelle. Né questo miglioramento, nè il fatto che il Re potè prendere due tazze di brodo, leggere una lettera della consorte e alcune preghiere valsero però ad ingannare il dott. Riberi, il quale vide chiaro, come riferisce nel suo ultimo dispaécio il De Launay, che si trattava di miglioria passeggiera.

Difatti mentre il Re, dietro sua richiesta, veniva voltato dal lato destro a quello sinistro, accusò un dolore acuto che gli andava al cuore. Era un primo attacco di paralisi, accompagnato da torcimento di bocca, al braccio sinistro, seguito da un secondo attacco a quello destro. Alcune frizioni di rhum e la paralisi parve dissiparsi. [p. 263 modifica] Seguì un lungo sonno, prima del quale il Re invitò il dottor Riberi a far un giro in giardino. Ma questo rispose che avrebbe chiuse le imposte, non avrebbe fatto rumore, ma che preferiva rimanere. E il Re: «faccia come le piace». A un tratto però il dottore, avvertito uno scroscio di denti, aperse le finestre e vide che S. M. era stata colpita da un terzo insulto apopletico. Il Re gli disse: «il capo mi si fa pesante, io muoio. Le voglio tanto bene, caro Riberi, ma muoio». E furono le estreme parole di Carlo Alberto. Attorniato dai fatuigliari, egli esalò la grande anima «nell’età di anni cinquanta, mesi nove, giorni ventisette, colla calma e la rassegnazione di un eroe, colle sante speranze di un cristiano in mezzo alle lagrime ed alla costernazione delle astanti persone».

Così il Processo Verbale 29 luglio 1849 constatante la malattia e la morte di S. M. il Re Carlo Alberto.

Il «Magnanimo».


L’annunzio della morte di Carlo Alberto non giunse che il giorno 8 agosto a Torino, quando era ancora fresca l’eco delle parole pronunciate il giorno prima in Senato dal conte Cibrario per riferire i successi della missione ad Oporto e degli Evviva unanimi al grande Esule. La notizia gettò il Piemonte e l’Italia tutta in un profondo dolore. E il Senato, vero interprete dell’anima nazionale, sulla proposta del presidente Giuseppe Manno, decretava all’unanimità che a Carlo Alberto si desse il soprannome di Magnanimo' e che la risposta da lui fatta all’indirizzo del Senato s’incidesse in lettere d’oro sotto all’effigie di lui nell’aula del Parlamento.

Quella risposta, infatti, terminava con un consiglio, che doveva fruttar più tardi: «La divina provvidenza non ha permesso che per ora si compisse la rigenerazione italiana. Confido che non sarà che differita, e che non riusciranno inutili tanti esempi virtuosi, tante prove di generosità e di valore date dalla Nazione; e che una avversità passeggiera ammonirà solamente i popoli italiani ad essere un’altra volta più uniti ond’essere invincibili».

Attilio Fontana.

MONUMENTO IN MONZA.

AL

Padre LUIGI MARIA VILLORESI


Un elenco già pubblicato, dava la cifra complessiva delle offerte in L. 10384.60. Ora aggiungiamo un altro elenco, riservandoci di pubblicare a compimento parecchie altre oblazioni.

Cav. ing. Luigi Silva |||
 L. 5 ―
Luisa Silva Candiani |||
   » 5 ―
Caterina Candiani Biffi |||
   » 5 ―
Rag. Carlo Ronchetti |||
   » 5 ―
Cav. avv. Carlo Trabattoni |||
   » 5 ―
Cav. prof. Giuseppe Morando, Preside — Voghera |||
   » 15 ―
N. N. in memoria del venerato Proposto Catena |||
   » 15 ―
Comm, Edoardo Amman |||
   » 40 ―
Cav. Giuseppe Sessa |||
   » 25 ―
» Rodolfo Sessa |||
   » 25 ―
»uff. Ercole Gnecchi |||
   » 50 ―
»prof. Francesco Grassi |||
   » 10 ―
Prof. don Pietro Rusconi, seconda offerta |||
 L. 25 ―
Cav. Francesco Sessa |||
   » 15 ―
Dott. Enrico Bozzi, seconda offerta |||
   » 10 ―
Cav. prof. don Cesare Cazzaniga, seconda offerta |||
   » 50 ―
Signora Adele Buffi N ed. Leizel |||
   » 30 ―
Cav. rag. Alessandro Pennati |||
   » 50 ―
Rag. Alessandro Cantù |||
   » 5 ―
Cav. don Carlo San Martino |||
   » 50 ―
Conte Lodovico Melzi |||
   » 20 ―
Conte Antonio Di Prampero |||
   » 10 ―
Avv. Camillo Barassi |||
   » 10 ―
Ing. Luigi Moretti |||
   » 20 ―
Cav. Angelo Riva |||
   » 10 ―
Dott. Domenico Riva |||
   » 10 ―
Sigg. Antonio e Carlo Annoni |||
   » 10 ―
Sig. Calcaterra Enrico |||
   » 5 ―
Prev. don Adolfo Pagani |||
   » 25 ―
Prev. Barnabita don Giov. Mattavelli, seconda offerta |||
   » 100 ―

Oratorio B. V. Addolorata Carrobiolo

Prev. don Rodolfo Dossi |||
   » 20 ―
Baldassare e Noemi Strazza |||
   » 10 ―
Piera Baroni ved. Quirico |||
   » 10 ―
Dott. Luigi Predari, seconda offerta |||
   » 25 ―
Sac. Francesco Spinelli |||
   » 10 ―
Monsig. Attilio Bianchi, seconda offerta |||
   » 20 ―
Cav. dott. Giovanni Mazzotti |||
   » 10 ―
Prev. don Carlo Rigogliosi |||
   » 5 ―
Prov. don Romildo Mezzera |||
   » 50 ―
Don Gaetano Marinoni |||
   » 10 ―
Prev. don Tommaso Castiglioni, seconda offerta |||
   » 10 ―
Prev. don Carlo Colnaghi, terza offerta |||
   » 50 ―
Prev. don Cesare Rolando |||
   » 10 ―
Prof. don Giuseppe Rocca, seconda offerta |||
   » 25 ―
Signora Giulia Silva |||
   » 10 ―
Cav. Alessandro Gallone |||
   » 30 ―
Ing. Angelo Fioretti |||
   » 10 ―

A Cremella, nell’età di anni 86, dopo 26 di vedovanza del sempre rimpianto consorte, che fu distintissimo funzionario governativo, è spirata la signora

Adele Qalliani vedova Paladini


lasciando cara memoria di virtù elette.

Dopo aver condiviso col marito il peso di gravi cure d’ardui uffici in città importanti, la signora Adele si rinchiuse modestamente nella cerchia famigliare e visse di dolci ricordi d’un connubio esemplare, connubio di due menti e di due cuori fatti per intendersi e per amarsi. Chi l’avvicinava e l’udiva discorrere, comprendeva subito in Lei, attraverso ad una modestia che la innalzava, una mentalità superiore e un non comune buon senso: conoscerla voleva dire stimarla ed amarla; e infatti Ella era riguardata con devoto affetto da tutti coloro che avevano avuto la ventura di avvicinarla.

Noi ricordiamo la distinta Signora nelle sue più belle manifestazioni e rievochiamo la sua gentile e veneranda figura come una delle migliori copie del secolo trascorso, copie che difficilmente si possono sostituire, specie per la nota caratteristica della semplicità.

Le nostre condoglianze ai superstiti, specialmente alla figlia, signora Emma, e al figlio, l’esimio prof. cav. Ettore Paladini.

C.





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