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2 IL BUON CUORE


dezze di quaggiù, egli diceva; da lungo tempo io ho riposta la mia felicità altrove che in queste; da lungo tempo io anelava alla vita ritirata; la causa italiana fu la sola ragione che me ne distolse. Non è quindi a meravigliare, se dopo gli infortuni d’Italia, io abbia riparato in questo lontano e quasi isolato paese, dove speravo di vivere una vita calma e ritirata, la quale migliora l’uomo».

Carlo Alberto conosceva a fondo le cause dell’infortunio d’Italia. Scrisse, a questo proposito, il dott. Riberi:

«Carlo Alberto, nominando l’Italia, era solito aggiungere l’aggettivo infelice o povera, e dire, che la condotta di alcune Potenze, le quali per gelosia o per non mai sazia invidia le avevano sconsigliatamente ritirato il loro aiuto; le importune idee di repubblicanismo, le quali distrussero le forze e rimescolarono i fili della matassa per modo da perdere il capo del bandolo; le rivalità dei popoli e lo spirito di municipio spento solo di nome; l’effeminatezza di alcune provincie, derivata da lunga inerzia e da molle vita; l’astioso puntiglio delle caste è delle parti; lo spirito di partito, che non sa neppure perdonare le virtù del partito opposto; la burbanza insensata di non poche persone potenti per ingegno, ma in cui l’egoismo tenne luogo di amor patrio e di virtù cittadina; l’intemperante presunzione di molti, i quali ripudiando il retaggio della sapienza passata si diedero stoltamente a credere, che la scienza politica avesse aspettato la loro venuta al mondo per balbettare con le loro prime parole; la soverchia temperanza dei moderati, i quali conoscendo le idee morali e politiche non ebbero il coraggio di rivelarle e di bandirle; la licenza e le improntitudini del giornalismo erano state le cause dell’infortunio d’Italia...»

Chi oserebbe ora negare che Carlo Alberto non avesse perfettamente ragione? Ma con tutto questo egli non disperò mai nel trionfo finale della causa italiana, certo che le tristi esperienze del passato avrebbero valso a creare quello spirito di concordia, la cui mancanza era stata una delle più grandi cause delle nostre disfatte. Infatti, dice il dott. Riberi, Carlo Alberto, a questo proposito, non senza invocare sull’opera sua il giudizio spassionato della storia, conchiudeva:

«Che l’ultima lotta, quantunque sventurata, in cui la fortuna era mancata a lui e non lui alla fortuna, sarebbe stata la stella condottiera degli Italiani; l’Italia pensante, operosa ed armonica cercasse nel passato la causa del suo avvenire; la sua sorte, sebbene ridotta all’esilio spontaneo in Oporto e al letto di morte, dover essere invidiata ora o più tardi da quei capi di Governo, i quali, dopo aver o iniziato il movimento italiano o presovi parte, lo disertarono; lui per certo non invidiare la loro; lasciare di ciò il giudizio all’imparziale storia, a quella storia che non sarà scritta per adulare un secolo o per incensare i vincitori».

La morte del giusto.


Il giorno 3 luglio, in cui il conte Cibrario, in un colla Commissione Senatoriale, prese commiato, fu l’ultimo in cui il Re si alzò. Il male faceva progressi spaventosi e fu anche necessaria un’operazione chirurgica, eseguita dal dott. Riberi, per liberare l’infermo da una postema, che gli si era formata nel ventre. Il Re non emise un gemito, non fece un atto d’impazienza. La salute di Carlo Alberto parve migliorare. Ma fu breve raggio di speranza, che ormai l’ammalato era senza forze. Egli però era consapevole della gravità del suo stato, e un giorno disse quasi scherzando a Riberi:

«Se io venissi a morire adesso, sarei fortunato almeno in questo, che morrei a tempo opportuno».

Il giorno 23 luglio, dopo una notte tempestosissima, l’ammalato parve avvicinarsi al momento supremo. Alle domande del Re, il dott. Ríberi, rispose: «Debbo confessare con dolore che i sintomi da ieri in qua si sono piuttosto aggravati che diminuiti; tuttavia non convien disperare». S. M. gli disse allora: «Caro Riberi, se ho da morire, me lo dica apertamente, perchè avrei qualche disposizione da dare». Riberi finse di non aver udito e parlò d’altro. Ma il Re comprese benissimo quel silenzio e richiese i conforti religiosi. E qui lascio la parola al sig. E. De Launay incaricato d’affari sardo presso la Corte portoghese: «Essendo, come si suole, l’Augusto infermo interrogato sopra le cose della fede, egli diè tali risposte che bene dimostrarono quanto profondo fosse il convincimento che era in lui: indi egli chiese perdono delle offese che aveva recate, come egli lo dava di buon animo e con carità cristiana a quelle che o in generale o in particolare a lui erano venute. Rifattosi quindi sopra i suoi pensieri nel modo il più commovente, aggiunse: «dimentico tutto». «Alle quattro dopo mezzogiorno — prosegue il De Launay nel suo rapporto, 28 luglio 1849 al Presidente del Consiglio dei Ministri in Torino — il vescovo della diocesi colle vestimenta pontificali, dopo aver dette a S. M. alcune parole piene di virtù evangelica per fortificarlo viemmeglio nella rassegnazione e nell’abbandono delle cose terrene, gli diè la benedizione apostolica. Monsignore, nell’uscire dalla stanza del Re, quasi lagrimando, disse: «questa sarà la morte del giusto». «E di vero, bellamente commenta il De Launay, egli non appartiene alla terra che per i suoi patimenti, la sua anima anela già le sfere celesti.»

Il 26 luglio fu giornata di grande abbattimento. Il dottor Riberi ordinò alcune frizioni di rhum, le quali produssero un po’ di sollievo. Ma l’infermo non potè prendere altro che pochi cucchiai d’acqua mescolata con vino di Bordeaux o con caffe. Nella notte però dal 27 al 28 il sonno del Re fu turbato da paurosi fantasmi. Tuttavia nella mattina del sabato, 28 luglio, si notò un certo miglioramento, tanto che S. M. appena vide il dottor Fortunato Martins da Cruz gli disse: «Dottore, oggi sto meglio, molto meglio. Se questo miglioramento continua, spero che in termine di tre o quattro giorni mi si potrà rifare il letto, perché ci sto veramente male». A causa del decubito, infatti, egli aveva guasta in molti luoghi la pelle. Né questo miglioramento, nè il fatto che il Re potè prendere due tazze di brodo, leggere una lettera della consorte e alcune preghiere valsero però ad ingannare il dott. Riberi, il quale vide chiaro, come riferisce nel suo ultimo dispaécio il De Launay, che si trattava di miglioria passeggiera.

Difatti mentre il Re, dietro sua richiesta, veniva voltato dal lato destro a quello sinistro, accusò un dolore acuto che gli andava al cuore. Era un primo attacco di paralisi, accompagnato da torcimento di bocca, al braccio sinistro, seguito da un secondo attacco a quello destro. Alcune frizioni di rhum e la paralisi parve dissiparsi.