Il buon cuore - Anno IX, n. 13 - 26 marzo 1910/Religione

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Beneficenza Società Amici del bene

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Vangelo del giorno di Pasqua


Testo del Vangelo.

Maria stava fuori del monumento piangendo. Mentre però ella piangeva si affacciò al monumento. E vide, due angeli vestiti di bianco, a sedere uno a capo, l’altro ai piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: Donna, perché piangi? Rispose loro: Perchè hanno portato via il mio Signore e non so dove l’han messo. E detto questo, si voltò indietro, e vide Gesù in piedi: ma non conobbe che era Gesù. Gesù le disse: Donna, perchè piangi? Chi cerchi tu? Ella pensandosi che fosse il giardiniere, gli disse: Signore, se tu lo hai portato via, dimmi ove l’hai posto, e io lo prenderò. Le disse Gesù: Maria. Ella rivoltasi gli disse: Rabboni (che vuol dir Maestro). Le disse Gesù: Non mi toccare, perché non sono ancora asceso al Padre mio; ma va a’ miei fratelli e loro dirai: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro. Andò Maria Maddalena a raccontare a’ discepoli: Ho veduto il Signore e mi ha detto questo e questo.

S. GIOVANNI, Cap. 20.


Pensieri.

Maria poi stava fuori a piangere presso il sepolcro. Non bastò a Maria l’aver assistito, fino alla fine, alla lugubre scena del Golgota; noi ritroviamo la donna piangente vicino alla tomba di Gesù. Amore forte, amore fedele quello di Maria che sublimato dalla sofferenza atroce, là sul Calvario, ora si pasce di pianto accanto al monumento che, essa pensa, chiude tutto il suo bene... Riflettiamo allo strazio della Maddalena, alla desolazione del suo spirito là, presso la tomba divina! La sofferenza della donna raggiunge certo in quell’ora, la intensità più cruda... ed era prossima l’ora del conforto. Sempre così, in tutte le cose! Oh, com’è cara la dolce esperienza dei conforti divini, che giungono quando, se non arrivassero, non si potrebbe più reggere alla piena del dolore!

Forse per ciò, quanto più angosciosa l’ora che si vive, più si fa forte la speranza dell’intervento divino; forse per ciò l’uomo non è mai forte come quando è spoglio d’ogni appoggio umano, perchè allora non s’appoggia che al soprannaturale....

E anche allo sgomento della morte non tien dietro la libertà di una vita, che per noi è mistero, ma che è vita scevra dalle limitazioni di quaggiù?

Maria dà a Gesù tutta la sua devozione e Gesù le prepara una grazia, un privilegio: presto ella lo vedrà risorto, ella la prima!

Han portato via il mio Signore; e non so dove lo hanno posto. Signore, se tu l’hai portato via, dimmi dove l’hai posto; e io lo prenderò.

Che soffio d’affetto puro, disinteressato in queste parole! Che preoccupazione tenera per il Maestro e che dimenticanza completa di sè... che fiducia nella forza proveniente dal proprio amore! Io lo prenderò dice Maria!

Mi pare che noi abbiamo, qui, l’esempio del come dobbiamo amare: largamente, generosamente, senza nessuna preoccupazione personale, ma con desiderio di bene e con il cuore in alto, ben alto.... Che cosa cerchiamo noi nelle nostre affezioni? nelle nostre amicizie? Oh, forse appena una soddisfazione nostra, un nostro egoismo, un nostro orgoglio, cerchiamo! E amare vuol dire dare, dare senza attendere compenso, dare con gioia, in modo tale che, donando, quasi ci si ritempri, ci si nutra, si acquisti nuova capacità di dare.

Esaminiamo come noi amiamo e cerchiamo di non profanare, con limitazioni, con deficienze indegne questo nostro grande potere!

Gesù chiama Maria per nome e Maria riconosce il Maestro: all’amore risponde l’amore, alla pienezza della devozione la larghezza della ricompensa.

Maria non pensava più che a Gesù; morto non si preoccupava che del suo cadavere, e Gesù le si mostra risorto, facendo traboccare di santa gioia il suo cuore.

Maria, in Gesù, aveva sentito Dio e l’aveva amato con pietà, con fede, con riverenza; quella pietà la conduceva al sepolcro, la spingeva a onorare ancora la salma del Maestro.

Ad amore sì santo doveva rispondere una effusione di grazia: Gesù si doveva rivelare risorto, nella pienezza della sua vita immortale a chi, durante il suo pellegrinaggio terreno, aveva sentito tanta tenerezza per Lui... Doveva rivelarsi completamente, senza veli all’anima fedele, consolarla, fortificarla, consacrarla, quasi, per un apostolato.

Va dai miei fratelli, le dice infatti, Gesù... e Maria resta così il primo sacerdote della risurrezione.

A gioia s’aggiunge gioia nell’anima sua! Non solo ella ha rivisto Gesù, lo ha ritrovato per sè, ma può, ma deve annunziarlo altrui... e qual gioia più pura di quella di far parte ai fratelli delle proprie gioie migliori?

Gioia suprema del cristiano è l’esperienza della paternità divina, è la sua fiducia interiore, che lo fa vivere sereno, abbandonato al Padre celeste, in ogni contingenza anche la più triste e dolorosa.

Abbiamo noi questa esperienza? L’abbiamo così sicura, così salda da rivelarla, da comunicarla ai fratelli?

Va dai miei fratelli. A ogni cristiano, mi pare, rivolge Gesù questa intima parola. Va dai miei fratelli che non mi conoscono, va da quelli che mi cercano, lottando per la verità; va da quelli che ignorano ogni realtà che non sia di quelle tangibili e visibili, va da tutti, a tutti rivela la tua felicità ineffabile, la superiorità, la libertà che ti viene da me, e così, con l’efficacia dell’esempio, chiamali a me.

Ogni cristiano avrebbe da Dio missione d’apostolo!...

La messe è tanta, ma mancano gli operai.... Siamo operai capaci della nostra missione noi così miseri, così presi dalle cose mondane, così divorati dalle passioni, rosi dall’invidia, minati dalla superbia?.... Come potremo noi così indegni chiamare i fratelli?....

Apriamo gli occhi alla nostra miseria, chiediamo la luce che ce la mostri appieno e invochiamo pietà, misericordia; non ci sgomenti il nostro deplorevole stato, Dio ci può ancora salvare e ci salverà se noi apriamo il cuor nostro al suo spirito.... Il suo spirito, invocato ed accolto, ci trasformerà, ci farà risorgere; ed allora, rigenerati, anche noi come Maria, chiameremo i fratelli intorno a Gesù e lo spirito di Cristo trionferà tra noi!



Il Municipio di Milano ha ordinato 150 abbonamenti per distribuire in tutte le scuole i fascicoli dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI.




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E dove trovasi oggidì

il corpo di S. Satiro?

Nel numero del 24 febbraio scorso, furono prodotte le ragioni morali che farebbero ritenere come S. Satiro debba essere stato sepolto nella Basilica di Fausta, oggidì aggregata e incorporata nella Basilica Ambrosiana. E a meno di una prova materiale, di evidenza meridiana, non saremo per cangiare opinione.

Pure non è su questo particolare che da secoli si incrociano — se non le spade — le penne in un’aspra contesa; bensì sul luogo preciso dove riposano le ossa di S. Satiro; ritenendo la parrocchia di S. Vittore di possedere in una col corpo del martire celeberrimo, anche quello di S. Satiro, per ragione di quel disgraziato tetrastico da noi già citato e stigmatizzato per una miserabile mistificazione; e la parrocchia di S. Ambrogio ritenendo a sua volta di possedere almeno il corpo di S. Satiro per le ragioni che si diranno nel presente articolo.

Per i Santabrosiani è già una presunzione forte di possedere attualmente il corpo di S. Satiro, il fatto moralmente provato, che quel sacro corpo fu sepolto da S. Ambrogio nella Basilica di Fausta, nè mai trasportato altrove, da quanto consta finora. Recederemo da questa credenza, nel solo caso di una prova materiale che appoggi l’avvenuta traslazione.

Altro argomento di possesso crediamo di vederlo in questo che, il luogo sacro in cui fu deposto da S. Ambrogio il corpo del fratello benamato, lascia successivamente il nome di Basilica Faustae, poi quello di S. Vittore in ciel d’oro, per prendere e ritenere fino ai giorni nostri il nome di Sacellum o Cappella di S. Satiro.

Ultimo argomento la Tradizione, sia dei Monaci Benedettini e Cistercensi, sia del popolo. I Benedettini dal 1100 in avanti festeggiavano S. Satiro il 17 settembre. In detto giorno il Prevosto e i Canonici di S. Ambrogio funzionavano nella Cappella di S. Satiro, mentre i Monaci andavano a tenere gli stessi riti festivi nella Chiesa parrocchiale di S. Satiro allora alle loro dipendenze. La ragione dell’assentarsi dei Monaci dalla Cappella di S. Satiro, per quanto ne fossero divoti, e del lasciare ad altri il loro posto stava nel fatto di una convenzione precedente, avvenuta tra i Monaci stessi, l’Arcivescovo d’allora Pietro (805) e il custode titolare di S. Satiro un tal Forte, con cui si cedeva ai Monaci la custodia di S. Satiro, salvo il dì della festa in cui funzionerebbero i Canonici, a ricordare l’antica custodia tenuta in origine da sacerdoti secolari. (V. Monumenta Basilicae Am., Volume I, le prime 50 pagine). E dal testamento di Ansperto (869-881) si ricava che esso Arcivescovo «Ecclesiam S. Satyri et octo Monachos illic, ut praeceperat divina Mysteria in perpetuum peracturos, regimini subjecit Abbattis hujus Ambrosianae, etc.,» allo scopo d’ottenere unità d’azione.

Questa tradizione benedettina passò in eredità ai Cistercensi venuti a prenderne il posto nel 1490 e continuata fino all’epoca di S. Carlo, e bellamente riassunta in un dipinto che stette nell’abside della Cappella di S. Satiro fino al tempo dei ristauri ultimi eseguiti sotto il compianto Proposto Rossi (1860). Il qual fresco, se ripeteva in buona fede la leggenda della sepoltura di S. Satiro alla sinistra del Martire, messo lì nella Basilica di Fausta, attestava la comune credenza che fosse realmente sepolto S. Satiro.

E venne la famosa ricognizione di S. Carlo a soffocare questa tradizione; ma per poco. I Cistercensi, malgrado il loro atto di presenza alla ricognizione e traslazione solenne dei SS. Martiri e Confessori venerati nella prepositurale di S. Vittore, compresi S. Vittore e S. Satiro, malgrado la nessuna protesta contro l’affermazione di S. Carlo che toglieva loro S. Satiro per asserirlo di possesso della chiesa di S. Vittore, quei Cistercensi, io dico, continuarono la loro tradizione e l’affermarono anche con esteriorità. Nel 1737 infatti essi compiono nella Basilica di Fausta dei ristauri radicali e vi mettono due grandi dipinti del Tiepolo — ora purtroppo deperiti e quasi irriconoscibili — rappresentanti il Martirio di S. Vittore e il Naufragio di S. Satiro.

Ultimo grido della tradizione nostra, il 5 marzo del 1862, quando nel Processo della Riposizione dei corpi di S. Vittore e S. Satiro, nella Basilica di Fausta, clero e parrocchia di S. Ambrogio dissero di ritenere d’essere in possesso del corpo di S. Satiro, e la Veneranda Curia di Milano ingiungeva di riporre quel sacro deposito in venerazione come era stato prima (V. Rossi, Cronaca Basilica di S. Ambrogio, pp. 16). E d’allora a tutt’oggi quel grido continua incessante e in un crescendo di affermazione in ragione che è inasprito dalle pretese degli avversarii.

I quali alla loro volta hanno delle buone ragioni da far valere in favore del possesso del nostro S. Satiro, unitamente al loro S. Vittore, per via di quel tal tetrastico pseudo-ambrosiano. E chi promuove delle cause senza delle ragioni e delle credute buone ragioni? Orbene gli avversarii ci mettono innanzi anzitutto una loro Tradizione — sviluppatasi nel secolo IX — che tra altro dice come «in un’arca sita al disotto dell’altare maggiore in S. Vittore si doveano trovare non so quali corpi di S. Ambrogio, Gervaso e Protaso.....» (Cf. Purricelli). Ma quando una Tradizione ha di queste impudenze, ha già detto ciò che vale.

Argomento più forte sarebbe — se mai fosse consistente — quello dei mattoni trovati nel sepolcreto della prepositurale di S. Vittore e portanti parole che potrebbero dir tutt’altro, ma via, che si vuole che dicano S. Satirus. E che per ciò? Dopo gli studii dei competenti in materia, quei mattoni vanno ascritti ai secoli XII e XI al massimo. Non consta che siano sostituzione di altri di epoca anteriore, per non dire di epoca ambrosiana. Potrebbero essere opera di pie intenzioni, e potrebbero essere anche una deplorevole mistificazione, tutto quel che volete, fuorchè un argomento serio dimostrativo del possesso di S. Satiro per parte della chiesa di S. Vittore.

È poi con un senso di infinita soddisfazione che la parte avversaria ci mette innanzi l’argomento massimo — la ricognizione in favore della Porziana dei corpi di S. Vittore e Satiro, fatta (1576) da S. Carlo.

Senza mancare di rispetto al gran Santo milanese, siamo dolenti di dover dare ben scarso valore all’atto di lui; e non siamo soli a far ciò, e neppure i primi. Dal 1576 ad oggi, la lista di coloro che, non dico non ritennero definizione dogmatica o ex cattedra, ma nemmeno un verdetto di grande importanza la ricognizione suddetta è ben lunga. Per tacere d’altri, la suprema Autorità ecclesiastica e nel 1862 e in questo 1910, accogliendo la relazione Rossi-Biraghi e la relazione Comi tutt’ora in elaborazione, mostra di non credere perentorio, passato in giudicato il verdetto di S. Carlo. Il quale, se proprio non si limitò a far schiodare e richiudere urne di ossa venerate in S. Vittore, non fece molto di più in linea di critica, d’archeologia sacra, di liturgia, di storia, di antropometria, di anatomia comparata, che allora non erano nate ancora. Nulla di più ha fatto neppure in linea — diciamo così — religiosa, oppure di speciali facoltà di penetrazione, di intravedere, divinare, di fiuto sicuro e infallibile. Che S. Ambrogio a colpo sicuro abbia saputo dire che sotto terra, in determinato punto entro la Naborriana, ci fossero corpi di martiri e dei martiri Gervaso e Protaso, non ne viene di conseguenza che un suo successore nella [p. 103 modifica]cattedra di Milano — e il più grande dei suoi successori, almeno fino ad oggi — debbano potere far altrettanto. Certi doni non si trasmettono ai successori come si trasmetterebbe un diritto od un onore.

E del resto, avesse avuto S. Carlo tutti i presidii scientifici di cui si gloria l’età nostra, a qual risultato sarebbe venuto la sua ricognizione dei corpi venerati nel sepolcreto di S. Vittore? Allo stesso al quale sono arrivati coloro che se ne servirono dopo di lui; cioè, a nessun risultato positivo per parte del lavoro archeologico-edilizio; a esito di molta latitudine e incertezza il lavoro paleografico; e parimenti per parte del lavoro — inventario anatomico — eseguito sui supposti corpi di S. Vittore e Satiro. Giacchè, cosa si deve concludere da una straordinaria rispondenza di scheletri coi connotati storici e supposti di S. Vittore e Satiro? Che dunque quegli scheletri siano assolutamente, infallibilmente quelli di S. Vittore e S. Satiro? Tutti conoscono la strana rassomiglianza della maschera di Voltaire col beato Curato d’Ars; e più d’uno dei nostri lettori avrà sentito parlare del fossile trovato in Francia lo scorso anno (Cf. The Month, aprile 1909) il cui cranio somigliava moltissimo a quello Gambetta. (Cf. anche Revue pratique d’Apologetique, janv. 15, 1909, pp. 611 e segg.). A tanta distanza, e dopo tanti mutamenti di cose e di uomini, è lecito garantire al pubblico che nulla fu mutato di ciò che compi e ordinò S. Ambrogio nel seppellire il diletto Satiro? Di Santi autentici, da cui è escluso il pericolo di scambii, di inganni, noi milanesi — dicea un giorno il compianto mons. Ceriani — non abbiamo che S. Ambrogio, Gervaso e Protaso; per questi c’è la certezza fisica. Ma per altri, almeno una istessa certezza non c’è, non essendoci stati tramandati attraverso a sedici secoli, protetti, chiusi inviolabilmente, vegliati, non smembrati, dispersi qua e là, non confusi con altri, ben distinti, come i sacri pegni di cui è ricca la Basilica Ambrosiana. Osare dire allora che due scheletri, venerati quanto si voglia, e giacenti sia nel sepolcreto della prepositurale di S. Vittore o anche in quello della Basilica di Fausta, perchè hanno o non hanno i tali contrassegni, sono o non sono S. Vittore e S. Satiro, per me è troppo. Alessandro Magno sciolga pure con un colpo di spada il nodo gordiano, e più nessuno avrà a ridire; ma fare altrettanto in una questione che affaticò tante intelligenze superiori senza che trovassero mai la spiegazione, perchè assolutamente, ora come ora, ci mancano i dati d’evidenza, ha della temerità della peggior specie. Ma qualcuno degli avversarii deve aver compreso il debole della sua causa se ha dovuto confessare che riteneva messo da parte per sempre tutto il suo lavoro in merito. Si capì il bisogno che un nuovo Camillo venisse a gettare la sua spada sul piatto della bilancia in cui si pesava l’oro mancante del giusto peso; venne, fece il bel gesto, ma la bilancia non precipitò per questo dalla parte degli avversari.

È inutile sforzarsi come si fece, a sostenere una causa, poggiata sull’arena, a dispetto delle presunzioni originarie che la Basilica Ambrosiana vanta sul possesso di S. Satiro; basata sul falso supposto suggerito dall’apocrifo tetrastico santambrosiano. Non si ha lusso di studii che possa creare un fatto assurdo.

E qui deponiamo la penna, tanto più che il nostro compito era semplicemente quello di dare le linee generali d’una vertenza che ha fatto rumore, ma non presumendo tampoco di trattarla ex-professo o di riassumere il lavoro a cui alacremente attende chi deve dare all’Autorità le conclusioni nostre in merito.



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I funerali del comm. CANDIANI

A MILANO E A CORENNO


Imponenti i funerali celebrati a Milano, tanto che a ragione si disse che riuscirono un solenne plebiscito d’onore e d’amore.

Al Cimitero Monumentale prese per il primo la parola il senatore conte Panizzardi, prefetto, a nome di S. M. il Re, di S. M. la Regina Madre e del Governo.

Seguì il sindaco, comm. avv. Gabba: poi parlarono il senatore Conti, per il Consiglio dei Veterani, il commendatore Gondrand, per la Camera di Commercio, il sindaco di Turate, cav. Pollini, il rag. Finzi, il cav. ragioniere Norsa, il dotr. Soffiantini, il dott. Giongo e infine il veterano Zucchi, unico superstite dei tre primi ospiti della Casa di Turate.

A Corenno Plinio.

Il panorama di quel ramo di lago che conduce da Dervio a Dongo, a Gravedona e a Colico, si presentava in tutto il suo splendore, coi raggi primaverili che davano un aspetto incantevole alle acque argentee, circondate dai monti ricoperti sulle cime da nevi recentissime.

Il convoglio funebre si fermò alla stazione di Dervio, ove i terrieri in gran numero attendevano la salma del ben noto patriota e benefattore comm. Giuseppe Candiani.

Occorse circa un’ora per la disposizione del corteo, che doveva svolgersi per circa due chilometri sul magnifico stradone napoleonico per raggiungere Corenno Plinio, la pittoresca e silente dimora preferita dal rimpianto defunto.

Precedevano cento contadini che, due per due, portavano in bell’ordine cinquanta corone di fiori freschi. Ammiratissimi i Veterani, accompagnati dal vice-presidente, il comm. generale Gabba, e diretti dal tenente cav. Galli.

La vedova, signora Caterina Biffi, seguita dai figli, da uno stuolo di amici e dal popolo, accompagnò a piedi il feretro fino all’antica Chiesa di Corenno e poscia al Cimitero.

Il corteo suscitava le meraviglie dei terrieri, che scendevano dalle ripe erbose, mentre due fotografi, ad ogni svolta, fermavano sulle loro lastre le svariate successioni della pittoresca sfilata.

La cerimonia religiosa si effettuò nella Chiesa parrocchiale e si ripetè nella cappella che, costruita sotto l’abile direzione del genero, ing. cav. Luigi Silva, spicca sul fianco d’una roccia a picco del lago e si vede da tutti i paesi del ramo superiore.

L’estremo saluto fu dato dal sig. A. M. Cornelio, il quale sintetizzò la vita del patriota e del benefattore, affermando anche il di lui sentimento religioso, manifestatosi con evidenza in opere buone e in buoni esempi, specialmente coll‘ammissione delle Suore di Carità e coll’erezione della Cappella nella Casa di Turate, e, più ancora, con la convinzione espressa nel ricevere ripetutamente i conforti della religione.